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31/03/2020

Virus, sistema, governo e noi...

Durante la Conferenza Stampa di sabato 28 marzo, il Presidente del Consiglio e il ministro dell’economia del Governo Italiano hanno annunciato alcune norme per combattere l’emergenza sociale che si potrebbe verificare nei prossimi giorni, perdurando la crisi innestata dalla pandemia in Italia. Che alcuni provvedimenti siano urgenti e doverosi lo ammettono tutti.

Al termine delle relazioni, i giornalisti presenti hanno comunque deciso di non commentare le misure concentrandosi sulle questioni più generali relative ai rapporti tra l’Italia e la UE. In questo senso, le risposte di Conte e Gualtieri sono state reticenti e interlocutorie, ma è emersa comunque una distanza di prospettive che, fino a una settimana fa, era addirittura impensabile.

Probabilmente, le misure annunciate di contrasto alla povertà immediata sono deboli, insufficienti e discutibili sulle modalità. Si potrebbe dire sempre meglio che niente, ed effettivamente questo ragionamento ha una sua logica. Il problema è però più generale ed attiene nell’immediato alle capacità di spesa reali dell’Italia visto che ogni accordo complessivo in sede UE è per lo meno incerto e tutto da verificare.

L’Unione Europea ha festeggiato da poco i suoi 50 anni di esistenza. Una esistenza la cui vocazione è emersa in maniera inequivocabile almeno dagli anni 90 del secolo appena trascorso. L’Unione Europea ha festeggiato da poco i suoi 50 anni di esistenza. Una esistenza la cui vocazione è emersa in maniera inequivocabile almeno dagli anni ‘90 del secolo appena trascorso. Dopo la fine dell’esperimento socialista nella galassia sovietica, l’Unione Europea è stata la specifica risposta che le classi dominanti e i governi europei hanno deciso di darsi all’interno di una nuova fase dei rapporti internazionali, caratterizzati dalla fine delle alternative, da nuovi tipi di competizione internazionale, da una redistribuzione delle filiere produttive su scala mondiale.

Il processo di costituzione dell’Unione Europea entra quindi, dal trattato di Maastricht in poi, in una fase completamente nuova fino alla creazione della moneta unica, passando per l’elaborazione del Trattato di Lisbona che la dota di una sorta di costituzione informale, fino all’allargamento ai paesi dell’Est europeo.

Non è questa la sede per analizzare i singoli passaggi ma appare con tutta evidenza, e la pandemia con le sue conseguenze immediate e future non fa che rendere il tutto più chiaro, urgente e inequivocabile, che l’Unione Europea ha fallito in tutti i suoi obiettivi. Sicuramente ha fallito nei confronti dei diritti di gran parte del corpo sociale dei paesi membri a cominciare da quelli dei lavoratori, dei cittadini a basso reddito, delle piccole imprese. Fallimento che oggi può impattare duramente anche su quei settori che, invece, ci hanno guadagnato in ricchezza e potere a scapito dei più deboli. Contrazione generalizzata dei salari, aumento a dismisura della precarietà sociale, distruzione del welfare costruito dopo il secondo conflitto mondiale, disoccupazione generalizzata, distruzione del servizio sanitario nazionale, smantellamento dei servizi pubblici in generale, nessuna traccia di pianificazione economica se non di quella necessaria alle grandi imprese per competere su un mercato internazionale che altro non produce che enormi bolle finanziarie non risolvibili ma solo tamponabili attraverso ulteriori scarichi di responsabilità e oneri verso i lavoratori e verso interi stati (il caso della Grecia è forse il più emblematico del nostro continente).

Oggi la pandemia rischia di far saltare definitivamente il tappo a una situazione che era insostenibile già da tempo. Il disastro della sanità, con l’elenco dei tagli che ci sono stati negli ultimi decenni, non solo in Italia, ne è l’emblema. Ma anche i balbettii con cui i paesi europei e l’Italia affrontano il tema delle misure di contenimento del contagio, ci racconta di un sistema che rischia di travolgere se stesso (a cominciare dal macello sanitario lasciato indisturbato ad agire contro i lavoratori) senza nessuna possibilità di intervento da parte di governi in totale balia degli interessi dei padroni. La novità è che il sacrificio imposto a lavoratori e operatori sanitari, non può passare inosservato, non può essere considerato, cinicamente, alla maniera classica del capitale, come un fatto normale e necessario per competere; diventa impossibile non capire che attraverso queste politiche, la diffusione del contagio non risparmierà neppure le grandi imprese che rischiano di essere spazzate via lo stesso da uno tsunami internazionale.

Noi non possiamo sapere come finirà l’inedito braccio di ferro che sembra contrapporre il nostro e altri governi europei al governo tedesco e ai suoi alleati. Siamo in una situazione completamente diversa da quella che era stata affrontata dal governo di Syriza nel punto più drammatico della crisi greca nel 2015. In quel caso, Tsipras capitolò senza nessun aiuto concreto da nessun paese membro; lì si trattava di sacrificare i lavoratori e le classi popolari greche e l’Unione Europea, mostrando il suo volte feroce ed inumano, lo fece per salvare se stessa e le sue classi padronali. Ora, il volto feroce del MES, l’approccio di alcuni paesi che stanno nascondendo la reale natura della crisi in funzione di un aumento competitivo del proprio sistema industriale per il dopo pandemia, rischiano di essere crudeltà inutili. Quindi, quale sia la reale natura della contrapposizione in seno alla UE e a cosa allude per il nostro futuro va compreso bene; da una parte c’è chi ritiene che la crisi pandemica si risolverà con il sacrificio di milioni di persone e che tutto questa debba essere affrontato con iniezioni economiche che salvaguardino lo status quo: soldi per l’emergenza mantenendo uno stretto vincolo sulla destinazione a banche ed imprese e sacrifici da scaricare nuovamente su welfare, lavoratori e classi popolari. Questa è l’idea di fondo degli Stati legati al blocco tedesco ordoliberista. Dall’altra parte Italia, Francia e Spagna, che vorrebbero un meccanismo in cui i soldi possano essere destinati direttamente agli Stati per l’emergenza e per una ricostruzione del tessuto industriale. Le due ipotesi non sono equivalenti in quanto la prima serve esclusivamente a mantenere i rapporti di forza tra Stati esattamente come sono e, se possibile, acuire il divario tra paesi “virtuosi” e paesi “cicala”. La seconda allude a un meccanismo più solidale tra stati ma rischia comunque di essere insufficiente in quanto manterrebbe inalterato il meccanismo interno ai singoli stati nella divisione ineguale delle risorse e non affronterebbe nessun problema strutturale di fondo.

