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18/03/2024

Russia - Come prevedibile Putin ha vinto le elezioni, per l’Occidente è un problema in più

Vladimir Putin ha ottenuto l’87,29% dei voti alle elezioni presidenziali in Russia. In quelle del 2018 aveva ottenuto il 76,69% dei voti e nel 2012 il 63,6%. Dmitry Medvedev aveva vinto le presidenziali nel 2008 con il 70,28% dei voti.

Gli altri tre candidati, tra cui Nikolai Kharitonov del Partito Comunista della Federazione Russa, hanno ottenuto rispettivamente il 4,30% dei voti (Kharinotov), Vladislav Davankov (Nuovo Partito del Popolo) il 3,84%, Leonid Slutsky (Partito Liberaldemocratico) il 3,21%. Particolare curioso: in un seggio di Barnaul, nell’Altai, tra Kazakistan e Mongolia, il candidato comunista Kharitonov sembrava aver vinto: 84% per lui e 10% a Putin.

A seguire le elezioni presidenziali erano stati accreditati i rappresentanti di 106 Paesi come osservatori internazionali e 1.447 giornalisti di cui più della metà di mass media stranieri.

“La domanda non era se, ma con quale percentuale di voti il governante di lunga data della Russia Vladimir Putin sarebbe stato confermato in carica” scrive il quotidiano tedesco Handesblatt.

“È stato difficile valutare l’entità del reale sostegno del pubblico russo a Putin nelle elezioni, dato che ai candidati dell’opposizione è stato impedito di candidarsi e che l’imbrattamento delle schede e altri casi di frode sono stati comuni nelle passate elezioni russe” commenta il New York Times.

“Al fronte, le cose vanno bene, con la presa della città di Avdiivka e l’inferiorità non solo numerica ma anche bellica dell’esercito di Kiev. Nonostante le sanzioni occidentali, nessuno dei membri dell’élite russa ha disertato. L’economia cresce del 3,6 per cento, in virtù di una riconversione bellica dell’intero comparto industriale, al quale è destinato il 40% del budget federale” scrive oggi il Corriere della Sera. “L’unico vero tema sul tavolo di queste cosiddette elezioni era la convalida delle scelte strategiche in materia di politica estera”.

Vladimir Putin ha ottenuto alle urne il suo quinto mandato e potrà governare fino al 2030. La sua ambizione per il risultato era indicata nella formula “70 per 70”: ovvero superare il 70% dei suffragi in un’elezione col 70% dei votanti.

Putin nel 2018 aveva raccolto il 77,5% dei voti con un’affluenza del 67,5% per 56,4 milioni di voti. In queste elezioni l’affluenza è salita al 74,22%, oltre 6,7 punti sopra il 2018 e Putin ha ottenuto l’87,34%, con 74,6 milioni di voti.

Alta l’affluenza anche nelle repubbliche della Novarossja cioè il Donbass, la Crimea e gli altri territori: Luhansk: 94,12%; Donetsk: 95,23%; Kherson: 88,12%; Zaporizhzhia: 92,83%; Crimea: 93,6%

Non sono mancati momenti di contestazione. In alcuni seggi elettorali alcune persone hanno tentato di infliggere danni alle urne elettorali e ai seggi elettorali, versando colorante verde e inchiostro sulle schede elettorali oppure appiccando incendi alle urne. I mass media occidentali hanno mostrato con evidenza e campi lunghi le file ai seggi commentando che si trattava di quelle indicate per mezzogiorno dai sostenitori dell’oppositore Navalny morto in carcere solo poche settimane fa.

Ma appare comunque difficile spiegare unicamente con la coercizione questo risultato. A due anni dall’intervento militare e della guerra in Ucraina e nonostante le sanzioni occidentali, Putin è più forte e più saldo.

In questi giorni sia i mass media che i leader politici occidentali hanno dato il massimo e il peggio di se sul piano della demonizzazione del “nemico Putin” e della delegittimazione delle elezioni in Russia, con picchi di assurdità sulla stampa britannica che sembravano richiamare le vignette dell’Ottocento e con toni che non avevano riservato neanche all’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda.

Eppure i leader occidentali ripetono ad ogni occasione che “nel giardino” c’è la democrazia perché si vota e i governi sono scelti dal popolo. Ma alla fine occorre ammettere che se questo è il criterio anche “nella jungla” si vota e i governi sono eletti dal popolo. Forse il vero problema è che la democrazia oggi spacciata come dogma suprematista è cosa assai diversa da quanto diffuso da politici e mass media occidentali. A voler essere precisi il suo significato è potere del popolo. E se una parte della società ritiene che questo non ci sia, diventa legittimo imbrattare le urne o incendiarle senza pretendere conseguenze? Vogliamo provare?

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Aspri contrasti tra Anp e le altre organizzazioni palestinesi. Quello di cui non c’era proprio bisogno

Se la riunione a Mosca lo scorso 29 febbraio delle maggiori organizzazioni della resistenza palestinese – da Al Fatah ad Hamas, dal Fplp alla Jihad – aveva fatto ben sperare, lo sviluppo degli avvenimenti e della discussione nei giorni scorsi ha imbroccato una strada decisamente controproducente, soprattutto in un momento in cui sia a Gaza che in Cisgiordania il popolo palestinese è sottoposto ad un genocidio e ad una oppressione sistematica e brutale da parte di Israele.

È vero che la riunione di Mosca delle organizzazioni palestinesi aveva prodotto un comunicato unitario al di sotto delle aspettative e della necessità, ma il messaggio di un incontro di tutte le organizzazioni e l’aver riaffermato l’OLP come legittimo rappresentante del popolo palestinese, era stato un segnale importante.

Negli ultimi quattro giorni invece si è andata riaprendo una contraddizione tra Al Fatah – al governo nell’ANP – e le altre organizzazioni palestinesi che sarebbe stato meglio affrontare per tempo piuttosto che far esplodere.

Venerdì quattro organizzazioni palestinesi – Hamas, Jihad Islamica, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e Movimento di Iniziativa Palestinese – hanno criticato la decisione del presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas di formare un nuovo governo senza un consenso nazionale, descrivendo tale decisione come “un rafforzamento della politica di esclusività e un approfondimento della divisione”.

La crisi è iniziata in seguito alla decisione di Abbas di accettare le dimissioni del governo di Mohammed Shtayyeh. Shtayyeh aveva motivato la decisione affermando che “la prossima fase e le sue sfide richiedono nuovi accordi governativi e politici che tengano conto della nuova realtà di Gaza”.

Alcune organizzazioni palestinesi, tuttavia, speravano che un nuovo governo potesse, anche se nominalmente, riflettere un certo grado di consenso e unità tra i palestinesi. Tuttavia, non è stato così, poiché il nuovo governo dell’Autorità Nazionale Palestinese sembra una riproduzione dei precedenti governi.

Il mese scorso, Mohammad Shtayyeh si è dimesso da primo ministro, e giovedì Abu Mazen ha nominato Mohammad Mustafa, il capo del Fondo per gli investimenti palestinesi, come prossimo primo ministro, in una mossa che non è stata discussa con le altre organizzazioni palestinesi e che è stata vista come un’apertura alle richieste degli Stati Uniti di “riforma dell’Anp” anche in vista del “day after” a Gaza.

Le quattro organizzazioni palestinesi si sono pronunciate pubblicamente contro la decisione, accusando Abu Mazen di “prendere decisioni individuali e di impegnarsi in passi superficiali e vuoti come la formazione di un nuovo governo senza consenso nazionale”.

Al Fatah ha risposto prontamente alle accuse, ma invece di concentrarsi sulla questione del governo, ha accusato la Resistenza palestinese a Gaza di essere in ultima analisi responsabile del genocidio israeliano nella Striscia.

La dichiarazione afferma che Hamas ha “causato il ritorno dell’occupazione israeliana di Gaza” “intraprendendo l’avventura del 7 ottobre”.

Ciò ha portato, secondo la dichiarazione di Al Fatah, a una “catastrofe ancora più orribile e crudele di quella del 1948”, un riferimento alla Nakba e allo sfollamento sionista di quasi 800.000 palestinesi dalla loro terra nella Palestina storica.

“La vera disconnessione dalla realtà e dal popolo palestinese è quella della leadership di Hamas”, ha detto Fatah, accusando Hamas di non aver “consultato” gli altri leader palestinesi prima di lanciare il suo attacco contro Israele.

Gli Stati Uniti non nascondono di volere che l’Autorità Palestinese governi Gaza come parte del loro piano del “giorno dopo” per quando la guerra finirà. A margine di un evento di un think tank in Turchia all’inizio di questo mese, il ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Maliki ha detto che non c’è “alcun dubbio” che l’Autorità Palestinese sarà quella che governerà Gaza.

Insomma si è prodotto un pericoloso e inopportuno passo indietro proprio mentre la questione palestinese si trova su un crinale decisivo per il futuro, e almeno davanti a 32.000 morti una maggiore cautela nei passaggi da compiere sul piano della coesione interna della resistenza palestinese era quantomeno un atto dovuto.

Qui di seguito la dichiarazione congiunta di Hamas, Jihad islamica palestinese, Fronte popolare per la liberazione della Palestina e Movimento di Iniziativa Nazionale palestinese:
“Nel nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso

Alla luce del decreto emesso dal Presidente dell’Autorità Palestinese, che nomina il dottor Mohammad Mustafa a formare un nuovo governo, le fazioni nazionali palestinesi affermano quanto segue:

1. La massima priorità nazionale ora è affrontare la barbara aggressione sionista, il genocidio e la guerra per fame condotta dall’occupazione contro il nostro popolo nella Striscia di Gaza, e affrontare i crimini dei suoi coloni in Cisgiordania e Al-Quds occupata, in particolare La Moschea di Al-Aqsa e i rischi significativi che la nostra causa nazionale deve affrontare, in prima linea il rischio continuo di sfollamento.

2. Prendere decisioni individuali e intraprendere passi formali e privi di sostanza, come la formazione di un nuovo governo senza consenso nazionale, rappresenta un rafforzamento della politica di unilateralismo e un approfondimento della divisione, in un momento storico in cui il nostro popolo e la causa nazionale hanno più bisogno di consenso e unità, nonché della formazione di una leadership nazionale unificata, che prepari elezioni libere e democratiche con la partecipazione di tutte le componenti del popolo palestinese.

3. Questi passi indicano la profondità della crisi all’interno della leadership dell’Autorità [palestinese], il suo distacco dalla realtà e il divario significativo tra essa e il nostro popolo, le sue preoccupazioni e aspirazioni, il che è confermato dalle opinioni del vasto maggioranza dei nostri cittadini che hanno espresso la loro perdita di fiducia in queste politiche e orientamenti.

4. È diritto del nostro popolo mettere in discussione l’utilità di sostituire un governo con un altro e un primo ministro con un altro, provenienti dallo stesso ambiente politico e partigiano.

Alla luce dell’insistenza dell’Autorità Palestinese nel continuare la politica dell’unilateralismo, e ignorando tutti gli sforzi nazionali per unire il fronte palestinese e unirsi di fronte all’aggressione contro il nostro popolo, esprimiamo il nostro rifiuto della continuazione di questo approccio che ha danneggiato e continua a danneggiare il nostro popolo e la nostra causa nazionale.

Chiediamo al nostro popolo e alle sue forze viventi di alzare la voce e di affrontare questa follia con il presente e il futuro della nostra causa e con gli interessi, i diritti e i diritti nazionali del nostro popolo. Chiediamo inoltre a tutte le forze e fazioni nazionali, in particolare ai fratelli del movimento Fatah, di intraprendere azioni serie ed efficaci per raggiungere un consenso sulla gestione di questa fase storica e cruciale, in un modo che serva la nostra causa nazionale e soddisfi le aspirazioni del nostro popolo a estrarre i loro diritti legittimi, liberare la loro terra e i luoghi santi e stabilire il loro stato indipendente con piena sovranità e la sua capitale come Al-Quds”.

Movimento di resistenza islamica – Hamas

Movimento della Jihad islamica

Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina

Movimento di Iniziativa Nazionale Palestinese
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Perché il rapimento di Aldo Moro è l’ossessione degli ‘storici da bar’

I ciarlatani del caso Moro, quelli che Marco Clementi definisce «storici da bar», hanno riempito in questi decenni scaffali di librerie con le loro pubblicazioni, fatto uscire articoli a pioggia sulla stampa (ancora il 16/3 ne sono apparsi un paio), realizzato trasmissioni televisive, Report su tutti (ma anche lo scomparso Purgatori non scherzava), dando vita a surreali commissioni parlamentari.

Ultima quella antimafia che si è chiusa nella passata legislatura con una relazione dell’ex magistrato Guido Salvini, seguita ai lavori della precedente commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni.

Tra i ciarlatani non mancano di primeggiare, con dichiarazioni alle agenzie, diversi membri del governo attuale.

Questo fiume di ipotesi mai suffragate, congetture azzardate, ricostruzioni sgangherate – spiega Clementi – resta sempre sul terreno della cronaca, sezionando al millesimo minuti, ore e giorni del sequestro, ripetendosi all’infinito come un disco rigato, eludendo così non solo le smentite ma ancor di più il «tempo storico», le domande di fondo che sole possono aiutare a dare senso e comprensione a quella vicenda.

La burocrazia della memoria

La responsabile di un noto archivio che si occupa di «terrorismo e stragi degli anni ’70» ha tenuto nei giorni scorsi presso una università romana un corso di formazione per insegnanti delle scuole secondarie, attività finanziata dalla regione Lazio.

L’eminente specialista ha raccontato, in barba alle evidenze storiche fino ad ora acquisite, che in via Fani c’erano, la mattina del 16 marzo, non meno di 30 brigatisti, ovvero quasi tre volte i regolari della colonna romana in attività in quel periodo.

Alla richiesta di spiegare come fossero fuggiti dal luogo, visto che le macchine descritte dai testimoni sono sempre e solo state tre e nessun pullman è mai stato avvistato nei paraggi, ha risposto che si erano... dileguati a piedi per i prati.

Di fronte alla stupefacente risposta (accanto a via Fani non ci sono prati...) qualcuno ha voluto sapere se fosse mai stata in via Fani: la risposta è stata “no”.

Le istituzioni hanno creato una ‘burocrazia della memoria’ pubblica cui è stata demandata la funzione di amministrare la produzione pubblica sulla storia di quelli anni, presenziando in commissioni che vigilano sulle modalità di apertura degli archivi, sulla gestione di portali informativi e sulla formazione culturale.

L’eminente responsabile dell’archivio di cui stiamo parlando, membro a tutti gli effetti di questo apparato, deve aver confuso le 27 persone, condannate a vario titolo per il sequestro nei quattro diversi processi che si sono susseguiti tra gli anni ’80 e ’90, con i partecipanti diretti all’azione del 16 marzo.

Avrà così pensato che tutti e 27 affollavano via Fani e le strade adiacenti quella mattina. In realtà solo 9 di loro sono stati indicati in sede giudiziaria come presenti direttamente sul luogo dell’agguato. Oggi sappiamo che ve ne fu anche una decima, assolta però durante il processo ma condannata comunque per altri fatti.

I restanti 17 sono stati ritenuti responsabili per altre ragioni: perché membri dell’esecutivo nazionale o aventi funzioni apicali, oppure perché avevano gestito la custodia del sequestrato nella base-prigione di via Montalcini o ancora perché avrebbero preso parte ad alcune fasi della inchiesta preparatoria.

Nessuno di loro era in via Fani. Eppure i ciarlatani del caso Moro possono raccontare impunemente quel che vogliono.

Paolo Persichetti, Insorgenze.net

*****

Non avrà mai fine l’annosa ricerca di una singola prova, una contraddizione, un elemento di dubbio, capace di far crollare come un castello di carte la narrazione non dietrologica sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta.

Gli storici, si può osservare, dovrebbero essere contenti: la ricerca, infatti, non si può fermare e ogni nuovo apporto non può che arricchire i precedenti.

Teoricamente è così. In pratica non sempre questo accade: si pensi al revisionismo attuato in Russia sulla storia sovietica e la figura di Stalin, per fare solo un esempio.

Gli storici in questo caso sono stati messi a tacere e la revisione storica è diventa una questione di Stato.

Per quanto riguarda il caso Moro e più in generale la storia delle Br (o se si vuole la sua contro-storia), il dibattito spesso non si svolge tra storici e la cosa pone una serie di problemi metodologici molto seri.

Si potrà obiettare che storcere troppo il naso se un giornalista scrive un libro di storia non è una buona cosa. Infatti, esistono giornaliste e giornalisti che hanno studiato, scritto e analizzato questioni storiche in modo molto professionale, aprendo nuove prospettive di riflessione. Con il caso Moro, però, questo è accaduto molto di rado.

Un popolo di storici e ct

Tutti gli appassionati di calcio si sono sentiti commissari tecnici della nazionale almeno una volta nella vita. Tutti hanno fatto la propria formazione, criticato scelte, convocazioni e cambi, pensato che se ci fossero stati loro in panchina quella partita sarebbe finita diversamente.

Peccato che nessuno è stato mai chiamato dalla Federcalcio ad allenare la nazionale. Per allenare serve un patentino, si devono frequentare corsi a Coverciano ecc.. In una parola, bisogna essere professionisti che conoscono il linguaggio del campo e hanno esperienza decennale. Non ci si improvvisa e soprattutto agli improvvisati nessuno dà un lavoro.

Quando capita di discutere di storia al bar (o sui social), è facile perdere. Qualsiasi cosa si dica, infatti, viene ribattuta con riferimenti fumosi e frasi ipotetiche da chi discute non per capire meglio, ma per imporre la sua tesi di partenza. Le argomentazioni, anche le più precise, non sono prese in considerazione. Al limite, non le ascoltano proprio. È così e basta.

Rispetto alle fonti (archivi, bibliografie, saggi ecc.) l’interlocutore propone un paio di articoli di giornali o, quando va bene, un libro (che, sebbene pieno di sciocchezze, almeno è un libro). Conosce particolari mai sentiti, ma non è in grado di fare un discorso di ampio respiro per esempio sulla politica estera inglese durante il XIX secolo, sulle relazioni tra Italia e Germania tra le due guerre, sulle fasi della Shoah, sul nazionalismo ecc.

L’uso politico dei misteri

Con il caso Moro avviene la stessa cosa. La produzione saggistica è piena di autori/autrici improvvisati. Hanno letto qualcosa, intuito una pista, trovato qualche riferimento (tralasciando gli altri mille) e si sono messi a scrivere che le cose non sono andate come sembra perché c’era questo e quello e poi la Cia o l’ndrangheta, il Kgb o la P2 e dio solo sa ancora chi altri.

Tutte le volte che qualcuno ha preso sul serio queste note e ha cercato riscontri documentali, ha finito per dimostrare la fumosità delle stesse. Che, peraltro, ritornano anche a distanza di anni per cui, dato che i lettori si sono dimenticati (giustamente) che un decennio o un ventennio prima si era già discusso della cosa, i ricercatori sono costretti a ricominciare da capo in un gioco dell’oca infinito dove si ritrovano sempre al punto di partenza.

La storia non compie alcun passo in avanti e prevale sempre la cronaca, che seziona una giornata chiave dei 55 giorni in ore, minuti e secondi, ricerca quale funzionario di pubblica sicurezza sia arrivato prima e quale dopo, chi c’era e se non c’era come faceva a sapere ecc. ecc. La storia è colpita al cuore dalla cronaca e gli studiosi sono sommersi e emarginati dalle congetture e dall’uso politico dei misteri.

I tempi storici e quelli della cronaca

Inevase restano le grandi domande del caso Moro, che sono, in ordine sparso: il ruolo dello Stato italiano e la sua preparazione o impreparazione, il ruolo dei partiti, la strategia delle Br e la congruità del rapimento di Moro con la storia passata dell’organizzazione, la concomitanza del processo di Torino, le reazioni internazionali, il ruolo del Vaticano, le reazioni del movimento, quelle del mondo operaio, le opzioni di sviluppo della vicenda, gli spazi per una trattativa, le conseguenze politiche del rapimento (vedi voto di fiducia al IV governo Andreotti che fino alla sera prima il Partito comunista non voleva in quella formazione) e quelle dell’uccisione dell’ostaggio.

Ci sarebbero poi i processi, la storia delle commissioni di inchiesta, dell’associazione delle vittime del terrorismo, la legge sui pentiti, il carcere speciale, le torture e poco altro. Una vicenda complessa, ma non un rebus, che ha un inizio, uno sviluppo e una fine.

Storicamente quei 55 giorni hanno smesso di avere conseguenze politiche dopo le elezioni del 1979, quando il Pci uscì sconfitto dalle urne dopo essere stato un anno e otto giorni nella maggioranza di governo. Si aprì l’ultima stagione della Prima Repubblica che durò dieci anni, con i governi a guida laica per la prima volta dal 1948 e il preambolo di Carlo Donat-Cattin.

Nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, cambiò nuovamente tutto e a livello storico la vicenda Moro non ebbe più nulla da dire. ‘Mani pulite’, poi, sconvolse ulteriormente il quadro e Berlusconi mise una pietra tombale sul passato. Il caso Moro continuò a contare per i singoli protagonisti e le loro coscienze, ma su questo versante è giusto non entrare.

A distanza di 46 anni il continuo riemergere di misteri riporta una vicenda storicamente conclusa da decenni sulle prime pagine della cronaca, impedendo il consolidarsi di una discussione storiografica sulla sua importanza. Il che, alla lunga, rischia di tramutare in farsa una delle maggiori tragedie della nostra Storia.

Marco Clementi - Domani

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Guerra in Ucraina - Uccisi 33 mercenari italiani. Silenzio da parte del governo

Il ministero della Difesa Russo in un rapporto reso noto dalla agenzia Tass, ha aggiornato la contabilità dei mercenari stranieri che combattono insieme alle truppe di Kiev e che sono rimasti uccisi nel conflitto in Ucraina.

Secondo questo rapporto le forze armate russe hanno ucciso 5.962 mercenari stranieri sui 13.287 arrivati in Ucraina.

Di questi 90 risultano essere italiani e 33 di essi sono stati uccisi. Ma su questo non si registrano commenti o comunicazioni né da parte del ministero degli Esteri, né degli Interni, né della Difesa. Un silenzio assoluto non troppo dissimile dall’imbarazzo per una notizia decisamente rilevante.

In una tabella che riassume un bilancio aggiornato reso pubblico dall’agenzia russa Tass, le Forze Armate della Federazione Russa avrebbero ucciso 1.497 mercenari polacchi su 2.960, il contingente più numeroso di militari stranieri. Seguono i georgiani con 561 caduti su 1.042, 491 statunitensi su 1.113, 422 dei 1.005 canadesi, 360 degli 822 britannici, 147 dei 356 francesi.

Dalla Romania sono arrivati in Ucraina 784 mercenari di cui 349 sono rimasti uccisi finora; dalla Croazia 335 arrivati e 152 uccisi, dalla Germania 88 caduti su 235, dalla Colombia 217 morti su 430, mentre dal Brasile ne sono giunti 268, di cui 136 caduti.

Il sito specializzato AnalisiDifesa ritiene che sia “superfluo sottolineare che tali numeri non sono verificabili da fonti neutrali e quasi nessuna nazione occidentale ha fornito informazioni circa i propri ‘volontari’ recatisi a combattere in Ucraina”. Secondo il sito ne hanno riferito sporadicamente fonti in Polonia e Repubblica Ceca, così come nessun dato ufficiale è mai emerso in Occidente circa i caduti tra le fila dei mercenari.

Il tema non è mai stato trattato ufficialmente neppure in Italia, se non a livello giornalistico con rare interviste a qualche volontario.

Tra i paesi africani, il maggior numero di mercenari proviene dalla Nigeria: 97 (47 dei quali uccisi), seguita dall’Algeria (28 morti si 60 arruolati), mentre 25 australiani sono stati uccisi sui 60 giunti in Ucraina, insieme a 6 dei 7 neozelandesi.

L’ultima notizia circolata sulla morte di mercenari stranieri in Ucraina è del 16 gennaio di quest’anno, quando; secondo quel che riportava la Reuters, la Russia aveva dichiarato che un giorno prima le sue forze avevano effettuato un attacco di precisione contro un edificio che ospitava “combattenti stranieri” nella seconda città dell’Ucraina, Kharkiv.

Il ministero della Difesa russo aveva dichiarato che i combattenti erano per lo più mercenari francesi e che l’edificio era stato distrutto, con oltre 60 morti. Che evidentemente non interessano neanche ai paesi di provenienza...

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“AI Act”, l’Unione europea ha la sua legge sull’intelligenza artificiale

E così il 13 marzo il Parlamento europeo ha approvato l’AI Act, il regolamento comunitario sull’intelligenza artificiale. In estrema sintesi e lasciando a margine vari dettagli, ecco quello che c’è da sapere.

Concluse quelle che sono ormai delle formalità, l’AI Act diventerà ufficialmente legge entro maggio o giugno e le sue disposizioni inizieranno a entrare in vigore per gradi:

– 6 mesi dopo: i Paesi saranno tenuti a proibire i sistemi di IA vietati;

– 1 anno dopo: inizieranno ad applicarsi le regole per i sistemi di intelligenza artificiale di uso generale;

– 2 anni dopo: il resto della legge sull’IA sarà applicabile;

– 36 mesi dopo: gli obblighi per i sistemi ad alto rischio;

Le sanzioni in caso di non conformità possono arrivare fino a 35 milioni di euro o al 7% del fatturato annuo mondiale.

Vietate/i:

– sfruttamento delle vulnerabilità di persone o gruppi in base all’età, alla disabilità o allo status socio-economico;

– le pratiche manipolatorie e ingannevoli, sistemi che usino tecniche subliminali per distorcere materialmente la capacità decisionale di una persona;

– categorizzazione biometrica, ovvero la classificazione di individui sulla base di dati biometrici per dedurre informazioni sensibili come razza, opinioni politiche o orientamento sessuale (eccezioni per le attività di contrasto);

– punteggio sociale (valutazione di individui o gruppi nel tempo in base al loro comportamento sociale o a caratteristiche personali);

– creazione di database di riconoscimento facciale attraverso lo scraping non mirato di immagini da internet o da filmati di telecamere a circuito chiuso;

– inferenza delle emozioni nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni educative (eccezioni per motivi medici o di sicurezza);

– le pratiche di valutazione del rischio di commettere un reato basate esclusivamente sulla profilazione o sulla valutazione delle caratteristiche di una persona.

Non è del tutto vietata, bensì limitata, l’identificazione biometrica in tempo reale in spazi accessibili al pubblico – sulla base di circostanze definite (gli usi ammessi includono, ad esempio, la ricerca di una persona scomparsa o la prevenzione di un attacco terroristico) che richiedono un’approvazione giudiziaria o di un’autorità indipendente.

L’identificazione biometrica a posteriori è considerata ad alto rischio. Per questo, per potervi fare ricorso, l’autorizzazione giudiziaria dovrà essere collegata a un reato.

Seguono gli ambiti che non sono vietati ma sono considerati “ad alto rischio” e che dunque saranno valutati prima di essere immessi sul mercato e anche durante il loro ciclo di vita e su cui i cittadini potranno presentare reclami alle autorità nazionali.

Includono non solo le infrastrutture critiche o le componenti di sicurezza ma anche la formazione scolastica (per determinare l’accesso o l’ammissione, per assegnare persone agli istituti o ai programmi di istruzione e formazione professionale a tutti i livelli, per valutare i risultati dell’apprendimento delle persone, per valutare il livello di istruzione adeguato per una persona e influenzare il livello di istruzione a cui potrà avere accesso, per monitorare e rilevare comportamenti vietati degli studenti durante le prove);

- la gestione dei lavoratori (per l’assunzione e la selezione delle persone, per l’adozione di decisioni riguardanti le condizioni del rapporto di lavoro, la promozione e la cessazione dei rapporti contrattuali, per l’assegnazione dei compiti sulla base dei comportamenti individuali, dei tratti o delle caratteristiche personali e per il monitoraggio o la valutazione delle persone);

- servizi essenziali inclusi i servizi sanitari, le prestazioni di sicurezza sociale, servizi sociali, ma anche l’affidabilità creditizia;

- l’amministrazione della giustizia (inclusi gli organismi di risoluzione alternativa delle controversie);

- la gestione della migrazione e delle frontiere (come l’esame delle domande di asilo, di visto e di permesso di soggiorno e dei relativi reclami).

I sistemi di IA per finalità generali e i modelli su cui si basano (inclusi i grandi modelli di IA generativa) dovranno rispettare una serie di requisiti di trasparenza come:

- divulgare che il contenuto è stato generato dall’IA;

- fare in modo che i modelli non generino contenuti illegali;

- pubblicare le sintesi dei dati protetti da copyright utilizzati per l’addestramento.

I modelli più potenti, che potrebbero comportare rischi sistemici, dovranno rispettare anche altri obblighi, ad esempio quello di effettuare valutazioni dei modelli, di valutare e mitigare i rischi sistemici e di riferire in merito agli incidenti.

I Paesi dell’UE dovranno istituire e rendere accessibili a livello nazionale spazi di sperimentazione normativa e meccanismi di prova in condizioni reali (in inglese sandbox), in modo che PMI e start-up possano sviluppare sistemi di IA prima di immetterli sul mercato.

(Sintesi via il testo, il documento del Parlamento europeo, e i commenti di Luiza Jarovsky e Barry Scannel)

Qui il testo approvato.

C’è un’infinità di reazioni all’AI Act, molte positive e celebrative, ma per ora riporto solo una paio di comunicati fra chi voleva un AI Act più fermo nella protezione di alcuni diritti.

“Sebbene la legge sull’IA possa avere aspetti positivi in altri settori, è debole e consente persino l’uso di sistemi di IA rischiosi quando si tratta di migrazione”, scrive la coalizione #ProtectNotSurveill.

“Non riesce a vietare completamente alcuni degli usi più pericolosi dell’IA, tra cui i sistemi che consentono la sorveglianza biometrica di massa”, ribadisce l’ong Access Now.

P. S. Per altri dettagli sull’AI Act, ad esempio il tema open source, leggete questa mia precedente newsletter.

Fonte

17/03/2024

Underworld (2003) di Len Wiseman - Minirece

Grandi potenze vs Diritto Internazionale: rompere il ciclo dell’impunità

Le crisi globali hanno raggiunto un punto critico in cui non c’è altro rimedio che reinventare un ordine internazionale che rispetti la vita e la dignità umana.

Dalla creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) dopo la Seconda Guerra Mondiale, la subordinazione del diritto internazionale agli interessi dell’Occidente collettivo guidato dagli Stati Uniti ha ampiamente dimostrato l’incapacità di questo meccanismo di risolvere le controversie tra Stati, garantire lo sviluppo globale e preservare la pace mondiale.

L’Algeria e il Vietnam avrebbero ottenuto l’indipendenza, o il Sudafrica avrebbe abolito il regime di apartheid senza la lotta armata? Gli Stati Uniti avrebbero sganciato due bombe atomiche sul Giappone (tra la firma e l’adozione della Carta delle Nazioni Unite, tra l’altro) senza la garanzia che non avrebbero mai dovuto rendere conto?

Taipei, Seul, Tokyo e Manila sarebbero coinvolte in una corsa agli armamenti nel Mar Cinese Meridionale se Washington avesse onorato i suoi impegni scritti con Pechino e lo spirito della Carta dell’ONU?

Gli Stati Uniti spingerebbero oggi per la pulizia etnica nei territori palestinesi e nell’est del Congo, fornendo armi letali a “Israele” in un caso e alle milizie ruandesi nell’altro, se la Casa Bianca fosse costretta a mettere il diritto internazionale al di sopra della sua avidità geopolitica e ambizioni egemoniche?

Le recenti dichiarazioni di Hasan Nasrallah, segretario generale degli Hezbollah libanesi, non lasciano spazio a dubbi:

“Quello che è successo a Gaza ha dimostrato che la comunità internazionale e il diritto internazionale non possono proteggere le popolazioni. Non possono proteggere nessuno. Sono le vostre forze e i vostri missili che vi proteggono”.

Gli Stati Uniti continuano a rimanere indifferenti alle richieste globali di riforma dall’ONU. Per anni, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono state alla mercé degli interessi geopolitici e delle ambizioni egemoniche statunitensi.

Tanto che il potere di veto è visto come un via libera affinché Washington e i suoi stati satelliti siano al di sopra della legge, privando gli altri dei loro diritti fondamentali, presumibilmente garantiti dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Di conseguenza, la maggior parte dei leader del Sud Globale ha sistematicamente chiesto una riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Tuttavia, nonostante le proteste della comunità internazionale, Washington si è sforzata di mantenere lo status quo presso le Nazioni Unite, poiché ha tacitamente permesso di legittimare il ricorso alla legge del più forte: il suo cosiddetto “ordine basato su regole”.

Tuttavia, negli ultimi anni, di fronte al crescente potere delle economie emergenti, gli Stati Uniti sembrano aver capito che la transizione globale verso una nuova architettura mondiale non può essere fermata. Ciò nonostante, nel tentativo di fermare questa dinamica di cambiamento, che percepisce come sfavorevole alle proprie ambizioni egemoniche, ora favorisce apertamente la distruzione delle Nazioni Unite invece della loro riforma.

Infatti, per garantire la prevalenza dell'“ordine basato sulle regole”, o legge della giungla, l’amministrazione Biden ha optato per screditare l’operato degli organismi dell’ONU, tramite campagne mediatiche globali accusatorie (misure simili erano state adottate dall’amministrazione Trump, che si è ritirata dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nel 2018).

L’esempio più recente dell’attacco statunitense all’ONU è la decisione di sospendere i finanziamenti all’UNRWA. Questa è scattata nel bel mezzo del sanguinoso attacco israeliano contro Gaza e della pulizia etnica meticolosamente organizzata, con spostamenti interminabili della popolazione e la deliberata intenzione di far morire di fame e disumanizzare i palestinesi. Per non parlare dei massacri diretti della popolazione civile e della diffusione di malattie da Medioevo.

In altre parole, i palestinesi stanno pagando con la loro carne il cinico piano degli Stati Uniti di espandere ulteriormente il territorio israeliano – in violazione del diritto internazionale – e aumentare così l’influenza di Washington in Medio Oriente.

Il comportamento di Washington comporta un grande rischio per la sopravvivenza umana

In questo contesto, che alternativa può esserci al diritto internazionale per le nazioni e i popoli a cui è negata l’autodeterminazione e la sovranità, che sono vittime del saccheggio delle loro risorse e della violazione del loro diritto alla libertà, alla sicurezza, allo sviluppo, alla vita?

Certamente il diritto internazionale deriva la sua autorità dagli accordi tra Stati, per quanto antichi che siano, e come tale continua ad essere invocato dai leader mondiali come l’unico mezzo civile per risolvere le controversie ed evitare il destino disastroso riservato ai deboli, destino che ha assunto proporzioni orribili per i palestinesi.

In ogni caso, il diritto internazionale riflette un consenso globale sulla necessità di seguire regole comuni e di proteggersi dalla legge della giungla sostenuta dall’amministrazione statunitense, che mette in pericolo la stessa sopravvivenza dell’umanità.

Allo stesso modo, devono essere intese le quattro iniziative globali della Cina per costruire una nuova architettura globale, in particolare l’Iniziativa di Sicurezza Globale (che sembra concentrarsi su aspetti fondamentali del diritto internazionale che sono disprezzati dall’Occidente guidato dagli Stati Uniti).

Allo stesso modo, la decisione unilaterale della Russia di frenare la continua espansione dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) ai suoi confini, l’attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha ricordato al mondo l’abominio di 75 anni di occupazione (il tempo continuerà a smantellare le tante menzogne associate a questo attacco finalizzate a legittimare la pulizia etnica di Gaza), ma anche l’espansione della SCO e dei BRICS: tutti questi sviluppi derivano dal completo fallimento dell’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti.

Finora Washington non sembra disposta a partecipare alla progettazione di una nuova architettura internazionale, né sembra disposta a obbedire alle regole, vecchie o nuove che siano. In questo senso è in corso una campagna sui social network per chiedere l’espulsione degli Stati Uniti dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

In ogni caso, i paesi del Sud Globale hanno la responsabilità di sostenersi a vicenda nel contrastare la violenza anarchica delle potenze egemoniche. Di fatti, le crisi mondiali hanno raggiunto un punto critico in cui non c’è altra scelta se non quella di reinventare un ordine internazionale che rispetti la vita e la dignità umana.

Del resto, i Paesi del Sud Globale, che rappresentano quasi i tre quarti della popolazione mondiale, non si rassegneranno a scomparire, a rinunciare al loro diritto alla vita, per permettere alle istituzioni finanziarie e al complesso militare-industriale statunitense di soddisfare la propria insaziabile avidità.

Fonte

Libere di vendere il proprio corpo a pezzi

di Carlo Formenti

Nel mondo esistono due industrie che sfruttano i corpi di milioni di donne esponendole ad altissimi tassi di nocività (non di rado con conseguenze mortali). La condizione di queste "lavoratrici" non è molto migliore di quella dei neri nei campi di cotone del Sud degli Stati Uniti prima dell'abolizione della schiavitù. Sono l'industria della prostituzione e l'industria della maternità surrogata. Vediamo alcuni dati. L’industria della prostituzione impiega 400.000 donne nella sola Germania, dove coinvolge 1,2 milioni di clienti e genera un flusso annuo di denaro pari a 6 miliardi di euro. Il tasso di mortalità è 40 volte superiore alla media e le prostitute corrono un rischio 18 volte maggiore delle altre donne di essere uccise nell'esercizio della propria "professione". Secondo l’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro) i profitti della tratta di esseri umani (donne e minori) sono valutabili in 28,7 miliardi dollari anno. Infine una ricerca condotta su 800 donne in nove paesi ha appurato che il 71% ha subito aggressioni dai clienti, il 63% sono state violentate, il 68% soffre di disturbi post traumatici da stress, l'89% ha dichiarato che vorrebbe cambiare vita se ne avesse la possibilità. Passiamo all'industria della maternità surrogata. Solo in India (il maggior fornitore mondiale di uteri in affitto) il giro d'affari è stato di 449 milioni di dollari nel 2006. Qui la nocività fisica è minore (anche se non trascurabile) ma è assai elevata sul piano psicologico: la brusca separazione dal figlio/a che si è portato in grembo per nove mesi, del quale non si potrà mai più avere notizia è per molte un'esperienza traumatica che i miseri compensi non bastano a lenire.

A snocciolare questi dati è la svedese Kajsa Ekis Ekman autrice di un libro (Essere ed essere comprate. Prostituzione, maternità surrogata e identità divisa) appena uscito per i tipi di Meltemi che, oltre a documentare la cruda realtà appena evidenziata, demolisce gli argomenti con i quali quella che potremmo definire la santa alleanza fra neoliberali e sinistre postmoderne (compresa parte del movimento femminista) si batte per legittimare la prostituzione e maternità surrogata nei Paesi dove già sono legalizzate e per promuoverne la legalizzazione dove sono proibite.

Prostitute? No, lavoratrici sessuali

La tesi di fondo di liberali di destra e sinistre postmoderne (socialisti, verdi e femministe) che si battono per la legalizzazione è che la prostituzione è un lavoro come tutti gli altri. La vendita di servizi sessuali (sic.) non viola alcun diritto; al contrario si tratta di un diritto in sé, cioè del “diritto” di vendere il proprio corpo. I veri problemi sono altri: lo status lavorativo, la sindacalizzazione, retribuzioni adeguate, autodeterminazione, sicurezza sanitaria, ecc. Secondo questa narrazione il mondo della prostituzione non mette di fronte donne e uomini bensì venditori e clienti, per cui i proprietari di bordelli (privati o pubblici laddove esiste regolazione statale) diventano imprenditori e fornitori di servizi.

Le sinistre postmoderne contribuiscono alla narrazione costruendo l'immagine della lavoratrice sessuale come persona forte e indipendente, che sa quello che fa e non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, mentre i teorici queer la esaltano in quanto soggetto che trasgredisce le norme, abbatte i confini e mette in discussione i ruoli di genere. Fra questi agit prop della “puttana eroica” Ekman cita, fra gli altri, gli attivisti del COYOTE (Call Off Your Old Tired Ethics) un gruppo americano fondato da una fazione liberale del movimento hippie. Tutta questa gente svolge, consapevolmente o meno, il lavoro sporco per un ordine neoliberale ben felice di sgombrare il campo dall'idea della prostituta come vittima, perché ammettere l'esistenza di vittime implica riconoscere la necessità di una società giusta e di una rete di assistenza sociale, eliminare il concetto significa viceversa legittimare lo status quo, le divisioni di classe e la disuguaglianza di genere: se non ci sono vittime non ci possono essere carnefici.

