Per l’accumulazione capitalistica, assente da 28 anni, occorre che la massa di profitti cresca come contrasto alla caduta del saggio. Il rimedio più facile è stato colpire il salario, per sottrarre quote a favore dei profitti, ma la massa non cresceva lo stesso, mentre il saggio cadeva ancora di più.
La massa salariale si ritrova perciò ai minimi termini. Ai fini dell’accumulazione occorre che recuperi qualche punto (lato monetario e lato fiscale) e, assieme alla modernizzazione produttiva e a spese per infrastrutture (sembra una delle priorità di Draghi), aumenti sia la produttività del lavoro sia la produttività totale dei fattori produttivi.
Per far questo ci vuole un processo di concentrazione delle mini multinazionali che “internalizzano fasi produttive” precedentemente esternalizzate e facciano un patto con l’aristocrazia operaia, recuperando per alcuni aspetti la “concertazione” (l’ok di Landini vi dice niente?).
I soggetti benificiari delle esternalizzazioni, protagonisti negli ultimi 40 anni, verrebbero così inglobati (sta peraltro succedendo da 5-6 anni).
La crisi del 2008 ha prodotto questo processo lento, ora si accelera. La massa dei profitti aumenterebbe perché aumenterebbe la capacità produttiva e si contrasta la caduta del saggio di profitto. Proprio come hanno fatto i cinesi. Grossmann la definiva misura di contrasto alla caduta del saggio di profitto.
Ci sarebbe da mettere a punto un Patto corporativo tra aristocrazia finanziaria (simbiosi capitale monetario e capitale industriale, quindi non tutte le industrie) e aristocrazia operaia. Una ristrutturazione capitalistica che era stata posticipata nel 1973, a seguito crisi petrolifera – perché la DC voleva mantenere le marxiane “terze persone”, vale a dire la fascia economico-sociale intermedia tra capitale e lavoro per arginare le lotte operaie – e che avrebbe comportato la marginalizzazione di produzioni a pluslavoro assoluto e l’irrobustimento delle “mini multinazionali tascabili”.
Il vero scontro è ora tra aristocrazia finanziaria e “terze persone”; i “cani da guardia del capitale” non sono più necessari, quando i salari sono già ridotti all’osso e sono diventati controproducenti ai fini dell’accumulazione capitalistica.
Rimangono aristocrazia finanziaria, industria, lavoro. Come in Germania.
Ieri, sul Corriere della Sera, Dario di Vico informava che, a parte il crollo dei servizi e di alcuni settori di produzione leggere (vedasi il tessile, per le chiusure negozi), la subfornitura ha tenuto botta, nel 2020; ha evitato il pericolo che le produzioni si spostassero in Slovacchia o in Polonia “grazie ai lavoratori che sono andati in fabbrica in auto, anche con il lockdown”.
Inoltre aggiunge che si sono firmati molti contratti. La tenuta fa sì che le prospettive siano non troppo catastrofiche per il mondo produttivo italiano e per questo ci vuole “pace sociale”. Il resto sarà mandato alla deriva.
Dopo 40-50 anni il “decentramento produttivo” e “piccolo è bello” lasciano il posto alla concentrazione, resa possibile dalla sconfitta del movimento operaio, che da decenni non ha più voce.
È sempre il rapporto capitale-lavoro, l’asse centrale. La “fascia intermedia”, che si era espansa nelle pieghe della mancata ristrutturazione, verrà “razionalizzata”.
Tutti proletari, non “imprenditori” di piccolo taglio. D’altronde, è la legge del capitale.
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