di Domenico Moro
Non è solo la guerra con mezzi militari a proseguire, attraverso l’Ucraina, tra l’Occidente e la Russia. A proseguire è anche la non meno importante guerra economica. Negli ultimi giorni si sono verificati alcuni avvenimenti importanti, che coinvolgono non solo la Russia ma anche la Cina. Del resto, il confronto, a livello economico, è soprattutto tra gli Usa e la Cina che, oltre a essere alleato strategico della Russia, rappresenta il maggiore concorrente degli Usa per l’egemonia economica mondiale.
Il primo di questi nuovi avvenimenti è il varo del sesto pacchetto di sanzioni della Ue contro la Russia, che comprende, tra le altre, due fondamentali misure: l’esclusione dal circuito Swift del più importante istituto bancario russo, Sberbank, che renderà problematico il pagamento estero dei prodotti russi e, soprattutto, l’embargo sul petrolio russo. Apparentemente, dopo un mese di impasse, si tratta di un successo del fronte occidentale contro la Russia, che sarebbe riuscito a ricompattarsi nonostante l’Ungheria avesse espresso la sua opposizione all’embargo. Le sanzioni sul petrolio, però, sono soggette a dei limiti: lo stop alle importazioni nella Ue avverrà solo a partire dall’inizio del prossimo anno e riguarderà solo il greggio importato via mare, mentre sarà escluso dall’embargo quello importato attraverso l’oleodotto di Druzhba. Ciò consentirà a Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, Paesi senza sbocco sul mare, di continuare a rifornirsi di greggio fino a una data che ancora deve essere decisa. Ma le sanzioni, che stanno determinando un aumento dei costi di produzione per i Paesi europei, avranno un effetto limitato sulla Russia. Infatti, le sanzioni aumentano le quotazioni internazionali del barile di petrolio, facendo sì che la Russia realizzi incassi maggiori anche nel caso di una riduzione delle esportazioni in volumi. Quando la Commissione europea ha varato il sesto pacchetto di sanzioni, l’aumento del prezzo del barile di petrolio ha subito una accelerazione, portandosi, per quanto riguarda il Brent, a oltre 125 dollari al barile. Del resto, in sei mesi il petrolio è rincarato del 75%. Secondo Bloomberg l’embargo sul petrolio costerebbe appena 10 miliardi di dollari su un totale di 270 miliardi che il governo russo si aspetta dall’esportazione di prodotti energetici. Ma non è detto che si realizzi una tale perdita di entrate: la Russia può compensare le mancate esportazioni verso l’Ue reindirizzandole altrove. Infatti, la dilazione temporale nell’attuazione dell’embargo facilita non solo gli importatori europei nella ricerca di nuovi fornitori ma anche la Russia, che può cercare sbocchi alternativi per le sue esportazioni. In particolare, le esportazioni di greggio russo stanno dirigendosi verso la Cina, l’India e altri Paesi, che negli ultimi mesi hanno comprato più greggio del solito. Non a caso a maggio le esportazioni russe di petrolio e derivati sono risalite ai massimi da ottobre 2019, ossia a 5,09 milioni di barili al giorno.
Il secondo dei nuovi avvenimenti riguarda il possibile default tecnico del debito russo, dovuto all’impossibilità della Russia a pagare gli interessi in dollari. L’Europa ha aggiunto alla lista di individui e organizzazioni sanzionate anche il National Settlement Depository, che è un istituto finanziario russo non bancario e depositario centrale dei titoli, attraverso il quale Mosca aveva deciso di pagare gli interessi sul debito pubblico in dollari. Inoltre, gli Usa il 25 maggio hanno lasciato scadere, senza rinnovarla, la licenza che finora aveva autorizzato gli investitori americani – malgrado le sanzioni vietino transazioni finanziarie – a ricevere da Mosca i pagamenti degli interessi, dividendi o cedole sui bond detenuti dalla banca centrale russa, dal Fondo sovrano per gli investimenti o dal Ministero delle finanze. Si tratta di un danno d’immagine notevole per la Russia, che, non riuscendo a pagare gli interessi sul debito pubblico, entrerebbe in default per la prima volta dal 1917, quando i rivoluzionari bolscevichi decisero di non pagare il debito contratto dallo Stato zarista. In realtà, questa volta lo Stato russo ha i soldi e la volontà di ripagare il debito, ma di fatto Ue e Usa glielo impediscono, cercando di indurre lo Stato russo a fare bancarotta. In pratica si tratta di un “default artificiale” come evidenziato dalle autorità russe.