Accademici, giornalisti e critici impegnati nel costruire questa immagine eufemistica e glorificata della lavoratrice sessuale, si danno da fare per "dare voce" alle interessate e si eleggono a rappresentanti dei loro interessi, bisogni e punti di vista, identificandosi con loro anche se, commenta sarcastica Ekman, nessuno di questi soggetti si è mai prostituito, così come certi eroi da salotto inneggiano alla guerra senza avere mai visto il fronte. Che dire dei sindacati? Posto che in generale l'argomento della sindacalizzazione cattura il favore degli ambienti sindacali tradizionali e di certa sinistra, i cosiddetti sindacati delle lavoratrici del sesso, come l'autrice ha potuto constatare intervistandone vari esponenti, sono specchietti per le allodole creati per intercettare finanziamenti: gli iscritti, se e quando esistono, sono pochissimi, spesso di tratta di uomini e trans, a volte addirittura di papponi e maîtresse.

In poche parole le narrazioni appena evocate svolgono il ruolo di infiocchettare il mondo della prostituzione con immagini mutuate dal mondo delle escort d’alto bordo dei Paesi occidentali, mentre calano un velo di ignoranza su una realtà fatta di violenza, sopraffazione, disperazione che coinvolge milioni di persone e attinge livelli inimmaginabili nel Terzo mondo e in alcuni Paesi ex socialisti.

Tratta di bambini? No immacolata concezione

La maternità surrogata è un'industria legale in crescita negli Usa, Ucraina, Inghilterra, India, Ungheria, Corea del Sud, Israele, Olanda, Sudafrica ma il primato spetta all'India. Sul mercato di questo grande paese le cose funzionano così: gli ovuli di donne bianche vengono inseminati con lo sperma di uomini bianchi e l’ovulo viene impiantato nel ventre di donne indiane; i bambini non mostreranno traccia della donna che li ha partoriti, non porteranno il suo nome né la conosceranno; dopo il parto le donne firmano un contratto di rinuncia al bimbo e ricevono fra i 2500 e i 6500 dollari; i clienti sono tipicamente americani, europei, australiani, giapponesi o indiani benestanti, coppie etero, gay, lesbiche e uomini single. Cosa impedisce di considerare tutto ciò come una forma estesa di prostituzione, con l'unica differenza che viene venduto l’utero invece della vagina? Per eludere questa domanda, vengono mobilitate due narrazioni complementari: da destra si esalta il sacrificio della madre surrogata che si spende per fare la felicità di una unione sterile; da sinistra si celebra la pratica “trasgressiva” che rovescia lo stereotipo della famiglia tradizionale.

Dopo avere premesso che la gravidanza in questione non è una "vera" maternità, bensì un servizio e che, stipulando un contratto, la madre surrogata conferma il proprio status di persona dotata di libero arbitrio individuale (persona è chi possiede il proprio corpo!), gli apologeti liberali indorano la pillola presentando la madre surrogata come un’anima gentile, una fata madrina che aiuta i clienti a ottenere ciò che vogliono. I più arditi si spingono a scomodare la tradizione ebraico cristiana per "angelicare" il mercimonio citando la serva Agar che portò in grembo il figlio di Sara e Abramo o il sacrificio della vergine Maria che portò in grembo il figlio del Signore. Ma appena le argomentazioni si fanno più prosaiche vengono alla luce le contraddizioni. La maternità surrogata è un servizio come un altro? Ma qual è il prodotto? Un bambino, che diviene così paragonabile a un’auto o a un cellulare. Una coppia stabile alto borghese, si dice, non darà forse al bambino la migliore educazione possibile e una vita migliore di quella che potrebbe offrirgli una miserabile madre biologica? Con il calcolo economico si riaffaccia insomma lo spettro della tratta di minori.

Ma c'è sempre la possibilità di mobilitare gli argomenti di sinistra. Per i teorici queer e gli attivisti LGBTQ la maternità surrogata, come la prostituzione, è una pratica trasgressiva che sfida modelli conservatori e obsoleti; è la storia femminista di donne che si ribellano alla maternità tradizionale riscattando altre donne dall’inferno associato dall'impossibilità di avere figli. C'è persino chi (tale Kutte Jonsson citata dalla Ekman) paragona la lotta per la legalizzazione della maternità surrogata a quelle degli anni '70 per il salario al lavoro domestico, sostenendo che le donne non devono essere private dell’opportunità di usare il proprio corpo in cambio di un pagamento, per cui la maternità surrogata sarebbe, al tempo stesso, un diritto e una richiesta di emancipazione.

In poche parole: l'alleanza fra neoliberali e sinistre postmoderne funziona benissimo anche in questo caso ma, prima di entrare nel merito delle riflessioni teoriche con cui Ekman sostanzia il suo atto d’accusa, vale la pena di dimostrare quali mostri riesca a partorire questa unità di amorosi intenti fra destre e sinistre. Ecco perché, nel prossimo paragrafo, ho raccolto un elenco delle citazioni dalle argomentazioni degli apologeti di prostituzione e maternità surrogata che più mi hanno colpito leggendo il libro della Ekman.

Fior da fiore liberal femminista

"Queste donne (le prostitute) prendono il comando sugli uomini e agiscono secondo strategie di potere" (Petra Ostergren).

"Ogni tipologia non convenzionale di sesso è rivoluzionaria" (Gayle Rubin, antropologa americana).

La sociologa Lara Augustin definisce le vittime della tratta di esseri umani "Lavoratrici sessuali migranti".

A proposito della prostituzione minorile in Thailandia l'antropologa sociale Heather Montgomery scrive: "non credo che i modelli psicologici occidentali possano essere applicati ai bambini di altri paesi e risultare ancora utili" (cioè i bambini thailandesi si divertono un mondo nei bordelli per pedofili?).

"Vendere il proprio corpo è un diritto umano" (Jenness).

"I papponi non sono necessariamente il nemico, possono essere necessari alla protezione delle lavoratrici sessuali visto che la polizia non riesce a farlo" (Ana Lopes, sindacalista).

"La maternità surrogata dissolve l’idea “naturale” di maternità, di paternità e di cosa sia una famiglia" (Torbjorn Tannsjo, filosofo)

"Il divieto (della maternità surrogata) è la prova che abbiamo una visione biologica eteronormativa e orientata alla coppia della genitorialità" (Soren Juvas, attivista per la legalizzazione).

"Anche le differenze di classe e di razza sono messe da parte quando si tratta di infertilità" (Hélena Ragoné, ricercatrice; cioè: al committente bianco non fa schifo far crescere il proprio figlio nel grembo di una donna di colore povera).

"Ci sono dei vantaggi nell’essere sfruttati soprattutto quando si vive in totale miseria" (Wilkinson, filosofo inglese).

"Ciò che viene venduto è un pacchetto di diritti genitoriali non il bambino" (Wilkinson, filosofo inglese).

"La maternità surrogata non è vendita di bambini ma piuttosto costruisce famiglie attraverso il mercato" (Elly Teman, antropologa).

Reificazione

Le narrazioni che perorano la causa della legalizzazione, scrive Ekman, tracciano un confine netto fra bene e male. Dalla parte del bene mettono: la prostituta ribattezzata lavoratrice sessuale, il sesso libertario, il libero arbitrio, il diritto a disporre del proprio corpo, i diritti dei gruppi oppressi, i gay, l’economia di mercato, il progresso, la trasgressione, ecc. Dalla parte del male: le femministe e gli attivisti politici paleo marxisti, la moralità, l’ipocrisia, la stigmatizzazione del diverso, l’essenzialismo, il controllo statale, ecc. L’autrice è tuttavia costretta ad ammettere che anche le femministe che non appartengono all’ala liberal-progressista del movimento si lasciano ricattare da questa polarizzazione infatti, per non essere dipinte come megere moraliste e bacucche patriarcali, preferiscono tacere o allinearsi alla narrazione mainstream.

La trappola concettuale che impedisce alle femministe di prendere le distanze dalle narrazioni dell’ala liberal progressista del movimento è l'ingombrante eredità ideologica che si portano dietro dal '68, sintetizzata dallo slogan il corpo è mio e ne faccio ciò che voglio. Slogan che, tanto nel caso della prostituzione quanto in quello della maternità surrogata, si ritorce contro le intenzioni di coloro che lo hanno coniato. Esso viene infatti utilizzato per legittimare un’altra asserzione: vendo una parte del mio corpo non il mio io. Il guaio è, commenta Ekman, che la vagina e l’utero sono legati a una persona per cui, nel momento in cui dico che vendo certe parti del mio corpo, rimuovo il fatto che nessuno possiede il proprio corpo perché tutti noi siamo i nostri corpi. Se la vagina e l’utero sono cose, la prostituta e la madre surrogata sono fatte di due parti: il soggetto che vende e l’oggetto venduto e la libertà del primo implica la schiavitù del secondo.

