Durante la Conferenza Stampa di sabato 28 marzo,
il Presidente del Consiglio e il ministro dell’economia del Governo
Italiano hanno annunciato alcune norme per combattere l’emergenza
sociale che si potrebbe verificare nei prossimi giorni, perdurando la
crisi innestata dalla pandemia in Italia.
Che alcuni provvedimenti siano urgenti e doverosi lo ammettono tutti.
Al termine delle relazioni, i giornalisti presenti hanno comunque
deciso di non commentare le misure concentrandosi sulle questioni più
generali relative ai rapporti tra l’Italia e la UE. In questo senso, le
risposte di Conte e Gualtieri sono state reticenti e interlocutorie, ma è
emersa comunque una distanza di prospettive che, fino a una settimana
fa, era addirittura impensabile.
Probabilmente, le misure annunciate di contrasto alla povertà
immediata sono deboli, insufficienti e discutibili sulle modalità. Si
potrebbe dire sempre meglio che niente, ed effettivamente questo
ragionamento ha una sua logica. Il problema è però più generale ed
attiene nell’immediato alle capacità di spesa reali dell’Italia visto
che ogni accordo complessivo in sede UE è per lo meno incerto e tutto da
verificare.
L’Unione Europea ha festeggiato da poco i suoi 50 anni di esistenza.
Una esistenza la cui vocazione è emersa in maniera inequivocabile almeno
dagli anni 90 del secolo appena trascorso. L’Unione Europea ha
festeggiato da poco i suoi 50 anni di esistenza. Una esistenza la cui
vocazione è emersa in maniera inequivocabile almeno dagli anni ‘90 del
secolo appena trascorso. Dopo la fine dell’esperimento socialista nella
galassia sovietica, l’Unione Europea è stata la specifica risposta che
le classi dominanti e i governi europei hanno deciso di darsi
all’interno di una nuova fase dei rapporti internazionali,
caratterizzati dalla fine delle alternative, da nuovi tipi di
competizione internazionale, da una redistribuzione delle filiere
produttive su scala mondiale.
Il processo di costituzione dell’Unione Europea entra quindi, dal
trattato di Maastricht in poi, in una fase completamente nuova fino alla
creazione della moneta unica, passando per l’elaborazione del Trattato
di Lisbona che la dota di una sorta di costituzione informale, fino
all’allargamento ai paesi dell’Est europeo.
Non è questa la sede per analizzare i singoli passaggi ma
appare con tutta evidenza, e la pandemia con le sue conseguenze
immediate e future non fa che rendere il tutto più chiaro, urgente e
inequivocabile, che l’Unione Europea ha fallito in tutti i suoi
obiettivi. Sicuramente ha fallito nei confronti dei diritti di
gran parte del corpo sociale dei paesi membri a cominciare da quelli dei
lavoratori, dei cittadini a basso reddito, delle piccole imprese.
Fallimento che oggi può impattare duramente anche su quei settori che,
invece, ci hanno guadagnato in ricchezza e potere a scapito dei più
deboli. Contrazione generalizzata dei salari, aumento a dismisura della
precarietà sociale, distruzione del welfare costruito dopo il secondo
conflitto mondiale, disoccupazione generalizzata, distruzione del
servizio sanitario nazionale, smantellamento dei servizi pubblici in
generale, nessuna traccia di pianificazione economica se non di quella
necessaria alle grandi imprese per competere su un mercato
internazionale che altro non produce che enormi bolle finanziarie non
risolvibili ma solo tamponabili attraverso ulteriori scarichi di
responsabilità e oneri verso i lavoratori e verso interi stati (il caso
della Grecia è forse il più emblematico del nostro continente).
