Stanno cominciando a capire. E reagiscono come sanno, tra panico e ansia di speculare anche sul panico, tra paura della “competizione” e non conoscere altro che la “competizione”.
Le borse crollano in tutto il mondo (e si attende che apra Wall Street per certificare il panic selling globale) sulla base di due – non “uno” – evento shock di portata mondiale. E il coronavirus, quasi paradossalmente, nel modo dei “mercati” sembra quasi quello mano grave.
Il secondo è infatti la “guerra del petrolio” che si sta manifestando con un crollo mostruoso del prezzo di tutti gli idrocarburi. È una guerra di tutti contro tutti, tra i produttori di greggio. Il fallimento del recente vertice Opec Plus (i 13 paesi dell’Opec più la Russia) ha spinto l’Arabia Saudita ad aumentare la produzione, il che implica immediatamente un ribasso del prezzo. Ma altrettanto stanno facendo anche gli altri, a partire dalla Russia.
Questo significa una maggiore dimensione dell’offerta di petrolio sul mercato proprio mentre la parallela crisi del coronavirus abbassa drasticamente la domanda, visto che le industrie vanno riducendo la produzione e anche la circolazione degli autoveicoli privati va conoscendo dappertutto una drastica riduzione.
C’è anche un’intenzione, sia economica che geopolitica, dietro questa spinta alla riduzione del prezzo: mettere fuori mercato lo shale oil statunitense, ossia il greggio estratto a costi altissimi da sabbie e rocce bituminose con la tecnica – ambientalmente mortifera – del fracking.
La Borsa italiana, altamente speculativa e con le banche a rappresentare quasi il 40% della capitalizzazione, ha perso il 10% già in apertura, con una quantità mostruosa di titoli azionari che “non riescono a fare prezzo” (ossia nessuno li vuole, a nessun prezzo).
Poco meglio il resto d’Europa, con Londra che perde per il momento il 5%, Parigi e Francoforte allo stesso livello, che replica l’andamento di Tokyo; mentre Shangai perde appena lo 0,6%, confermando la fiducia nella ripresa immediata dell’economia cinese, con ormai alle viste la fine dell’emergenza virus.
Occidente e Oriente “non occidentale” viaggiano insomma su binari divergenti, a quanto pare...
Due crisi connesse
Ma è chiaro che petrolio e virus sono due facce dello stesso processo: la crisi sistemica globale. Già prima della fine dell’anno si stavano moltiplicando i segnali, e dunque anche le analisi preoccupate, sulla recessione mondiale in arrivo. Il virus non ha fatto altro che dare il via ufficiale alla congiuntura negativa, ma su una scala che nessuno neanche immaginava.
Al di là delle preoccupazioni sanitarie – decisive per le popolazioni, ma disprezzate dagli “investitori” – si sta infatti dimostrando che l’interconnessione delle economie è un fatto fisico, impastato di corpi e relativi problemi. Il sogno di un’economia planetaria in cui circolano liberamente merci e capitali, ma non gli uomini – fastidiosi portatori di istanze, diritti, tradizioni culturali, ambizioni, dolori, ecc. – si è dimostrato per l’appunto soltanto un sogno.
La realtà è fatta anche di virus invisibile e fin qui sconosciuti, che viaggiano attraverso i corpi dei manager e degli altri addetti alla circolazione mercantile, i turisti, ecc. I migranti sui barconi o i profughi utilizzati come massa di manovra al confine greco-turco, poveretti, non possono presentare che microbi antichi, già studiatissimi: quelli della povertà e della fame, che sarebbero anche più facilmente curabili, se il sistema fosse un altro.
La frenata economica mondiale innescata dal virus è al momento ben lontana dall’aver raggiunto il suo picco. La Cina, con misure di contenimento drastiche, addirittura criticate dai media occidentali e collegate retoricamente alle “abitudini delle dittature”, si sono rivelate efficaci. Le cure mediche universali hanno portato alla costruzione di nuovi ospedali in tempi record; si registrano guarigioni in persone ormai centenarie, mentre qui da noi – in una sanità pubblica con i posti letto falcidiati dai tagli di spesa – si comincia a prendere in seria considerazione l’eventualità di mettere in terapia intensiva o rianimazione soltanto “chi ha ragionevoli possibilità di sopravvive.
Al contrario, la predominanza assoluta delle imprese private sta in Occidente imponendo una distinzione folle tra “attività produttive” e “attività non necessarie”, come se il virus avesse un occhio di riguardo per chi lavora rispetto a chi si sta divertendo. La conseguenza è facilissima da prevedere: il virus continuerà a diffondersi quasi come se non ci fosse alcuna restrizione, e l’economia crollerà lo stesso (il blocco delle “attività minori” – dalla ristorazione ai locali per attività ricreative, dal turismo alle manifestazioni culturali, ecc – diminuisce comunque fortemente la domanda complessiva e i consumi, quindi lo sbocco di mercato per le altre merci).
