Da oggi il Regno di Spagna implementa un altro tassello del famigerato “modello Italia” che tanti disastri sta provocando nel nostro paese: stiamo parlando della chiusura di tutte le attività non essenziali proclamata in un discorso alla nazione dal premier socialista Pedro Sanchez sabato sera, e confermata nella terza videoconferenza coi presidenti delle regioni autonome tenutasi ieri mattina.
Abbiamo fatto appositamente riferimento al nostro paese perché anche nella penisola iberica la decisione arriva con estremo ritardo rispetto alla dinamica dell’espansione del coronavirus, è osteggiata dalle rappresentanze datoriali e conservatrici e lascia in realtà un ampio numero di lavoratori al proprio posto. Ma andiamo con ordine.
María Jesús Montero, ministro delle Finanze dell’esecutivo Psoe-Podemos, ha definito la manovra del governo come un «aiuto al sistema produttivo per entrare in una sorta di letargo» fino alla fine della pandemia. L’esecutivo aveva cercato di evitare questa misura, definita da Sanchez come di «straordinaria durezza», mentre era richiesta con sempre maggiore insistente da una molteplicità di voce nel paese, dagli ambienti medici a quelli indipendentisti della sinistra basca, catalana e galiziana.
Evidentemente l’escalation di decessi e le crescenti pressioni hanno avuto la meglio, nonostante il portavoce del ministro abbia respinto le critiche secondo cui la decisione sia stata presa solo a seguito dei sempre peggiori dati sul contagio. «Non c’è stata alcuna situazione di allarme aggiuntiva sollevata dagli esperti», ha dichiarato, ma è difficile crederlo, anche solo dando uno sguardo al dibattito in corso nel paese.
La misura infatti viene accompagna da un nugolo di polemiche, in particolar modo per le tempistiche con cui è avvenuta. Al momento in cui scriviamo infatti, il Regno soffre di quasi 79mila contagi ufficiali, 6.528 decessi e poco meno di 15mila dimessi, concentrati soprattutto nella Comunità autonoma di Madrid.
Ma i dati già drammatici di per sé non raccontano che una parte della verità, perché al numero dei contagiati certamente inferiori rispetto a quello effettivo – mancanza di tamponi, di personale necessario a un eventuale copertura massiva di test sul territorio e “occorrenza politica” nel non ingrassare troppo il numero degli effettivi – si sommano i numerosi malati lasciati al loro destino nelle rispettive abitazioni e nelle case di riposo (tema che sta salendo alle cronache anche in Italia).
Tuttavia l’azione del governo non scontenta solo chi pone la salute della collettività davanti alle necessità della produzione, ma anche, da una parte, chi porta avanti gli interessi opposti, come la Ceoe (la Confindustria spagnola) che ha dichiarato che «le nuove misure impediranno di gettare le basi della necessaria ripresa economica in Spagna e porteranno, in ultima analisi, ad un aumento del tasso di disoccupazione», facendo già intendere cosa aspetterà i lavoratori.
Dall’altra, i presidenti delle varie comunità autonome, i quali da punti di vista anche opposti – Iñigo Urkullu per i Paesi Baschi, rappresentante della borghesia locale, boccia la chiusura delle industrie, mentre Quim Torra, president catalano, continua a chiedere il totale isolamento della regione – lamentano all’esecutivo la messa in disparte di qualsiasi loro richiesta in nome di una omogeneizzazione delle autonomie in considerazione del fatto che, parole del premier, «non ha senso fare differenze, il virus non capisce i confini, non è il momento della divisione».
Tutti scontenti insomma, con Sanchez, seguito qui a ruota anche da Podemos, che non perde occasione nel richiamare ai suoi “doveri comunitari” quell’Unione europea che nell’ultimo vertice di premier e presidenti ha conosciuto una spaccatura interna mai così profonda. Un segnale di debolezza, s’intende, così come quello di alcuni giorni fa di chieder supporto alla Nato per la fornitura di materiale medico. Ue e alleanza atlantica, non proprio le due istituzioni su cui ci sentiremmo di scommettere in questo preciso momento storico...
Ma cosa prevede la nuova misura? Il Decreto reale che ha imposto lo stato di emergenza elencava già una serie di attività che potevano rimanere operative, come la vendita al dettaglio di prodotti alimentari, bevande, prodotti e generi di prima necessità, prodotti farmaceutici, medici, ottici, ortopedici e prodotti per l’igiene, stampa e cancelleria, carburanti per autotrazione, tabaccherie, attrezzature tecnologiche e per telecomunicazioni, alimenti per animali domestici, commercio via internet, telefono o per corrispondenza, lavaggio a secco e lavanderia.
A queste vanno aggiunte i settori che impiegano i lavoratori della catena di fornitura del mercato e la gestione dei servizi nei centri di produzione di beni di prima necessità, delle aziende che devono garantire la manutenzione dei mezzi di trasporto, forze armate, le forze di sicurezza e i lavoratori delle società di sicurezza private, delle agenzie per il lavoro, dei centri sanitari e dei centri per l’assistenza agli anziani e alle persone non autosufficienti, che forniscono servizi nei media pubblici e privati, dei servizi finanziari ad eccezione di quelli assicurativi, dei servizi relativi alla protezione e alla cura delle vittime di violenza di genere.
E ancora, coloro che forniscono servizi in attività essenziali per la gestione di benefici pubblici, che prestano servizi in agenzie di gestione, società di consulenza, studi professionali, servizi di prevenzione dei rischi esterni e propri e, in generale, quelli dedicati all’attività di consulenza aziendale e agli addetti delle pulizie che operano in società di servizi essenziali. Questo senza contare tutti i lavoratori e le lavoratrici già impiegati tramite telelavoro.
Le società che operano per fornire questi servizi sono le uniche che potranno continuare a operare fino al 9 aprile. Per gli altri, il ministro del Lavoro Yolanda Díaz ha spiegato che durante questi giorni si applicherà un «congedo retribuito», misura che si affianca all’“Erte” (Expediente de Regulacion Temporal de Empleo, sorta di “Cassa integrazione” del Regno), con cui i lavoratori continueranno a ricevere normalmente il loro stipendio. «Quando tutto questo sarà finito – ha detto il ministro – le aziende e i lavoratori negozieranno per recuperare questi giorni non lavorati in modo flessibile entro il 31 dicembre 2020».
Insomma, di “fermo” c'è ben poco, così come nel nostro paese sono ancora 12 milioni i lavoratori e lavoratrici alle prese tutt’oggi con un impiego consentito. Inoltre, come denuncia la Cup, la possibilità di negoziare il recupero di queste ore pone un nuovo strumento in mano alle imprese per utilizzare in maniera flessibile, ossia secondo le necessità del datore di lavoro, la forza-lavoro non appena la situazione lo permetterà (o magari anche un po’ prima). «Non sono vacanze forzate», sottolinea il ministro, ma il fatto che non lo siano non significa che la situazione sia rosea, tutt’altro.
La Pasqua si avvicina, il picco di contagi con tutto quel che di drammatico si porta dietro – ospedali al collasso, aumenti delle vittime, scarsità di materiali, dolore per la popolazione – anche. Le suddette misure aiuteranno ben poco gli abitanti delle comunità autonome della penisola, lo stiamo sperimentando in Italia, non sarà diverso nel Regno.
Per ora, oltre la tragedia umanitaria e la confusione in cui è piombato l’esecutivo, ben poco.
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