Oggi la pandemia rischia di far saltare definitivamente il tappo a
una situazione che era insostenibile già da tempo. Il disastro della
sanità, con l’elenco dei tagli che ci sono stati negli ultimi decenni,
non solo in Italia, ne è l’emblema. Ma anche i balbettii con cui i paesi
europei e l’Italia affrontano il tema delle misure di contenimento del
contagio, ci racconta di un sistema che rischia di travolgere se stesso
(a cominciare dal macello sanitario lasciato indisturbato ad agire
contro i lavoratori) senza nessuna possibilità di intervento da parte di
governi in totale balia degli interessi dei padroni. La novità è che il
sacrificio imposto a lavoratori e operatori sanitari, non può passare
inosservato, non può essere considerato, cinicamente, alla maniera
classica del capitale, come un fatto normale e necessario per competere;
diventa impossibile non capire che attraverso queste politiche, la
diffusione del contagio non risparmierà neppure le grandi imprese che
rischiano di essere spazzate via lo stesso da uno tsunami
internazionale.
Noi non possiamo sapere come finirà l’inedito braccio di ferro che
sembra contrapporre il nostro e altri governi europei al governo tedesco
e ai suoi alleati. Siamo in una situazione completamente diversa da
quella che era stata affrontata dal governo di Syriza nel punto più
drammatico della crisi greca nel 2015. In quel caso, Tsipras capitolò
senza nessun aiuto concreto da nessun paese membro; lì si trattava di
sacrificare i lavoratori e le classi popolari greche e l’Unione Europea,
mostrando il suo volte feroce ed inumano, lo fece per salvare se stessa
e le sue classi padronali. Ora, il volto feroce del MES, l’approccio di
alcuni paesi che stanno nascondendo la reale natura della crisi in
funzione di un aumento competitivo del proprio sistema industriale per
il dopo pandemia, rischiano di essere crudeltà inutili. Quindi, quale
sia la reale natura della contrapposizione in seno alla UE e a cosa
allude per il nostro futuro va compreso bene; da una parte c’è chi
ritiene che la crisi pandemica si risolverà con il sacrificio di milioni
di persone e che tutto questa debba essere affrontato con iniezioni
economiche che salvaguardino lo status quo: soldi per l’emergenza
mantenendo uno stretto vincolo sulla destinazione a banche ed imprese e
sacrifici da scaricare nuovamente su welfare, lavoratori e classi
popolari. Questa è l’idea di fondo degli Stati legati al blocco tedesco
ordoliberista. Dall’altra parte Italia, Francia e Spagna, che vorrebbero
un meccanismo in cui i soldi possano essere destinati direttamente agli
Stati per l’emergenza e per una ricostruzione del tessuto industriale.
Le due ipotesi non sono equivalenti in quanto la prima serve
esclusivamente a mantenere i rapporti di forza tra Stati esattamente
come sono e, se possibile, acuire il divario tra paesi “virtuosi” e
paesi “cicala”. La seconda allude a un meccanismo più solidale tra stati
ma rischia comunque di essere insufficiente in quanto manterrebbe
inalterato il meccanismo interno ai singoli stati nella divisione
ineguale delle risorse e non affronterebbe nessun problema strutturale
di fondo.
Ciò di cui abbiamo bisogno è di un meccanismo completamente
ribaltato: bisogna ricostruire totalmente un rapporto sociale distrutto
dalla fase neoliberista del capitalismo: i soldi devono essere usati per
la ricostruzione del welfare, per il recupero dei diritti dei
salariati, per la diminuzione della precarietà e della disoccupazione,
per la reinternalizzazione dei servizi, per la scuola pubblica, per la
riconversione del sistema industriale nel suo complesso.
Abbiamo bisogno di ricostruire il sistema industriale e sociale, per
farlo non servono solo risorse ma anche recuperare il concetto di
pianificazione e azione pubblica nell’economia, una idea di futuro che
tenga conto dell’intera collettività. Un meccanismo solidale in cui i
deboli e i lavoratori siano al centro di una esperienza collettiva.
Abbiamo bisogno di tornare a muoverci dal punto di vista delle relazioni
internazionali non più per alimentare contrapposizioni tra blocchi,
guerre per il controllo delle risorse, devastazioni ambientali, ma per
istituire relazioni solidali.
