Nella pratica, però, per citare il premier Conte, abbiamo corso “un rischio calcolato”. “Convivere con il virus significa anche convivere con un certo livello, accettabile, di rischio”, concordava l’epidemiologo Lopalco, della task force pugliese, nello stesso periodo, a metà maggio. Ma quanto era calcolato il rischio? Quanto azzardata la scommessa? “Queste sono parole che dovrebbero fare paura”, si allarmava in quei giorni Enrico Bucci, biologo alla Temple University di Philadelphia. “Le possibilità sono due: o abbiamo calcoli di rischio epidemiologico sballati, oppure il calcolo che si sta facendo e i rischi che si stanno prendendo in considerazione sono altri – e precisamente il rischio economico di fronte al rischio di perdere altre vite. Questo calcolo non è scientifico, ma politico”. Varie ricerche scientifiche consigliavano, infatti, più prudenza.
All’inizio di luglio, 239 scienziati hanno firmato una lettera inviata all’Organizzazione Mondiale della Sanità, invitando a non sottovalutare l’eventualità di un contagio tramite particelle più piccole dei droplets, aerosolizzate, in ambienti chiusi, affollati e con ventilazione inadeguata. I sospetti derivavano da alcuni focolai spiegabili solo attraverso l’ipotesi di una fluttuazione di microgoccioline a diversi metri di distanza. È il caso di un pranzo in un ristorante di Guangzhou, il 24 gennaio, quando un soggetto positivo contagiò clienti seduti anche a tavoli distanti, a causa del sistema di ventilazione inadeguato del locale, o del cluster esploso a febbraio durante una lezione di zumba in Corea del Sud, o più recentemente dei 69 casi di Covid-19 collegati a un corso di spinning in un centro fitness canadese, nonostante la capienza limitata al 50% e il rispetto delle regole di distanziamento. Ilan Schwartz, infettivologo all’Università dell’Alberta, non ha escluso che le goccioline emesse durante l’intenso sforzo fisico siano state aerosolizzate e disseminate per la stanza dal movimento delle ruote delle biciclette. Secondo gli autori di uno studio pubblicato su Science, le prove di una trasmissione aviotrasportata del virus sono ormai schiaccianti, tanto che il 5 ottobre il Cdc americano si è sbilanciato a favore di questa teoria, sopravanzando la stessa Oms. In assenza di una ventilazione esterna, come una finestra aperta, né il distanziamento né le mascherine chirurgiche sembrerebbero riparare dal contagio in un luogo chiuso nel caso in cui l’esposizione si aggirasse intorno alle due ore.
Per mesi abbiamo dunque assistito a una surreale trattativa fra governo, lobby e scienza, che di scientifico purtroppo aveva ben poco, basti pensare alle enormi incongruenze che ha fatto emergere. La misurazione della distanza fra tavoli nei ristoranti, prima individuata in due metri, poi in uno su richiesta delle regioni; la capienza dei mezzi pubblici, prima ridotta al 60%, poi riaumentata all’80%; il divieto governativo di riapertura delle discoteche, smentito di fatto dalla concessione di deroghe alle regioni per autorizzarne la ripresa; la frettolosa e indiscriminata riapertura dei confini per salvare la stagione turistica, anche verso Paesi, come il Regno Unito, che registravano ancora più di 3mila casi al giorno. La preoccupazione di venire incontro ai settori più danneggiati dalla prima ondata era giusta e legittima, ma nei fatti si è tradotta in un illusorio e fragile compromesso tra l’economia e i criteri della scienza. Quando magari invece di affidarsi come sempre al liberismo, e quindi alla riapertura più o meno indiscriminata dei mercati, misure di sostegno strutturali avrebbero portato nel lungo periodo più benefici e soprattutto li avrebbero portati in maniera più equa.
