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15/11/2020

Basta virologi in tv. La scienza ha rigidi protocolli di verifica, il loro è inutile opinionismo

Non capita così spesso di vivere un momento storico in cui ogni singolo giorno, dettaglio e aggiornamento è registrato dalla televisione, dai media e dalla nostra memoria collettiva all’unisono. Non capita nemmeno così spesso che una pandemia si abbatta sulla nostra vita, e speriamo tutti che se in futuro dovrà risuccedere ci trovi quanto meno molto più preparati, anche perché potrebbe essere più grave. Eppure il caso ha voluto che capitasse proprio a noi e il fatto di poter ricostruire con immagini e testimonianze ogni fase del fenomeno non è una grande consolazione per il periodo storico in cui stiamo vivendo. Che può farci capire meglio il rapporto che abbiamo sviluppato con i media, vecchi e nuovi, e la sovrabbondanza di informazioni a cui siamo sottoposti in maniera incessante, ancora di più in un momento critico come quello che stiamo attraversando.

In molti non avevamo risposte per le domande che all’improvviso ci venivano poste e in tanti non avevano – e ancora non hanno – le competenze per comprendere a fondo la situazione e quello che veniva comunicato a riguardo. Eppure tutti volevamo sapere, dire – come al solito – la nostra. Così, come succede ogni volta che non si sa che pesci pigliare, ci si affida agli esperti. E gli esperti – che alla fine sono esseri umani come noi – non vedono l’ora di dire la loro. Analizzando l’archivio della nostra televisione – che ormai si interseca sistematicamente con Internet e i social – è chiaro che il 2020 sia stato, da un punto di vista mediatico, l’anno dei virologi. Figura professionale che fino a dicembre 2019 era a dir poco marginale – quando non pervenuta – all’interno del panorama mediatico, ma che da un certo momento in poi, esattamente nell’istante in cui la questione Covid-19 ha smesso di essere un problema cinese e ha preso la forma di una coppia di turisti in un albergo in via Cavour a Roma e poi in un paziente 1, è diventata una colonna portante del palinsesto italiano. Nel momento dell’incertezza e della paura dell’ignoto, come quella che ancora affrontiamo ogni giorno da quando tutto questo è cominciato, chiedere un’opinione forte e decisa è la cosa più spontanea, anche quando risposte precise non ce ne sono affatto e per certi versi non possono essercene. La figura del virologo, dunque, ha riempito uno spazio emozionale più che di vera e propria informazione e la sua presenza in tv in veste di ipotetico salvatore, voce sicura in un coro di domande affannose, ha generato un inevitabile cambiamento del suo ruolo.

Durante questi mesi mi sono spesso chiesta come avremmo vissuto la pandemia se non ci fossero stati i mezzi di comunicazione e di connessione che ci sono oggi. Non so dire in particolare come sarebbe stata l’esperienza italiana del Covid-19 senza la televisione e senza i quintali di talk show di cui è zeppa la programmazione settimanale – basti pensare al martedì in cui vanno in onda contemporaneamente Cartabianca, Dimartedì e Fuori dal coro – ma di certo la loro influenza mediatica non può non essere tenuta in conto, anche nei suoi aspetti positivi.

L’Italia è un Paese in cui la televisione straborda di talk show: vuoi perché nei talk puoi infilarci tanti politici, che di solito non hanno cachet, vuoi perché la vulgata ci dipinge come un popolo chiacchierone, sta di fatto che in tv non si perde occasione per creare principi del foro, arene – non a caso la trasmissione di Massimo Giletti si chiama proprio così, Non è l’Arena – e tante, tantissime opinioni, non sempre – anzi, quasi mai – argomentate. In questo scenario televisivo in cui la discussione e lo scontro diretto legato principalmente su temi di attualità fa da padrona, nel 2020 i medici sono diventati centrali, dal momento che l’argomento su cui ruota quasi il 100% della cronaca di quest’anno è un’emergenza sanitaria.

Il problema, però, è che gli esperti chiamati alle armi dell’informazione, per quanto preparati e professionali, si sono trovati davanti a un compito molto complicato, ossia quello di rendere semplice e comprensibile una serie di questioni scientifiche che già in tempi normali sarebbe difficile delineare in modo agibile a tutti, ma in un momento di crisi profonda diventa ancora più difficile, anche perché in certi ambienti ogni informazione viene inevitabilmente politicizzata.

Il presupposto della scienza non è tanto quello di decretare in modo perentorio e immutabile una verità assoluta: la scienza è prima di tutto un metodo che per definizione si basa sui tentativi, gli errori, le ipotesi e i dibattiti, non certo quelli televisivi, ma scientifici. La linea sottile, ma fondamentale, che intercorre tra un’ipotesi e un dato, così come tra un dato e un’evidenza, è l’ago della bilancia su cui si gioca l’esito di una discussione che avviene prima tra gli addetti ai lavori, e poi a livello politico. L’esigenza quasi infantile e istintiva che io per prima sento di aver provato quando cercavo in queste figure un conforto rassicurante è in netta contraddizione con il principio stesso che sta alla base del metodo scientifico, e che semmai, al contrario, se proprio volessi trovare, dovrei andare a cercare nel famoso mistero della fede. Nel momento in cui uno scienziato diventa un divulgatore, la sua abilità sta proprio nell’adattare la sua conoscenza a un pubblico di non esperti, senza però diventare un santone né un opinionista, cosa non affatto semplice quando si ha davanti una audience che ha invece tutta la predisposizione d’animo per trovarne uno. In questo senso, il sovraffollamento di virologi ed esperti in televisione, se in un primo momento faceva da paracadute mediatico per formare una base di conoscenza, a distanza di otto mesi abbondanti assume un significato molto diverso.