Per descrivere gli effetti psicologici di questo sdoppiamento, Ekman analizza le modalità di distanziamento che la prostituta, a partire dal momento in cui stipula un accordo con il cliente, è indotta a mettere in atto nei confronti del proprio corpo, nonché delle proprie sensazioni ed emozioni. Si tratta di una serie di pratiche di autodifesa che generano disagi e turbe psichiche e, alla lunga, possono causare veri e propri sdoppiamenti di personalità.

Per approfondire il tema l’autrice chiama in causa il concetto di estraniazione in Lukács (1) e quello di mercificazione in Marx. Per Lukács il concetto di reificazione descrive quell’aspetto della società capitalistica in ragione del quale gli oggetti appaiono dotati di vita propria a fronte di soggetti ridotti all’impotenza. Da un lato abbiamo l’individuo “liberato” dalla relazione immediata e diretta con la terra, i mezzi di produzione e i mezzi di sostentamento; dall’altro la sua forza lavoro, che assume la forma di merce, cioè di una cosa che egli possiede ed è indotto a vendere per potersi riprodurre. Questa relazione imprime la sua struttura all’intera coscienza umana: qualità e capacità non si connettono più all’unità organica della persona ma appaiono come cose che uno possiede ed esteriorizza al pari degli oggetti del mondo esterno.

Dal canto suo Marx, premesso che il capitalismo per durare deve costantemente cercare nuove aree di mercificazione, scrive che la mercificazione nasconde sempre la relazione sociale fra due parti. Nel caso della prostituzione, ma anche in quello della maternità surrogata commenta Ekman, ciò va inteso in senso letterale: la relazione è cancellata mentre resta solo la merce. Infine, per dimostrare ulteriormente la congruità delle categorie marxiane rispetto ai fenomeni sociali che analizza, scrive che la maternità surrogata potrebbe essere considerata come un caso particolare del tentativo di regolare il rapporto tra proletariato e classi superiori attraverso un contratto che consenta di mistificarlo come un rapporto fra “pari”.

L’eredità (sviata?) del '68. Considerazioni conclusive

Fin qui, fin quando cioè il discorso si mantiene sul terreno della denuncia e della critica filosofico culturale delle tesi di liberali e sinistre postmoderne, le argomentazioni della Ekman mi paiono impeccabili. Viceversa, quando la polemica si sposta sul terreno ideologico-politico, compaiono alcune aporie. La prima si manifesta allorché l’autrice cerca di dare una motivazione psicologica alla conversione delle sinistre all’ideologia liberale. Nel momento in cui il capitalismo conquista una incontrastata egemonia globale, scrive, parti della sinistra “reagirono mascherando come un trionfo la sconfitta”. Così la ricerca di ciò che è provocatorio, ribelle e sovversivo si sposta dall’esterno all’interno del sistema, fino a teorizzare (Ekman non li cita, ma qui le teorie di Negri e altri autori postoperaisti che blaterano di “comunismo del capitale” ci stanno a pennello) che l’ordine esistente è già di per sé sovversivo e/o a riconoscere in ogni manifestazione di insofferenza sociale, anche nelle più conservatrici e reazionarie, nuclei di resistenza e contropotere. La descrizione fenomenica è perfetta ma siamo sicuri che i motivi della svolta siano di ordine psicologico, una sorta di reazione autoconsolatoria per non sprofondare nella depressione?

La tesi mi pare debole, e ancora più debole mi pare il modo in cui Ekman descrive l’impatto dei movimenti libertari e anti autoritari del '68 sui sistemi di potere politici, economici, accademici e mediatici, i quali, scrive, “hanno dovuto ridefinirsi per giustificare la loro esistenza”. Così, dal momento che l’autorità non poteva più essere considerata come una cosa buona in sé e per sé né potendola più presentare come un dato “di natura”, l’unico modo per legittimare il potere sarebbe diventato quello di negarlo, o almeno eufemizzarlo. Da qui nasce la simbiosi fra destra neoliberale e sinistra postmoderna in ragione della quale capitalisti woke (2), media, intellettuali e politici fanno a gara per costruirsi un’immagine di diverso, dissidente o emarginato.

A una lettura superficiale potrebbe sembrare che la tesi di Ekman converga con quelle di Boltanski e Chiapello (3) e/o con quelle della filosofa femminista Nancy Fraser (4). Ciò è parzialmente vero nel caso della seconda, ma non lo è nel caso dei primi. Infatti costoro non sostengono che il neo capitalismo si sarebbe adeguato all’ideologia, ai principi e ai valori dei movimenti anti autoritari, sostengono assai più correttamente che l’ideologia, i principi e i valori di quei movimenti erano di per sé funzionali alle esigenze di autoriforma di un capitalismo in rapida trasformazione sul piano economico (finanziarizzazione) tecnologico (informatizzazione) e socioculturale (terziarizzazione e femminilizzazione del lavoro, esternalizzazione nei Paesi in via di sviluppo dei lavori esecutivi e concentrazione dei lavori “immateriali” e “creativi” nelle metropoli occidentali).

Una trasformazione che esigeva metodi e modelli organizzativi del tutto nuovi di gestione della forza lavoro qualificata, compatibili con le aspirazioni di quella classe media in formazione che nel '68 si era ribellata contro i vecchi dispositivi di potere politico, accademico e familiare. Esauritosi il ciclo di lotte operaie con le quali questi strati avevano brevemente condiviso obiettivi e parole d’ordine, costoro sono transitati dalla “critica sociale” alla “critica artistica” (5) rompendo il blocco sociale con i lavoratori manuali e arruolandosi nell’esercito neocapitalista che, per estendere il processo di mercificazione alla totalità delle relazioni sociali, esigeva che si facesse piazza pulita di tutto il vecchiume borghese (famiglia e costumi sessuali tradizionali compresi). Milioni di appartenenti alle classi medie “riflessive” erano pronti a marciare sotto le bandiere della libertà e dell'emancipazione individuali e ad aiutare il capitale a realizzare l’obiettivo descritto da Marx nel Manifesto: abbattere ogni barriera fisica, morale, ideologica, culturale che limita le opportunità di profitto.

Lo scoglio che impedisce anche alle femministe anticapitaliste come Ekman e Fraser di cogliere a fondo le radici di questa transizione storica, consiste nel fatto che non riescono a prendere atto che nel vecchiume borghese di cui il neocapitalismo ha bisogno di sbarazzarsi c’è anche quel paternalismo che continuano invece a rappresentare come il bersaglio principale. Queste autrici sono così costrette a fare salti mortali per dimostrare l’esistenza di un rapporto organico, strutturale, fra capitalismo e patriarcato (6). Ciò è del tutto evidente nel caso della maternità surrogata. Ekman parla di un nuovo tipo di mito patriarcale della creazione, nel senso che il padre non è l’uomo che genera un figlio ma colui che lo compra, e aggiunge che la maternità surrogata può essere vista come una forma estesa di prostituzione dal momento che qualcuno (spesso un uomo aggiunge) paga per usufruire del corpo della donna. Infine scrive che, da parte dei sostenitori della legalizzazione, il legame biologico del padre non viene messo in discussione: lui non viene accusato di difendere la biologia o la famiglia nucleare, la critica è rivolta solo a lei. Sono argomentazioni forzate, per non dire speciose. Qui è infatti evidente che è piuttosto la Ekman che cerca di attirare l’attenzione sul padre, rimuovendo il fatto che il desiderio di avere figli, nella stragrande maggioranza dei casi (fatta eccezione per le coppie omosex), vede come protagonista principale la metà femminile della coppia. Non è certo un caso se (vedi sopra) gli argomenti dei fan maschili della legalizzazione sono perlopiù economici, mentre quelli delle fan femminili (che sono larga maggioranza, a giudicare dalle citazioni scelte della stessa Ekman) esaltano il desiderio femminile di maternità che “sovverte” le regole della famiglia tradizionale. È la narrazione femminista che associa le donne che si ribellano alla maternità tradizionale alla sofferenza di non avere figli cui la maternità surrogata pone rimedio. È la storia di un desiderio che viene trasfigurato in bisogno perché lo si possa infine spacciare per un “diritto umano” che solo il mercato riesce a soddisfare (7). Mi pare ovvio che qui non è questione di dominio patriarcale bensì di dominio di classe e razziale, un dominio che le “leggi” del mercato capitalistico consentono a coppie benestanti bianche (donne e uomini) di esercitare a spese di donne povere e di colore.