Vanno tuttavia riconosciute delle attenuanti al governo italiano: da un lato, come dicevamo, ha subìto la pressione asfissiante delle lobby industriali, come Confindustria e di consorterie economiche di ogni ordine e grado; dall’altro, è stato incalzato da un’opposizione che, pur di recitare il ruolo del bastian contrario, si è irresponsabilmente arroccata su posizioni antiscientifiche: invocazioni contro il distanziamento, minimizzazione degli avvertimenti di una seconda ondata, inviti a non scaricare l’app Immuni, convegni negazionisti. Tutto ciò ha prodotto la falsa rappresentazione di un conflitto inconciliabile tra salvaguardia della salute, deprezzata a “terrorismo mediatico” e garanzie economiche, delle quali Salvini e Meloni sarebbero stati, neanche a dirlo, gli unici difensori.
Consola poco che il nostro Paese sia stato celebrato nei mesi scorsi come un inatteso modello di efficienza nel contenimento dell’epidemia, in confronto a Stati in genere reputati organizzativamente superiori, ma puniti da più rapide accelerazioni del virus in questa seconda ondata. D’altronde, per fare un esempio eclatante, la Francia ha introdotto norme ancora più incoerenti delle nostre, obbligando i cittadini a indossare la mascherina all’aperto ma solo consigliandola nei luoghi pubblici al chiuso, come i cinema. Le massime autorità sanitarie olandesi, invece, si sono ostinatamente rifiutate di riconoscere l’utilità delle mascherine e ancora oggi non ritengono contagiosi i positivi asintomatici, ai quali è giusto raccomandato un autoisolamento di tre giorni dopo il tampone.
Forse, però, il punto nodale della questione non è nemmeno domandarsi se il governo poteva fare di più – e senz’altro poteva – ma se la strategia della convivenza con il virus sia davvero compatibile con la nostra conformazione di società e il nostro assetto istituzionale. Oggi la convivenza con il virus comporta il contrario di quello che avremmo sperato. Significa tagliare la nostra indispensabile dimensione sociale, la prima a essere considerata superflua dal sistema. L’errore, però, è stato anche nostro. Avremmo dovuto intuire che socialità e igiene sarebbero stati incompatibili con la gestione di un’epidemia, anche a bassa intensità. Ci siamo illusi che la convivenza con il virus rispondesse a una logica umanistica di pratico equilibrio tra diritti del singolo e doveri della collettività, mentre nella realtà è sempre e solo stata una fredda strategia economicistica, che non avrebbe esitato a sacrificare tutto ciò per cui secondo noi vale la pena vivere in nome del Pil.
D’altronde è questo il modello di società neoliberista che ci ha cresciuti, in cui viviamo e in cui siamo oggi quarantenati. Non c’è razionalità, non c’è riflessione a lungo termine, solo un calcolo di massimizzazione dei benefici nell’immediato. La nostra società #nonsiferma e non si può fermare, se non a costo di un sovvertimento totale che nessuno sembra volere, perché fa paura e insieme alla promessa di qualcosa di meglio porta con sé anche molti aspetti negativi, in primis per noi stessi, per la nostra vita di tutti i giorni, per le nostre certezze. Così scegliamo ancora una volta il male minore. “Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”, si diceva. Be’, ci siamo tornati.
La strategia della convivenza con il virus è una disfatta generale del modello occidentale. Cina, Vietnam, Taiwan, Nuova Zelanda hanno capito subito che non sarebbe stato praticabile convivere con il virus. Si sono posti l’obiettivo ambizioso di eliminarlo completamente. E ce l’hanno fatta. La Nuova Zelanda è entrata in lockdown il 25 marzo, appena varcata la soglia dei 100 casi. Terminata la quarantena non ha più riaperto i confini ai turisti, nonostante contribuissero per quasi il 6% al Pil nazionale. Inoltre, pur non vietando vacanze e viaggi all’estero, li ha fortemente sconsigliati e scoraggiati, costringendo i cittadini di rientro a due settimane di isolamento in strutture alberghiere messe a disposizione dello Stato. Le restrizioni hanno consentito di dichiarare il Paese libero dal virus l’8 di giugno e di disinnescare i contagi di importazione. Verrebbe da obiettare che è semplice controllare un’epidemia in una nazione insulare con una popolazione inferiore ai cinque milioni di persone e una scarsa densità abitativa. Ma ne sottovaluteremmo la concentrazione urbana: la sola area metropolitana di Auckland conta circa 1,7 milioni di abitanti, il che non la rende più gestibile della maggior parte delle città italiane.
Ad agosto, a distanza di centodue giorni dall’ultimo contagio, la città è entrata in un nuovo lockdown di tre settimane, dopo la rilevazione di quattro nuovi casi all’interno di una famiglia che non si era mai allontanata dal Paese. Auckland ha potuto ricongiungersi con il resto del Paese solo dopo due mesi di limitazioni negli spostamenti fra le regioni. L’origine del focolaio, estesosi a 179 persone, non è mai stata scoperta, ma la filosofia dell’eliminazione del virus ha pagato, con un dazio di appena venticinque decessi da Covid-19 dall’inizio della pandemia. La strategia è stata lodata dalla rivista Lancet, che ne ha evidenziato l’efficace sistema di tracciamento, la chiarezza comunicativa con una catena di comando ridotta all’osso (solo la premier Jacinda Arden e il direttore generale della sanità, Ashley Bloomfield, sono autorizzati a parlare al pubblico dell’epidemia), un monitoraggio attento ed elastico e le buone pratiche anticontagio (mascherine e distanziamento). I neozelandesi hanno ovviamente apprezzato tutto ciò e la premier laburista ha stravinto le elezioni del 17 ottobre, conquistando più della metà dei seggi, e, se vorrà, potrà governare da sola, senza alleanze. Già, perché nel frattempo le persone sono tornate alla vita di sempre. Il 13 giugno, al termine del lockdown, la paura del virus era già un brutto ricordo e allo stadio di Dunedin erano quasi ventimila i tifosi appiccati per assistere a una partita del campionato di rugby.
Un’altra esperienza positiva arriva dal Vietnam, Paese non insulare ma ricco di interscambi con l’epicentro della pandemia, la Cina. Alla strategia neozelandese dei confini chiusi – dolorosa per una nazione votata al turismo – ha aggiunto la tecnica del pool testing. A fine luglio, dopo aver scoperto un focolaio a Da Nang, 1,3 milioni di abitanti, il governo ha dichiarato un lockdown di due settimane nella città, accompagnandolo a test di massa sulla popolazione con un metodo di campionamento già usato in Cina. Con il pool testing, infatti, si analizzano i tamponi a gruppi, ad esempio di cinque, per risparmiare sui reagenti e velocizzare i tempi: se il gruppo è negativo si passa al successivo; se è positivo, si analizzano singolarmente i tamponi. Un successo statistico. In Vietnam sono morte appena trentacinque persone di Covid-19.
L’aspetto da sottolineare è che la strategia “umana e umanistica” dell’eliminazione del virus, adottata in Nuova Zelanda e in Vietnam, non ha presentato un conto economico più salato di quello scontato in Europa. A infrangere il dogma del falso dilemma tra salute ed economia ci ha pensato una fonte inaspettata, il Financial Times, dimostrando come i Paesi che non hanno controllato l’epidemia hanno anche avuto prestazioni economiche inferiori. Una deduzione banale, eppure rivoluzionaria, sottoscritta perfino dal Fondo Monetario Internazionale, con una nota che ha capovolto i luoghi comuni: “lockdown efficaci adottati nelle prime fasi di un’epidemia possono portare a una ripresa economica più rapida” dal momento che non solo “contengono il virus ma riducono il distanziamento sociale volontario’”, provocato dalla prudenza nella mobilità e nei consumi.
Ragionare con il senno di poi è facile, ma è indubbio che, con un piano antipandemico sul modello neozelandese e vietnamita, avremmo in primo luogo scongiurato i casi di importazione, ufficialmente stimati attorno al 30% del totale nel corso dell’estate, ma probabilmente sottostimati secondo le valutazioni del professor Crisanti. Va infatti tenuto conto che le trasmissioni intrafamiliari, le più numerose nelle statistiche ufficiali, derivano chiaramente dall’introduzione del virus dall’esterno fra le mura domestiche. I governi europei credevano di dover scegliere tra l’epidemia e la crisi economica: hanno scelto la prima e avranno anche la seconda.
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