La rogna esplosa tra governo e Corriere della Sera sull’ormai famosa lista nera sulla presunta “rete dei putiniani in Italia” è altamente illustrativa della trasformazione progressiva della (presunta) “democrazia liberale” in qualcosa di assai meno presentabile.
La conferenza stampa tenuta da Franco Gabrielli – sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega a quegli stessi servizi segreti che aveva guidato, un caso eclatante di “controllato” che diventa “controllore” – ha fatto emergere la “struttura” delle modificazioni istituzionali che sovrintende a questo degrado profondo della “libertà di opinione” nell’Occidente neoliberista attuale.
Tutto parte, com’è noto, da un “bollettino” che Gabrielli sostiene essere stato “declassificato” proprio per dimostrare che “non esiste un Grande Fratello che fa dossieraggio delle opinioni diverse da quelle del governo”. Mentre il Corriere sostiene di aver “lavorato” su una versione ben più corposa della “sintesi” poi resa pubblica da Gabrielli.
La differenza più palese emerge dal numero dei nomi fatti: tre, secondo la versione desecretata, nove in quella di Guerzoni e Sarzanini. La cui ultima narrazione è che la versione “sintetica” sarebbe quella trasmessa al presidente del Consiglio, mentre il documento “esteso” che è stato loro recapitato sarebbe quello originale dei servizi.
Qualcuno mente, è evidente, ma è possibile anche che lo facciano entrambe le sponde (nelle storie di servizi segreti, specie italiani, è sempre l’ipotesi più probabile).
Non è questo comunque l’elemento più interessante, ma quello che Gabrielli ha detto in conferenza stampa.
Si parte dal 2019, quando l’Unione Europea – l’istituzione sovranazionale ancora in formazione – e la Nato chiedono agli Stati membri di attrezzarsi rispetto ai pericoli della “guerra ibrida”. All’argomento abbiamo dedicato spesso attenzione, perché guardare alla guerra con gli occhiali del Novecento significa non vedere granché.
Oltre agli aspetti propriamente militari (esercito, aviazione, intelligence, ecc.) sono diventati rilevanti quelli dell’informazione. Non che anche nei secoli passati questi fossero meno considerati (Goebbels sta ancora lì a insegnare ai reazionari di tutto il mondo), perché ne dipende la “tenuta sociale”, lo “spirito di corpo” di un paese o di un’alleanza sotto stress bellico.
Tutta la storia della “Guerra fredda” tra Nato e Unione Sovietica è stata anche una guerra dell’informazione e della cultura, gestita con armi non convenzionali come i giornali, la tv, il cinema, ecc.
Ma per combattere su questo piano servono vere e proprie “strutture industriali”, con gruppi editoriali che investono miliardi, occupano centinaia o migliaia di persone, ecc. Roba che non si fa con gli spiccioli o il volontariato.
Internet e i social ha reso assai meno costoso pubblicare e far circolare “contenuti” di informazione, e quindi la necessità di “controllare” i flussi – per gli Stati di qualsiasi tipo – si è allargata di molto.
Dal 2019, dice Gabrielli, questa necessità ha fatto creare – tra l’altro – un “tavolo” dove i servizi portano informazioni e altri soggetti istituzionali (ministeri interni e difesa, dipartimento dell’editoria, il ministero dello sviluppo economico, l’authority per le telecomunicazioni, l’agenzia per la sicurezza cibernetica, ecc.) le assumono per prendere le opportune “contromisure” negli ambiti di competenza.
La logica della guerra, come si vede, finisce per pervadere ogni aspetto dell’attività dello Stato, anche delle strutture civili. Il confine tra “militare” e “civile” tende a svanire.
Ma l’aspetto più “delicato” – aggettivo usato da Gabrielli – riguarda il fatto che questa attività finisce inevitabilmente per “registrare” le opinioni di chiunque sia attivo sui social o altrove per stabilire se e in che misura siano “disinformazione”, “fake news”.
E soprattutto a dover stabilire se questa attività sia una libera espressione individuale o collettiva, oppure “eterodiretta” (finanziata, controllata, pianificata) da un “nemico”. In questo caso la Russia, ma anche la Cina e altri, secondo le contingenze. Il confine tra pensiero libero e manovra nemica tende a svanire, parallelamente a quello tra civile e militare.
Basta scorrere la versione edulcorata o “sintetica” del bollettino reso pubblico venerdì per vedere come ogni opinione divergente da quelle di governo-UE-Nato sia considerata “sospetta” e degna di essere “attenzionata”. Tanto da far dire a un insospettabile come Giovanni Floris che si tratta di una autentica “rassegna stampa” (fatta su “fonti aperte”, non messaggi segreti), ossia qualcosa di cui non dovrebbero occuparsi i servizi segreti.
Il confine tra libertà d’opinione e “reato di lesa maestà”, ripetiamo, diventa quasi impalpabile. O molto “soggettivo”, discrezionale (nessun potere sopporta serenamente le critiche).
Alcuni esempi. Si registrano come “attività inedite” (e da monitorare con attenzione) “le critiche all’operato del Presidente del Consiglio Mario Draghi, ritenuto responsabile dell’aumento dei prezzi alimentari ed energetici, della chiusura di numerose aziende […] e di trascinare il paese in guerra”. Oppure la “delegittimazione dell’attività di informazione dei media occidentali circa il conflitto in corso”.
In pratica diventa immediatamente “sospetta” l’opposizione al governo e la critica, anche documentata, al sistema dei media “ufficiali” perché controllati da gruppi industriali sicuramente “euro-atlantici”.
Tesi peraltro esplicitamente sostenuta – nella stessa conferenza stampa – da Monica Guerzoni, una delle due autrici dello “scoop” del Corriere: “nel nome della libertà di opinione, che noi tutti difendiamo, non si rischia di lasciar correre una propaganda, magari organizzata a colpi di fake news, che è probabilmente pilotata – da alcuni organizzata – per condizionare il dibattito pubblico, anche a livello parlamentare? [Chiedo] se non è dovere dell’intelligence monitorare – certamente con fonti aperte, non con un’attenzionamento di tipo diverso delle persone – un’attività di divulgazione di fake news che possa condizionare il dibattito democratico”.
Qui diventa difficile distinguere il giornalista dal soldato in prima linea, dobbiamo ammettere... E comunque è solare lo schema proposto: noi – media e intelligence – abbiamo il monopolio della verità e dell’informazione corretta, quello che “diverge” è disinformazione pilotata dal nemico.
Secondo questo schema i “servizi di informazione” – quelli militari, ossia l’intelligence – lentamente tendono a sostituire o dirigere l’informazione diffusa dai media, ne controllano i contenuti, ecc. In ultima analisi “formano l’opinione pubblica”, o almeno pretendono di farlo. Siamo un po’ oltre il “passare qualche carta” a giornalisti-terminali...
Ma se la distinzione di funzione tra media e intelligence salta, ne deriva che “l’informazione” si trasforma nella costruzione di una verità di Stato cui è obbligatorio attenersi, perché “c’è un conflitto in corso“. La disinformazione si fa regime, e non lo nasconde neanche più.
La “crisi della democrazia” – tematizzata e teorizzata come “necessità” fin dai primi anni ‘70 – arriva ora alla sua evoluzione finale. Il capitalismo occidentale va alla guerra, e chi non collabora, o peggio resiste, è un nemico interno.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento