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14/10/2022

Magistratura contro la giustizia

Una raffica di sentenze apre un interrogativo sul cambiamento di paradigma culturale che sta avvenendo nella magistratura italiana. Ne abbiamo selezionate tre, in ambiti molto diversi tra loro, riscontrando un tratto comune che probabilmente spiega quel che la sindrome “giustizialista” e il suo opposto “garantista” non riescono a cogliere.

Oggi su tutti i media campeggia il sacrosanto scandalo per la sentenza del Tribunale Civile de L’Aquila, che ha ritenuto “corresponsabili della propria morte” ventiquattro persone rimaste nelle loro case e poi travolte dal terremoto. L’accusa, diciamo così, è quella di aver sottovalutato il rischio del terremoto, nonostante le due forti scosse che lo hanno preceduto, invece di scappare.

Per questa ragione il tribunale ha stabilito che il risarcimento economico ai familiari delle vittime va ridotto del 30%.

Impossibile affrontare una sentenza del genere in base a concetti astratti, come quelli utilizzati dal giudice che l’ha scritta, perché si finirebbe per discettare di fantasmi invece che di fatti concreti.

Attenendosi alla storia, o almeno alla cronaca, si può facilmente verificare come quasi tutta la cittadinanza de L’Aquila, la notte del 6 aprile 2009, era stata convinta a restare nelle case dalle “rassicurazioni” rilasciate dal vice capo della Protezione civile nazionale, Bernardo De Bernardinis, per questo poi condannato a due anni di reclusione.

Dunque lo schema che abbiamo davanti è relativamente semplice: la zona de L’Aquila era da circa un anno teatro di fenomeni sismici di intensità medio-bassa (poi terminati solo nel 2012), che avevano ovviamente molto preoccupato la popolazione residente.

Una serie di scosse più forti avevano provocato un serio allarme e l’ipotesi di un “esodo” di massa dalla città. A quel punto l’intervento delle “autorità”, nella persona del vicecapo della Protezione civile, secondo la nota formula “andrà tutto bene”.

Addirittura c’è chi ricorda come il presunto “esperto” – in televisione – fosse arrivato a garantire che non vi fosse alcun pericolo, “invitando i cittadini a bersi un bicchiere di Montepulciano”.

Difficile trovare in questo schema una “corresponsabilità” dei singoli. Si tratti di un terremoto, di una alluvione o di una pandemia, il ruolo dello Stato – delle sue varie autorità “esperte” a seconda del tipo di eventi naturali pericolosi – è quello di fornire una informazione scientificamente corretta e dare indicazioni pratiche (fornendo nel caso anche i mezzi necessari) per ridurre al minimo i rischi per le persone.

Solo i cittadini che non dovessero rispettarle sarebbero poi sanzionabili, o non risarcibili per gli eventuali danni subiti.

I cittadini che invece “si sono fidati” di queste indicazioni non possono in alcun modo essere considerati “corresponsabili”, soprattutto se ne restano vittime.

Dicevamo che il tribunale autore della sentenza è “civile”, non penale. Si doveva insomma occupare delle richieste di risarcimento da parte dei familiari delle vittime del terremoto, in vita o meno, per i danni materiali e morali subiti.

Tra i soggetti chiamati a risarcire ci sono ovviamente i costruttori degli stabili crollati (spesso ormai defunti, vista l’età media degli edifici in città), e lo Stato come responsabile di una comunicazione sbagliata sul rischio che si stava correndo.

Praticare uno “sconto” sulla cifra che lo Stato dovrà pagare ad ognuno è una cosa che può venire in mente forse ad un ragioniere, ma non dovrebbe attraversare nemmeno per un attimo quella di un giudice. Tanto più se altri giudici, in sede di processo penale, hanno già stabilito le responsabilità dei vari protagonisti della vicenda.

Nella sentenza de L’Aquila, insomma, si può agevolmente riscontrare una “mentalità punitiva” che tende a rovesciare sui cittadini la “colpa” dell’aver subito danni e persino la morte, sminuendo quella dello Stato e dell’impresa privata (i costruttori).