Come ha ben sottolineato il divulgatore Mario Tozzi, il problema del coinvolgimento massiccio di virologi e medici subentra nel momento in cui ognuno di loro porta in tv una versione della realtà sanitaria che fa riferimento al proprio istituto medico di provenienza. Se un virologo dice per esempio che al suo ospedale, nel suo reparto Covid non ci sono malati da mesi, o che il virus è “clinicamente morto”, perché nella sua città o nella sua regione i casi sono notevolmente diminuiti, non sta certo facendo un favore alla scienza ma sta passando in modo inequivocabile dalla parte dell’opinionismo. Specialmente nel momento in cui queste ospitate televisive si trasformano in veri e propri siparietti, in cui ogni esperto porta acqua al suo mulino, alla sua teoria, al suo modo di interpretare il virus e il suo andamento: non è detto che l’esperto chiamato in causa non possa avere ragione, né che la sua versione non possa essere valida, ma il luogo del confronto scientifico non è di certo sotto le luci della ribalta né in collegamento Skype con qualche talk show. Ai tempi del Covid è come se la divulgazione scientifica avesse preso le sembianze di un reality in cui tutti i concorrenti sono virologi o medici esperti, infettivologi e ricercatori, e noi – pubblico – siamo chiamati a decidere qual è il nostro preferito, di chi ci fidiamo di più, quale metodo vogliamo accogliere. Una divulgazione che diventa uno show personale: polarizzare l’opinione degli spettatori portando acqua al proprio mulino, generare conflitto e confusione in un momento in cui l’analisi dei dati e la loro interpretazione dovrebbe servire allo scopo opposto.

L’album di figurine dei virologi 2020 è quindi ricco di personaggi, personalità e pareri diversi, come se ognuno di noi dovesse scegliere per chi tifare in una lotta in cui alla fine dei conti siamo coinvolti tutti. Roberto Burioni, medico che bazzica gli studi televisivi già ben prima del Covid, è un po’ il blastatore del gruppo, quello col commento caustico e aggressivo sempre pronto, che usa la sua conoscenza più che per insegnare per castigare; Massimo Galli, dal Sacco di Milano, assume invece il ruolo dell’anziano saggio, prudente, rassicurante – tanto da concedersi anche interviste da Daria Bignardi – in netta contrapposizione con Alberto Zangrillo, medico che ha curato anche Berlusconi dal Covid – il quale a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, date certe sue dichiarazioni, sembra paradossalmente molto più accorto di lui. Zangrillo e Matteo Bassetti possono forse essere considerati i volti per eccellenza di una sorta di negazionismo “illuminato”, nel senso che entrambi, in modi diversi e con gradi di esposizione diversi, in questi mesi non hanno perso occasione per ridimensionare la situazione italiana. Anche Maria Rita Gismondo, sempre dall’Ospedale Sacco, si è trovata a smentire le sue dichiarazioni sull’epidemia, mentre anche Ilaria Capua parla di immunità di gregge, una teoria che a livello di opinione comune non si è ancora capito se si tratti di una sorta di esperimento di eugenetica o di una strada percorribile senza conseguenze drammatiche. Insomma, la lista di virologi che negli ultimi mesi sono stati coinvolti nei talk show con cadenza quasi quotidiana non solo è lunga, ma è davvero molto differenziata, e i litigi tra gli esperti, anche in diretta, non sono mancati. Crisanti, Ricciardi, Pregliasco, Locatelli, Brusaferro, Cartabellotta: tutti nomi coinvolti nel dibattito mediatico sul Coronavirus, ormai tanto popolari da diventare oggetto persino di classifiche di apprezzamento dei “virologi più amati”. 

Il punto, allora, a diversi mesi dall’inizio della pandemia, non è tanto dire che i virologi dovrebbero stare nei reparti a fare il loro lavoro invece di scaldare le poltrone dei salotti televisivi, perché i pareri di chi ha studiato una materia e lavora a suo stretto contatto, specialmente in una fase senza precedenti come questa, è utile per formarsi un’opinione che rimane comunque parziale, dal momento che per argomenti simili serve una grande padronanza dei temi in questione prima di poter dire la propria.

Il punto centrale della cosa allora semmai è un altro, e potremmo dire che sta a monte: bisogna infatti chiedersi quanto la nostra televisione tende a indugiare fin troppo nell’opinionismo, nello scontro diretto, nel faccia a faccia a tutti i costi e quanto invece punta a fare un’informazione limpida e divulgativa nel senso più puro del termine. Dal momento che i programmi in cui si discute di argomenti di attualità sono decisamente in maggioranza rispetto a quelli in cui si informa senza accavallare opinioni diverse, e dal momento in cui sebbene il contraddittorio in un dialogo sia sempre fondamentale, forse quando si parla di salute di milioni di persone non è così indispensabile buttare nel tritatutto qualsiasi argomento, la tv italiana potrebbe spingersi in una direzione che privilegi la chiarezza e non lo spettacolo. Si può attendere una risposta, un parere attendibile, invece di volerli subito pronti all’uso e consumo dello spettatore anche quando non sono ancora stati formulati in modo netto – basti pensare alla polemica sulle mascherine dei mesi scorsi – e si può fare divulgazione senza che gli esperti diventino una squadra da tifare, ognuno con la sua versione dei fatti da mettere sul piatto, ognuno con la sua visione del mondo e della scienza. The show must go on, certo, ma l’informazione, specialmente quella scientifica, non deve per forza essere sempre uno show, in particolar modo quando il rischio è creare ancora più danni e confusione.

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