Due sistemi a confronto
Senza alcuna intenzione di esaltare il modello cinese, dobbiamo però registrare che la crisi da coronavirus è stata lì affrontata in termini che qualche anno fa si sarebbero detti “keynesiani”. Il blocco totale delle attività produttive, come di quelle solo “relazionali”, non ha comportato alcuna procedura di licenziamento individuale o collettivo. Lo sforzo del Paese risponde al criterio primum vivere, deinde fabricare, cui corrisponde l’assoluta certezza che la società nel suo complesso, tramite l’azione dello Stato, si farà carico dei costi economici e sanitari dell’epidemia tramite investimenti massicci che facciano recuperare al più presto i ritmi di crescita ultratrentennali.
Accettano di pagare un prezzo come Paese (non come singole imprese, che vengono ovviamente supportate in toto così come i loro dipendenti), forse non riusciranno a tornare veloci come prima, ma indubbiamente è un modo di contenere la crisi entro limiti controllabili.
Qui da noi, invece, si sta seguendo i desiderata delle imprese multinazionali e della finanza. Quindi si può, anzi si deve, lavorare come se niente fosse – inutili mascherine a parte, che fanno scenografia ma non contenimento – alla Fiat o in altre grandi industrie, mentre le microattività possono anche andare a ramengo.
Soprattutto, però, non c’è alcuna tutela dell’occupazione. Le aziende possono licenziare, e molte lo fanno; oppure dispongono “ferie forzate”. I precari non si vedono confermare i contratti. Ecc.
Lo Stato, ormai da quasi 40 anni piegato a quelle esigenze, neanche riesce a pensare di poter avere una funzione diversa dal “guardiano delle regole di mercato” e di “repressore del conflitto sociale”.
L’intervento nell’economia gli è stato precluso “per legge” dai trattati dell’Unione Europea. La possibilità di finanziarsi autonomamente in deficit se l’è preclusa da solo fin dal 1981 (quando Andreatta impedì per legge che la Banca d’Italia partecipasse alle aste dei titoli di Stato, clamierandone prezzo e livello degli interessi), riuscendo nel doppio capolavoro suicida di mettersi un cappio intorno al collo (ogni nuova spesa va finanziata ricorrendo a prestiti sul mercato o aumenti della tassazione) e impedirsi di toglierlo quando comincia a stringere (altrimenti sale lo spread).
Le manovre sul Mes confermano in pieno una certezza: l’austerità europea prosegue come se nulla stesse avvenendo, prefigurando (immaginando) rapporti di forza ancora più favorevoli al grande capitale privato e agli Stati del “grande Nord”. Dunque per l'eventuale “ripresa post-epidemia” non è lecito attendersi un vero “aiuto dall’Europa”, ossia quei massicci investimenti produttivi che soli possono tenere in piedi l’economia e l’occupazione.
Di questo è consapevole persino un funzionario ben noto del grande capitale, come Carlo Cottarelli. Il quale, in un’intervista a MilanoFinanza, spiega come, a questo punto, servirebbe “Un Piano Marshall finanziato dagli eurobond [titoli di Stato europei, garantiti dall’insieme della Ue, ndr], mi rendo conto che si tratta di fantascienza, se non si convincono i Paesi del nord Europa. A meno che non ci sia una grave crisi economica nell’Ue e se ne convinca anche la Germania. E poi serve anche l’Unione Fiscale, altra fantascienza...”.
Non è finita: “Il Fiscal Compact andrebbe sospeso [perché] di fatto si è rivelato inutile al contenimento del debito nonostante i vincoli”.
Ma è fantascienza, naturalmente. Tutto dovrebbe continuare come prima, senza preoccuparsi del crollo generale…
Il Piano Marshall dalla Cina
La situazione è talmente grave che il direttore di MF, quotidiano economico edito dal grupp Class, vicinissimo a Banca Intesa, arriva a sua volta descrivere la necessità di un nuovo Piano Marshall, come quello messo in campo nel dopoguerra dagli Stati Uniti per ricostruire l’Europa.
Solo che, non nutrendo evidentemente alcuna fiducia nella “lungimiranza” della Ue, o almeno della Germania, indica come auspicabile un analogo intervento da parte cinese. Leggiamolo:
“Un piano Marshall Italia-Cina è possibile proprio perché l’Italia è il Paese più colpito e quello che più sta subendo l’ostracismo di molti membri della Ue, per non parlare degli Stati Uniti. Nell’immensa sciagura del coronavirus la solidarietà che si percepisce a più voci da parte della Cina verso l’Italia è da capitalizzare per far crescere significativamente l’interscambio con il riequilibrio delle esportazioni italiane.”
Sembra proprio che anche un settore importante del grande capitale italiano si sia reso conto che non c’è futuro nell’Unione Europea, né negli Usa di Trump; e stia perciò cercando disperatamente altre vie per conservarsi così com’è.
Ma anche questo è un elemento di crisi, a sua volta. Perché, come dicevamo all’inizio, la reazione a una crisi comune – stando così i rapporti sia economici che geopolitici – si manifesta come aumento della competizione, non come “governo unitario (e paritario) del mondo”.
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