Ovviamente mi si potrebbe obiettare che, nel caso della prostituzione, è difficile negare che si tratta di un fenomeno patriarcale più che (o almeno altrettanto che) capitalistico. Anche perché fenomeni come il turismo sessuale e altre forme di violenza e la sopraffazione che i maschi esercitano sui corpi di donne e minori caricano il tema di forti valenze emotive. Ciò detto, muovendo da questo punto di vita unilaterale si finisce per distogliere l’attenzione dalla forma specifica che il fenomeno della prostituzione assume nella società capitalistica. Una società che disintegra i legami comunitari e familiari, trasformando uomini e donne delle classi inferiori in atomi condannati alla povertà e alla solitudine, e generando quella miseria sessuale generalizzata di cui la prostituzione, con il suo corredo di violenza di genere, è uno dei corollari.

Ma la questione è più generale. Il rapporto fra il modo di produzione capitalistico e i residui antropologici, sociali e culturali delle società precapitalistiche è complesso, nel senso che il capitalismo sfrutta i residui in questione finché può metterli al servizio dell’accumulazione (vedi l’uso della schiavitù nell’America ottocentesca) mentre se ne sbarazza non appena entrano in conflitto con la sua vocazione di dispositivo di sovversione permanente di tutte le forme e relazioni sociali. Il salto di qualità associato ai fenomeni sopra elencati (terziarizzazione e femminilizzazione del lavoro, esternalizzazione nei Paesi in via di sviluppo dei lavori esecutivi e concentrazione dei lavori “immateriali” e “creativi” nelle metropoli occidentali, ecc.) è incompatibile con il permanere di strutture familiari di tipo patriarcale. Il capitale ha bisogno di spezzare queste strutture individualizzando e atomizzando la forza lavoro, uomini e donne, per renderla più ricattabile; ha bisogno di fare piazza pulita dei valori “machisti” dell’operaio tradizionale femminilizzandolo, spezzandone la combattività, l’orgoglio professionale (le donne della classe media hanno competenze che le rendono molto più adatte alla produzione terziarizzata).

La propaganda politicamente corretta (8) che media, intellettuali e politici spandono a piene mani è l’arma letale destinata triturare ogni residuo di ideologia patriarcale. Il fatto che le donne continuino a percepire stipendi in media più bassi, a occupare meno posti di responsabilità, ecc. non ha niente a che fare con il patriarcato: è il sistema usato dal capitale per dividere e mettere in concorrenza i lavoratori dei due sessi (la femminilizzazione del lavoro non è un fattore di equiparazione delle donne ai maschi, bensì di equiparazione dei maschi alle donne, è un gioco al ribasso). Ovviamente questo non toglie nulla allo straordinario contributo che il libro di Kajsa Ekis Ekman offre alla lotta contro due fenomeni disgustosi come la riduzione del corpo femminile a oggetto di piacere e a macchina riproduttiva. Nè toglie nulla alla sua denuncia della complicità delle sinistre postmoderne nei confronti del progetto neoliberale di mercificazione totale di ogni tipo di relazione umana. Queste mie glosse finali vogliono solo essere uno stimolo critico alla comprensione della sovradeterminazione di tutte forme di vita precapitaliste da parte del mercato.

Note

(1) Ekman si riferisce in particolare al Lukács di Storia e coscienza di classe (Tasco, Milano 1997) mentre non sembra conoscere l’opera “definitiva” del filosofo ungherese, quella Ontologia dell’essere sociale (4 voll. Meltemi, Milano 2023) che le sarebbe forse servita a superare alcune limitazioni presenti nella sua analisi filosofico politica (vedi l'ultima parte di questo articolo).

(2) Del fenomeno del cosiddetto capitalismo woke (vedi C. Rhodes, Capitalismo woke, Fazi, Milano 2023), vale a dire dei capitalisti “progressisti” che applicano i principi del politically correct alla gestione delle proprie imprese, mi sono occupato qualche mese fa su queste pagine: https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/09/a-proposito-del-cosiddetto-capitalismo.html.

(3) Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(4) Cfr. N. Fraser, Fortune of Feminism, New York 2013; vedi anche (con R. Jaeggi), Capitalismo, Meltemi, Milano 2019.

(5) Boltanski, Chiapello definiscono critica artistica la cultura anti autoritaria, libertaria, anti sessista dell’ala intellettuale e studentesca dei movimenti del 68, distinguendola dalla critica sociale del movimento operaio.

(6) Tipica in questo senso l’analisi teorica di Nancy Fraser. La sua riflessione integra nel concetto di crisi capitalistica quello di “crisi della cura”. Sposta cioè le contraddizioni principali del sistema all’esterno del modo di produzione e delle relazioni di mercato, o meglio le disloca al confine fra produzione e riproduzione. Questo approccio, pur presentando certe analogie con le tesi di autori come Polanyi, Luxemburg, Laclau e altri, se ne distingue in quanto, da un lato sostiene che fin dall’inizio la società capitalistica ha separato il lavoro di riproduzione sociale, esterno all’economia, dal lavoro di produzione economica, dall’altro lato afferma che le attività non economiche rappresentano una precondizione dell’esistenza stessa del sistema economico. Perciò, dal momento che la tendenza capitalistica all’accumulazione illimitata destabilizza i processi di riproduzione sociale, è sul confine che separa produzione e riproduzione che nasce una crisi della cura di intensità inedita. Questa crisi è lo scenario che genera le condizioni della convergenza fra emancipazione femminile e mercificazione del lavoro riproduttivo, convergenza che è il terreno di coltura di quel “neoliberismo progressista” al quale il femminismo mainstream fornisce giustificazione ideologica. Fraser, pur duramente critica nei confronti di questo femminismo neoliberale, si incarta tuttavia nel tentativo di mettere sullo stesso piano giustizia distributiva e giustizia del riconoscimento ma, poiché si tratta di due discorsi che incarnano paradigmi teorici diversi, l’aspirazione a “riequilibrarli” si risolve inevitabilmente nell’egemonia dell’uno sull’altro. Ergo: anche la Fraser finisce per cadere a sua volta preda dell’approccio postmodernista, il che è inevitabile non appena si parte dal presupposto secondo cui le rivendicazioni di riconoscimento avrebbero, non meno delle rivendicazioni di giustizia distributiva, ragioni strutturali, in quanto le stratificazioni interne alla classe degli sfruttati secondo linee di genere e di razza risponderebbero a una precisa necessità del modo di produzione capitalistico. Contestando questa visione in un dialogo con la Fraser, Rahel Jaeggi (vedi nota 4) afferma che, da una analisi teorica di ispirazione marxista, non si evince alcun motivo strutturale per cui gli sfruttati debbano essere categorizzati in base a confini di genere e/o di razza: “E se il capitalismo, si chiede, mirasse a espropriare e ‘riproduttivizzare’ quasi tutti, esigendo manodopera in quelle dimore nascoste dell’intera popolazione che non possiede capitale, oltre a ciò che esso già richiede loro attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato? Il risultato non sarebbe un capitalismo non razzista, non sessista?”. Di fronte a questa obiezione Fraser è indotta ad ammettere che l’ipotesi è “logicamente possibile”, dopodiché cerca di cavarsela dicendo che la si può tuttavia escludere “per tutti gli scopi pratici”. Il punto è che il femminismo non può ammettere che sessismo e razzismo non sono di per sé strutturalmente necessari per il modo di produzione capitalistico, in quanto rischierebbe di apparire una lotta di retroguardia contro certi arcaismi culturali e contro le forze politiche che li incarnano. In poche parole: il grumo concettuale che penalizza le analisi di tutte le intellettuali femministe è quello della presunta necessità strutturale della discriminazione di genere ai fini della sopravvivenza del modo di produzione capitalistico; un inciampo che rende loro impossibile emanciparsi del tutto dall’egemonia liberale.

7) Questo slittamento lungo l’asse desiderio-bisogno- diritto è stato il nodo che ha alimentato le critiche che il sottoscritto, assieme a Onofrio Romano e altri amici, ha sollevato nei confronti delle tesi sostenute da Stefano Rodotà nel suo Il diritto di avere diritti (Laterza, Roma-Bari 2012).

8) Sul carattere violento, autoritario e antidemocratico della cultura politicamente corretta cfr. J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo culturale come regime, Mimesis, Milano-Udine 2018.

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