Con tutte le contraddizioni che si portano dietro, oggi assistiamo a
uno spettacolo in cui paesi come Cina, Cuba o Venezuela ci stanno dando
una lezione solidale. Non esiste un reale modello immediatamente
trasferibile all’Italia date le differenze di cultura storica e di
contesto. I patti di azione tra quei paesi ci sono ma sono legati anche
ad interessi concreti non sempre idealizzabili. I sistemi economici e di
governo sono diversi e si portano dietro enormi contraddizioni. Ma è
difficile non vedere come nel mondo esistono comunque differenti modelli
(anche se interconnessi tra loro in maniera non necessariamente
virtuosa) che, in questo come in altre crisi, danno risposte
qualitativamente diverse, non solo a livello di salvaguardia per le
fasce meno protette ma anche a livello di risultati pratici.
Oggi possiamo anche valutare come tendenzialmente positiva la
posizione del Governo italiano nei confronti della UE, lavorare e
sostenere gli sforzi per una “svolta epocale” (come sostenuto da Conte)
per la UE. Molto probabilmente non si arriverà a questa svolta e si
troverà un compromesso da valutare. Le responsabilità, le attitudini e i
referenti sociali del nostro governo non permettono comunque nessuna
illusione di fondo. Ma la situazione è tale che anche questa possibile
“svolta” non ci porterà fuori dal pantano in cui siamo immersi. L’Unione
Europea è un progetto fallito anche se proverà (o per lo meno sarà
costretta) a cambiare parte della propria natura. Prima questo mostro
salterà in aria meglio sarà, non solo per noi, ma per tutti i lavoratori
e gli sfruttati in Europa.
I popoli e i lavoratori europei nel loro complesso hanno bisogno di altro.
Hanno bisogno di istituzioni e governi che si rendano autonomi da un
modello di sviluppo fallimentare, hanno bisogno di una prospettiva
socialista, solidale e collettiva in grado di relazionarsi in maniera
solidale con l’intero pianeta. Ciò di cui dobbiamo decidere è che tipo
di relazioni sociali vogliamo avere, quale potere avranno i lavoratori
nelle scelte da intraprendere, come vogliamo che siano la sanità, la
scuola, i trasporti. Dobbiamo decidere se l’Italia debba continuare a
produrre armi o apparati medici, se vuole continuare ad applicare
sanzioni e ad alimentare guerre, se vuole costringere interi paesi a
perire mentre si scatenano guerre per le risorse e milioni di persone
sono costrette a migrare per essere emarginate e sfruttate nei paesi
ricchi oppure vuole lavorare per una sana cooperazione tra popoli.
Dobbiamo scegliere se vogliamo sacrificare le nostre vite per profitti
di pochi, morire per guerre, pandemie prossime venture, se vogliamo
essere considerati eroi da chi continua, oggi come ieri, a mandarci al
macello oppure lavorare per una impresa collettiva in cui i sacrifici li
facciamo per noi e non per padroni e governanti avidi, corrotti e
incapaci.
Ciò ci interroga anche come militanti e attivisti comunisti: oggi è
in gioco un modello di ricostruzione; la pandemia agisce e agirà come
una tabula rasa rispetto a una guerra di posizione in cui ognuno di noi
faceva per se stesso. Abbiamo oggettive difficoltà a intervenire in
qualsiasi dibattito a causa delle nostre divisioni storiche sia a
livello del nostro paese sia a livello internazionale. Vale forse la
pena di sviluppare un ragionamento complessivo sulla situazione attuale e
futura, capire se vogliamo intervenire e provare ad incidere su un
processo di rinnovamento che comunque ci sarà per forza di cose, capire
quale è il modo per provare a farlo. Tra le cose da comprendere nella
fase che si apre c’è anche il fatto che l’atteggiamento tenuto fino a
ora come comunisti ed anticapitalisti è stato totalmente inadeguato ed è
giunto il momento di affrontare anche questa questione con urgenza e
spirito unitario.
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