Ciò di cui abbiamo bisogno è di un meccanismo completamente ribaltato: bisogna ricostruire totalmente un rapporto sociale distrutto dalla fase neoliberista del capitalismo: i soldi devono essere usati per la ricostruzione del welfare, per il recupero dei diritti dei salariati, per la diminuzione della precarietà e della disoccupazione, per la reinternalizzazione dei servizi, per la scuola pubblica, per la riconversione del sistema industriale nel suo complesso.

Abbiamo bisogno di ricostruire il sistema industriale e sociale, per farlo non servono solo risorse ma anche recuperare il concetto di pianificazione e azione pubblica nell’economia, una idea di futuro che tenga conto dell’intera collettività. Un meccanismo solidale in cui i deboli e i lavoratori siano al centro di una esperienza collettiva. Abbiamo bisogno di tornare a muoverci dal punto di vista delle relazioni internazionali non più per alimentare contrapposizioni tra blocchi, guerre per il controllo delle risorse, devastazioni ambientali, ma per istituire relazioni solidali.

Con tutte le contraddizioni che si portano dietro, oggi assistiamo a uno spettacolo in cui paesi come Cina, Cuba o Venezuela ci stanno dando una lezione solidale. Non esiste un reale modello immediatamente trasferibile all’Italia date le differenze di cultura storica e di contesto. I patti di azione tra quei paesi ci sono ma sono legati anche ad interessi concreti non sempre idealizzabili. I sistemi economici e di governo sono diversi e si portano dietro enormi contraddizioni. Ma è difficile non vedere come nel mondo esistono comunque differenti modelli (anche se interconnessi tra loro in maniera non necessariamente virtuosa) che, in questo come in altre crisi, danno risposte qualitativamente diverse, non solo a livello di salvaguardia per le fasce meno protette ma anche a livello di risultati pratici.

Oggi possiamo anche valutare come tendenzialmente positiva la posizione del Governo italiano nei confronti della UE, lavorare e sostenere gli sforzi per una “svolta epocale” (come sostenuto da Conte) per la UE. Molto probabilmente non si arriverà a questa svolta e si troverà un compromesso da valutare. Le responsabilità, le attitudini e i referenti sociali del nostro governo non permettono comunque nessuna illusione di fondo. Ma la situazione è tale che anche questa possibile “svolta” non ci porterà fuori dal pantano in cui siamo immersi. L’Unione Europea è un progetto fallito anche se proverà (o per lo meno sarà costretta) a cambiare parte della propria natura. Prima questo mostro salterà in aria meglio sarà, non solo per noi, ma per tutti i lavoratori e gli sfruttati in Europa.

I popoli e i lavoratori europei nel loro complesso hanno bisogno di altro.

Hanno bisogno di istituzioni e governi che si rendano autonomi da un modello di sviluppo fallimentare, hanno bisogno di una prospettiva socialista, solidale e collettiva in grado di relazionarsi in maniera solidale con l’intero pianeta. Ciò di cui dobbiamo decidere è che tipo di relazioni sociali vogliamo avere, quale potere avranno i lavoratori nelle scelte da intraprendere, come vogliamo che siano la sanità, la scuola, i trasporti. Dobbiamo decidere se l’Italia debba continuare a produrre armi o apparati medici, se vuole continuare ad applicare sanzioni e ad alimentare guerre, se vuole costringere interi paesi a perire mentre si scatenano guerre per le risorse e milioni di persone sono costrette a migrare per essere emarginate e sfruttate nei paesi ricchi oppure vuole lavorare per una sana cooperazione tra popoli. Dobbiamo scegliere se vogliamo sacrificare le nostre vite per profitti di pochi, morire per guerre, pandemie prossime venture, se vogliamo essere considerati eroi da chi continua, oggi come ieri, a mandarci al macello oppure lavorare per una impresa collettiva in cui i sacrifici li facciamo per noi e non per padroni e governanti avidi, corrotti e incapaci.

Ciò ci interroga anche come militanti e attivisti comunisti: oggi è in gioco un modello di ricostruzione; la pandemia agisce e agirà come una tabula rasa rispetto a una guerra di posizione in cui ognuno di noi faceva per se stesso. Abbiamo oggettive difficoltà a intervenire in qualsiasi dibattito a causa delle nostre divisioni storiche sia a livello del nostro paese sia a livello internazionale. Vale forse la pena di sviluppare un ragionamento complessivo sulla situazione attuale e futura, capire se vogliamo intervenire e provare ad incidere su un processo di rinnovamento che comunque ci sarà per forza di cose, capire quale è il modo per provare a farlo. Tra le cose da comprendere nella fase che si apre c’è anche il fatto che l’atteggiamento tenuto fino a ora come comunisti ed anticapitalisti è stato totalmente inadeguato ed è giunto il momento di affrontare anche questa questione con urgenza e spirito unitario.

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