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La seconda sentenza choc, che ha sollevato però assai meno scandalo, riguarda tre lavoratori che avevano scioperato alla Gualapack di Piacenza per un cambio appalto, in cui il fornitore di servizi fallito (una delle tante coop farlocche) aveva omesso di pagare TFR, ferie non fruite, quota sociale e retribuzioni.

Il giudice, in questo caso, ha deciso che lo sciopero è da considerarsi sempre “una manifestazione non autorizzata nella quale si commette una violenza privata”. Anche se persino la presunta vittima di tale violenza (un camionista che non era riuscito a superare i picchetti all’ingresso), nella sua testimonianza, aveva escluso di essere stato minimamente aggredito o minacciato.

In questo caso, insomma, è palese il rovesciamento sui cittadini-lavoratori della “colpa”. Le imprese possono fare ciò che vogliono (anche non pagare tfr, ferie, ecc.), e l’unico “reato” riscontrato dalla magistratura è quello della protesta contro le imprese inadempienti.

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La terza e ultima sentenza riguarda invece un ambito più strettamente politico. Ossia l’ormai annosa vicenda del sequestro dell’”archivio Persichetti”, il materiale con cui il ricercatore in questione stava preparando il secondo volume della storia delle Brigate Rosse.

Ne parla diffusamente l’autore in altra pagina del giornale, ma dobbiamo sottolineare qui un dato giuridicamente clamoroso quanto assurdo. Il Gip del Tribunale di Roma, Valerio Savio, ha negato la riconsegna delle copie forensi, ovvero il clone digitale dell’archivio sequestrato ormai 16 mesi fa scrivendo testualmente: «rilevato ancora come non si pongano questioni in ordine alla riservatezza dei dati, tuttora coperti da segreto investigativo; laddove per altro profilo ogni questione di “utilizzabilità“ dei dati medesimi è semplicemente prematura e allo stato non importabile, in assenza di una imputazione che tuttora potrebbe ancora non essere mai formulata».

In pratica: procura e Digos, prima e dopo il sequestro di quell’archivio, non sono riusciti a formulare una ipotesi di reato qualsiasi (la prima, che aveva permesso il sequestro – una fantomatica “associazione a fini di terrorismo” senza nome né azioni né altri “associati” – è nel frattempo caduta per manifesta insussistenza), ma l’inchiesta va avanti nella speranza di trovarne uno.

Ma anche se non si trovasse mai andrebbe avanti lo stesso, giustificando così il prolungamento del sequestro “finché morte non sopraggiunga”.

Ricordiamo ai non addetti ai lavori che la magistratura si mette in moto in base a una “notizia di reato”, ossia quando un reato è stato commesso o sta per esserlo. In questo caso, invece, getta “una rete a strascico” (il sequestro di migliaia di pagine di documentazione, interviste, ecc.) per vedere se è possibile ipotizzarne qualcuno. E fin quando si ritiene di poter fare queste ricerca. Anche per sempre...

La posta in gioco, dal punto di vista concreto, è in fondo poca roba: la pubblicazione o meno di un libro di storia che confuta – prove alla mano – le ricostruzioni di comodo della “dietrologia” sulla stagione della lotta armata in Italia, in special modo riguardo alle Brigate Rosse.

Dietrologia, va aggiunto, ormai sputtanata anche da serie tv – come Roma di piombo, su Sky – in cui a ricostruire la durissima lotta d’allora sono principalmente i… carabinieri del generale Dalla Chiesa, costretti ad ammettere che quelli che avevano davanti erano proprio dei comunisti combattenti, capaci di autorganizzarsi e privi di qualsiasi sostegno “opaco”.

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In sintesi. Queste tre sentenze, così come altre, segnalano che nella magistratura si sta facendo strada una visione a-costituzionale dell’esercizio della propria funzione. Nel senso che l’”interpretazione della legge” – sempre necessaria, checché ne pensino i giustizialisti da osteria – è stata trasformata in “invenzione della legge”, su base sociale chiaramente “di classe” e soprattutto di affermazione della supremazia del potere su ogni altra istanza.

Anche in quel presunto “potere separato” che teoricamente dovrebbe controllare gli altri due, si è fatta insomma strada quella stessa “visione” che, affermandosi nel paese, alla fine ha portato ad emergere il partito della Meloni.

Una visione perfettamente in linea con gli attuali rapporti di forza sociali, in Italia e in Europa.

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