Il terzo avvenimento di cui tenere conto è la proposta presentata recentemente al Congresso degli Stati Uniti da tre senatori repubblicani, Tom Cotton, Marco Rubio e Mike Braun, per introdurre il divieto ai grandi app store – a partire da Google e Apple – di ospitare applicazioni che consentano di effettuare pagamenti attraverso lo yuan digitale cinese. La motivazione apparente è legata alla sicurezza nazionale, dal momento che gli estensori della proposta di legge temono che il sistema di pagamento digitale consenta a Pechino di spiare i cittadini americani. La ragione vera è, però, un’altra: si teme che la valuta digitale cinese possa ridurre il ruolo globale del dollaro statunitense. Si tratta di un pericolo grave per l’economia americana, visto che solo grazie al controllo della moneta di transazione commerciale e di riserva mondiale gli Usa possono sostenere la loro economia, finanziando il loro doppio debito, quello commerciale e quello pubblico. Inoltre, il sistema dello yuan digitale può costituire una alternativa al sistema Swift da cui passano le transazioni internazionali in dollari. In questo modo, verrebbe anche meno la possibilità di imporre sanzioni agli avversari politici, visto che molte delle sanzioni si basano sull’esclusione di organizzazioni finanziarie russe e di altri Paesi dal sistema di messaggistica Swift. In ogni caso, lo yuan digitale è pericoloso per il dollaro, perché può divenire una valuta di riferimento fuori dalla Cina, a partire dai Paesi che aderiscono al progetto della Via della Seta e poi incuneandosi nei sistemi di pagamento occidentale costituendo una alternativa allo Swift. La Cina è all’avanguardia nell’uso della valuta digitale, e sta accumulando un notevole vantaggio sugli Usa e sull’Ue, dal momento che il dollaro e l’euro digitali sono ancora allo stadio di progetto. Per avere l’euro digitale, sempre se verrà adottato, ci vorranno ancora 4-5 anni. Lo stesso tempo ci vorrà anche per avere il dollaro digitale, la cui adozione è ancora in forse da parte della Federal reserve, la banca centrale Usa, che è divisa tra favorevoli e contrari. La guerra in Ucraina, però, può accelerare il varo del dollaro digitale, perché accentua la necessità di portare avanti la guerra tra le valute, elemento centrale nel conflitto economico contro la Russia e, in definitiva, contro la Cina. Recentemente la vice presidente della Federal reserve, Lael Brainard, ha affermato in una audizione al Congresso che il lancio di “una CBDC [Central Bank Digital Currency, n.d.r.] può essere d’aiuto per assicurare il ruolo dominante del dollaro”, in modo tale da “garantire alle persone che nel mondo usano il dollaro di continuare a farlo anche per le transazioni nel sistema finanziario digitale”[i].
Da questi fatti si evidenzia che la guerra economica tra Occidente, da una parte, e Russia e Cina, dall’altra, si sta inasprendo e che si gioca in gran parte attorno al ruolo mondiale del dollaro. Il mantenimento del dollaro come valuta mondiale è sia un mezzo sia un fine della guerra militare ed economica, in quanto elemento essenziale dell’egemonia mondiale statunitense. La continuazione della guerra, tesa all’indebolimento della Russia e, di conseguenza, della Cina, permette il mantenimento del primato politico e militare che consente agli Usa di mantenere il dollaro come valuta mondiale.
Note
[i] Alessandro Graziani, “Yuan digitale, Usa verso il veto all’uso su Google e Apple Pay”, ilSole24Ore, 3 giugno 2022.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento