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26/04/2024

Arma non convenzionale (1990) di Craig R. Baxley - Minirece

Gaza - Hamas ribadisce richiesta di cessate il fuoco. Emergono gli orrori dalle fosse comuni a Khan Younis

Hamas non accetterà un accordo di tregua senza un cessate il fuoco permanente e il ritiro completo delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza. Lo ha detto Khalil al Hayya, membro dell’ufficio politico di Hamas all’emittente “Al Jazeera”.

“Hamas non ha chiuso la porta ai negoziati ed è seriamente intenzionato a rilasciare gli ostaggi nel quadro di un accordo che garantisca anche il rilascio di migliaia di prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane”, ha affermato Al Hayya. Tra gli obiettivi c’è anche il “ritorno senza ostacoli dei palestinesi sfollati alle loro case in tutte le parti della Striscia, la ricostruzione di Gaza e la fine dell’assedio”.

Il gruppo palestinese ha consegnato la sua risposta all’ultima proposta, che includeva un emendamento degli Stati Uniti, lo scorso 13 aprile, e “sta ancora aspettando una risposta da Israele e dai mediatori”, ha proseguito Al Hayya, aggiungendo che “il punto critico che ha bloccato i negoziati è il rifiuto di Israele di accettare un cessate il fuoco permanente”.

Intanto le squadre della Protezione Civile di Gaza hanno analizzato i corpi di 392 persone sepolte in fosse comuni presso l’ospedale Nasser di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza.

“Le squadre della protezione civile hanno dissotterrato 392 corpi dalle fosse comuni”, ha detto Yamen Abu Sulaiman, capo dell’agenzia di difesa civile di Gaza, in una conferenza stampa nella città meridionale di Rafah, giovedì, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Anadolu.

Tra le vittime c’erano i corpi di bambini. “Non conosciamo il motivo della presenza di corpi di bambini nelle fosse comuni dell’ospedale”, ha detto Abu Sulaiman.

Ha anche detto che su alcuni corpi sono state trovate prove di tortura. “Ci sono indicazioni di esecuzioni sul campo contro alcune delle vittime, mentre i corpi di altre vittime portavano segni di tortura e altri sono stati sepolti vivi”, ha detto Abu Sulaiman.

Durante la conferenza stampa, un funzionario della protezione civile ha condiviso un video delle vittime con segni di tortura evidenti sui loro corpi, che erano incatenati con cinture di plastica.

Molte delle vittime “sono state sepolte in sacchetti di plastica e poste a una profondità di tre metri, il che ha accelerato la loro decomposizione”.

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Sionisti esaltati e qualche domanda da porsi

La provocazione sionista non ha funzionato (nonostante alcuni media “complici”, che hanno propinato la versione già predisposta, senza neanche guardare quel che effettivamente è accaduto in piazza).

Primo punto fermo: è evidente che la “brigata ebraica” è oggi una sigla di comodo (ben pochi dei non molti membri storici sono oggi in vita, essendo passati 79 anni dai fatti).

Così come è evidente il tentativo di far passare la pressoché nulla operatività militare della “brigata ebraica” storica – peraltro inquadrata come reparto dell’esercito regolare del Commonwealth inglese, dunque senza alcuna autonomia – come protagonista della Resistenza italiana. Derubricando di fatto i partigiani a “comparse” (incredibile che ci possa essere in questo qualche dirigente attuale dell’Anpi disposto ad assecondare questo revisionismo).

Ancora più chiaramente, a Milano, lo striscione “identitario” esibito in piazza dichiarava spudoratamente il senso dell’operazione: “5.000 sionisti liberarono l’Italia“. Moltiplicando per quattro i numeri storici (ma sempre pochi restano...) e soprattutto chiarendo che “sionisti” ed “ebrei” non sono affatto sinonimi.

Quelli che oggi si riparano sotto questa sigla sono insomma la parte sionista e nazionalista (nel senso dello stato di Israele) della comunità ebraica, che meritoriamente può vantare numerosissimi esponenti di tutt’altra opinione.

Ma è chiaro che c’è stato un “salto di qualità” in quest’ala sionista, che ieri a Roma è arrivata determinata a cercare lo scontro fisico a tutti i costi, con una squadra di teppisti di cui alcuni a volto coperto (strano che la polizia non abbia neanche cercato di identificarli, vista la abbondante legislazione in proposito), praticamente “in divisa”. E immaginiamo cosa sarebbe accaduto, e cosa sarebbe stato scritto, a parti invertite.

È particolarmente indicativo il servizio in diretta di Rete4 (berlusconiana e governativa, dunque) in cui la cronista riferisce correttamente quel che era appena avvenuto e la responsabilità dei fatti (“una carica della ‘brigata ebraica‘”). Ma immediatamente interviene il ben noto Riccardo Pacifici che l’aggredisce negando l’evidenza, fino a quando la conduttrice della trasmissione cambia la versione smentendo la propria inviata sul campo (“non credo che ci sia stata alcuna carica“). Questa è l’informazione in Italia, ostaggio dei guerrafondai.


Viene in mente quella notizia, circolata nelle scorse settimane, che riferiva di 1.400 cittadini italiani di fede ebraica che stavano operando come riservisti militari a Gaza e in Cisgiordania, o ai confini col Libano. Sembra possibile che qualcuno abbia pensato di sfruttare una turnazione o i normali “periodi di licenza” per provare ad importare tecniche e “regole di ingaggio” apprese in combattimento (gestione dell’informazione compresa...).

È palese infatti il tentativo di applicare anche qui lo schema adottato dal governo Netanyahu (tutti i problemi si risolvono per via militare, e basta).

Il che getta anche una luce sinistra su quei “soldati di un esercito straniero in guerra” (Israele) che però possono sfruttare anche la nazionalità italiana e una condiscendenza politica decisamente eccessiva del cosiddetto “arco parlamentare”. È uno dei modi in cui la “guerra grande” che si sta combattendo in questa parte del mondo percola dentro il conflitto politico italiano e diventa “guerra interna”,

Troppi sospetti e pregiudizi? Mah, ci limitiamo a riportare – per esempio – la testimonianza de Il Faro di Roma, testata online cattolica, che in piazza ha visto quel che chiunque poteva – volendo – registrare.

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25 Aprile. La Brigata Ebraica sfila a Porta San Paolo tirando sassi sui filopalestinesi

Questa mattina [ieri, ndr] a Roma, in occasione delle celebrazioni per il 25 Aprile previste a Porta San Paolo, luogo simbolo dell’eroica Resistenza al Fascismo, è stato negato il diritto a manifestare a favore della Palestina e chiedere di fermare il genocidio in atto a Gaza.

I ragazzi di varie sigle della Sinistra dalle 7 di questa mattina erano impegnati a manifestare contro la guerra e le armi che stanno facendo strage anche di civili e bambini a Gaza e in Cisgiordania, quando alle 8.30 è sopraggiunto il corteo della Comunità Ebraica che ha tentato di avvicinarsi ai manifestanti, ma è stato contenuto dalla Polizia schierata in tenuta antisommossa.

In particolare a spingere sugli scudi e sul cordone delle forze dell’ordine è stato il servizio d’ordine della Comunità Ebraica, riferiscono alcuni cronisti.

Mentre si udivano le grida con insulti reciproci e l’accusa ai militanti della Sinistra di essere espressione di Hamas, è successo che alcuni esponenti del servizio d’ordine della Comunità ebraica hanno lanciato sassi contro i ragazzi filopalestinesi colpendo anche i cronisti che li riprendevano.

Sono due i giornalisti rimasti lievemente contusi. Un fotografo si recherà poi al Pronto Soccorso a farsi refertare e il cronista di un sito d’informazione online, benché colpito al naso da un sasso ha detto si colleghi: “vado avanti a lavorare, la manifestazione non è finita”.

Intanto, lentamente, si è allontanato il corteo della Brigata Ebraica percorrendo viale del Campo Boario diretto a piazza Bottego mentre le prime file in più di un’occasione hanno tentato di aggirare il cordone dei poliziotti

Le tensioni erano ampiamente annunciate. “Continuiamo la nostra lotta per chiedere lo stop al genocidio del popolo palestinese, che continua a resistere alle barbarie portate avanti da Israele e dell’imperialismo occidentale. Tutto accade con la collaborazione del nostro governo, che continua a schierarsi dalla parte del sionismo e che si dimostra sempre più a destra, con anche la collaborazione delle finte opposizioni”, recita un comunicato delle sigle filopalestinesi.

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Riflettendo sul 25 aprile/3. Resistenza “tollerata” e “tolleranza” del fascismo

di Massimo Zucchetti

Il «vento del Nord», come disse Pietro Nenni nel 1944, era quella spinta politica prodotta dalla Resistenza, che avrebbe dovuto spazzare via non solo il fascismo, ma anche tutte le «forze antidemocratiche, tutti gli interessi reazionari», essendo «una forza in irresistibile movimento, che non si accontenterà di parole sulla libertà e la democrazia, ma vorrà fondare la libertà su nuove istituzioni politiche e su nuovi ordinamenti economici».

Purtroppo, il vento del Nord diventò presto molto più tenue di quanto non pensassero i resistenti.

Resistenza tradita? Giorgio Bocca concluse con un “Resistenza incompiuta” la sua analisi storica del periodo. Noi, si parva licet, ci permettiamo di proporre un nostro “Resistenza tollerata”.

• La tollerarono obtorto collo gli anglo-americani durante la guerra, quando i partigiani liberarono tutte le principali città italiane (Roma esclusa), evitando agli Alleati tante mini-Stalingrado, o più vicino a noi, battaglie come la conquista sanguinosa di Aachen (Aquisgrana) nell’autunno 1944, o il massacro reciproco di sovietici e tedeschi per la conquista di Berlino nell’aprile 1945.

• La tollerarono, sempre gli anglo-americani, perché i tedeschi, per controllare e reprimere la Resistenza nel centro-nord, dovevano tenere impegnate diverse divisioni, sottratte al fronte.

• La tollerarono gli industriali, che tanta parte avevano avuto nel trionfo del fascismo vent’anni prima, e che nel ventennio avevano prosperato: furono assai veloci nell’annusare il cambiamento, e adeguarsi diventando anche fiancheggiatori dei resistenti. Pochi i veri antifascisti, è qui un dovere ricordare Enrico Mattei.

• La tollerò nel dopoguerra chi stava al Governo d’Italia, cioè in sostanza i democristiani, con il protettorato degli Stati Uniti. La società italiana, negli ultimi decenni, ha pian piano appiattito ed annacquato il ricordo della Resistenza, in una specie di abbraccio generale all’insegna del “eravamo tutti fratelli”.

Proprio per questo è importante, anche a distanza di ormai otto decenni, non dimenticare. Questo è particolarmente un dovere verso i giovani, che sono le prime vittime di questa pluridecennale campagna di disinformazione strisciante e buonista.

Il fascismo – repubblicano per facciata, ma dittatoriale fino alla fine – rimase sempre ciò che era stato fin dagli inizi: servo dei padroni, industriali e agrari. Alcuni infingimenti populisti e socialistoidi, con i quali il “socialista” Mussolini aveva già tradito la causa del socialismo e della pace negli anni ’10, trascinando l’Italia nella Prima guerra mondiale, vennero rivangati da Mussolini stesso ed altri personaggi, durante quei mesi di agonia finale del regime, e finirono, come fu giusto, nella pattumiera della Storia.

Perché un altro equivoco – a tal proposito – va chiarito. Se il partito dell’industria, vista l’imminente sua fine, ad un certo punto mollò il fascismo per rivolgersi agli Alleati, ed i fascisti reagirono con rabbia, questo non fa dei fascisti dei rivoluzionari anticapitalisti, ma solo dei servi messi alla porta, perché oramai imbarazzanti e inutili.

Così come non fa degli industriali degli antifascisti, ma – come sempre – dei capitalisti senza scrupoli pronti a servirsi di chiunque ed a cavalcare qualunque tigre, pur di conservare i propri privilegi ed estenderli: ricordiamo che grazie agli industriali e agli agrari vi fu l’avvento del fascismo, e sempre a causa loro l’Italia del dopoguerra tradì le migliori aspettative della Resistenza e finì in mano ai democristiani, con la supervisione degli Alleati.

Torniamo agli ultimi sfrontati tentativi di trasformismo di Mussolini e dei “Repubblichini moderati”.

La guida decisa di Sandro Pertini e di Lelio Basso mantenne, nella primavera 1945, i socialisti fuori da qualunque ambiguità o compromesso. Un’ultima lettera “ai compagni socialisti” venne vergata da Mussolini dopo la fallita trattativa in Arcivescovado e prima della fuga, il 25 sera.

Conteneva ancora profferte di accordo “fra compagni socialisti” (sic). Recapitata a Sandro Pertini, ebbe la consueta risposta: “La lettera non sarà presa in considerazione alcuna“. Bravo, Sandro. Nessuna trattativa, nessuna “comprensione”, nessun perdono saranno mai possibili, con i fascisti di ieri e di oggi. Il perdono – dicono quelli che ci credono – “spetta a Dio”.

Molti dei fascisti attuali si professano – non si comprende con quale coraggio e sfrontatezza – credenti. Ovviamente cristiani, religione ipocrita che calza loro a pennello. Nostro compito di antifascisti è al massimo questo: facilitare il più possibile l’incontro con “Dio” dei suddetti fascisti, in modo che possano riceverne il tanto agognato perdono. Ogni mezzo fu utile nel 1945, ogni mezzo deve esserlo oggi, per aiutarli in questo.

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Perché va sostenuta la resistenza del popolo argentino contro Milei

Bisogna essere grati all’obbrobrioso personaggio che risponde al nome di Javier Milei e che ricopre attualmente, speriamo ancora per poco, il posto di presidente dell’Argentina, per aver dimostrato senza ombra di dubbio che il neoliberismo sfrenato finisce per trasformarsi in fascismo bell’e buono.

Milei, colle sue incontenibili smanie distruttive, che lo hanno spinto a scegliere la motosega come suo strumento iconico, mi ricorda le imprese di Leatherface, il serial killer capo di una famiglia di assassini psicopatici protagonista di Non aprite quella porta, noto film horror cult statunitense del 1974.

Costui fa a pezzi con la motosega d’ordinanza tutti gli sventurati che circolano dalle sue parti per rispondere all’emarginazione sociale e culturale di cui è vittima.

Una vocazione alla violenza e al massacro che pare singolarmente in sintonia coi peggiori e senza dubbio mortiferi spiriti del capitalismo nella sua fase attuale, contrassegnata non solo dalla fase putribonda dell’imperialismo (che Lenin aveva definito a suo tempo fase suprema del capitalismo), ma anche dall’importanza centrale e strategica assunta dal complesso militare-industriale nel quadro del rafforzamento senza precedenti della finanza, dei settori ad alta tecnologia e dei monopoli in genere.

Non a caso il leader prediletto di Milei è quel Netanyahu le cui criminali pulsioni genocide, che si sono tradotte già nella morte di oltre trentacinquemila palestinesi in gran parte bambini e minacciano di trascinare il mondo intero nell’abisso della guerra nucleare, rendono un emulo indiscusso di Leatherface su scala planetaria.

L’altro elemento che ricollega le vicende di Milei a quelle narrate dal film horror di cinquanta anni fa che abbiamo ricordato è poi rappresentata dal ruolo chiave svolto dall’emarginazione sociale che nutre sentimenti distruttivi di rivalsa nei confronti del sistema che paradossalmente alimentano il sistema stesso. Infatti il successo elettorale di Milei è in gran parte dovuto alla sua capacità di intercettare i sentimenti di frustrazione sociale molto diffusi in settori giovanili e popolari che vivono le contraddizioni del capitalismo e sono rimasti delusi dalla sostanziale incapacità del peronismo e di altre forze che hanno governato l’Argentina negli ultimi anni a farsi carico delle loro problematiche, data la loro sostanziale subalternità al sistema.

Forte di questo consenso e dei difetti strategici altrui, Milei si è lanciato a testa bassa nella demolizione di qualsiasi intervento pubblico e di ogni sentimento di solidarietà umana e sociale, tentando addirittura di annientare la cultura dei diritti umani e la memoria dell’immane massacro compiuto negli Anni Settanta dalla dittatura militare, che inaugurò la prassi criminale delle sparizioni di massa, provocando la morte violenta, spesso a seguito di indicibili torture, di oltre trentamila persone.

Ma questa impresa sciagurata potrebbe rivelarsi superiore alle sue possibilità e tutti quanti dobbiamo auspicare che la parte migliore del popolo argentino riesca a porre fine a questa mostruosità antistorica che lo vorrebbe riportare a uno stato di amnesia e di totale assenza di identità.

Per questo è importante oggi sostenere con ogni mezzo la resistenza del popolo argentino a Milei: l’obbligo si impone in primo luogo a noi italiani che coll’Argentina abbiamo un fortissimo legame culturale e di sangue dato che buona parte della sua popolazione è di origine italiana.

Un’importante iniziativa in questo senso è stata il conferimento alla leader delle Madri ora Nonne di Plaza de Mayo, Estela Carlotto, da sempre protagonista della lotta per la verità e giustizia sui desaparecidos, del dottorato ad honorem dell’Università Roma Tre, avvenuta mercoledì scorso 17 aprile, così come la produzione letteraria e memorialistica in merito, che ha visto di recente la pubblicazione di un importante podcast dal titolo Nieto 133 sulla famiglia Santucho che fu vittima della repressione fascista, scritto da Claudia Gatti, Riccardo Cocozza e Florencia Santucho.

La pianta della memoria va coltivata e resa sempre più rigogliosa affinché mai in futuro si possano riproporre atrocità come quelle. Parte fondamentale di un indispensabile processo pedagogico rivolto alle giovani generazioni e alla società nel suo complesso, oggi sottoposte dagli apparati ideologici del capitalismo, dalla scuola all’università, dai giornaloni alle televisioni a un vero e proprio lavaggio del cervello, una tendenziale lobotomizzazione volta a prepararci tutti a vecchi e nuovi orrori.

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Oltre il Pil, così cambia l’economia della Cina

I dati del primo trimestre 2024 (Pil +5,3 per cento) hanno sorpreso i tanti analisti e osservatori che credono che l’economia cinese abbia raggiunto il picco e sia destinata a subire un brusco rallentamento.

L’economia cinese sta cambiando pelle: i “tre vecchi” (elettrodomestici, abbigliamento, mobili) sono stati soppiantati dai “tre nuovi” (veicoli elettrici, batterie, pannelli fotovoltaici) come principali prodotti d’esportazione.

La guerra commerciale e l’embargo tecnologico degli Stati Uniti stanno tuttavia complicando la rincorsa di Pechino.

Delle prospettive della seconda economia del pianeta abbiamo discusso con Roberto Donà, docente di Management presso la Xi’an Jaotong-Liverpool University di Suzhou (Cina) e consigliere della Camera di commercio dell’Unione Europea in Cina.

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La strana “democrazia” di Ucraina e Israele, parola di Washington

Ogni anno, il Dipartimento di Stato statunitense (l’equivalente del nostro ministero degli Esteri) stende un rapporto sul rispetto dei diritti umani in circa 200 paesi. Anche quest’anno è arrivato il momento di trasmettere i testi al Congresso, compresi quelli sui suoi alleati.

Non che poi Washington faccia davvero quel che dice, cioè difendere la democrazia e i diritti delle persone. Ma questi documenti sono in genere dettagliati e piuttosto onesti nel dar conto delle varie situazioni, pur ridimensionando spesso i crimini commessi da chi è legato agli USA.

Ad ogni modo, non si può nascondere tutto e quest’anno è sicuramente di un certo interesse andare a leggere cosa viene detto su due «bastioni» della democrazia, almeno per come sono presentati nei media occidentali.

Cosa ne pensa il Dipartimento di Stato dell’Ucraina e di Israele?

Per quanto riguarda l'Ucraina, la prima cosa che viene affermata è che, senza dubbio, i crimini commessi dai russi nel territorio di Kiev sono peggiori. E, tuttavia, sono elencati diversi nodi problematici che danno l’immagine di un paese che non ha nulla a che vedere con la “democrazia liberale”.

La legge proibisce torture e altre forme di abusi, ma vi sono resoconti che parlano di questo tipo di atti da parte delle forze dell’ordine. E del resto, con la legge marziale, le confessioni e le dichiarazioni estorte sotto costrizione possono essere utilizzate nei processi: insomma, in Ucraina è ormai legittimo torturare.

A queste note seguono tutta una serie di altre violazioni documentate, sia per ciò che riguarda gli arresti sia per i successivi procedimenti giudiziari. Sono tante le infrazioni delle norme di guerra, con la maggior parte attribuite alla Russia, ma rimarcando che esse vengono da entrambe le parti.

È soprattutto l’informazione a uscire devastata dalla guerra. Programmi banditi e sanzioni a giornalisti non allineati col governo, le querele e il pretesto della “sicurezza nazionale” per indirizzare le notizie sono largamente diffusi, così come la pratica dell’autocensura di ciò che si ritiene potrebbe suscitare malumori a Kiev.

Ci sono poi tanti altri ambiti in cui le illegalità si sono moltiplicate: violenza di genere, lavoro minorile, corruzione, libertà di associazione. Il rapporto sottolinea come, oltre ai simboli russi, anche quelli comunisti siano proibiti, cosa che di certo non dispiace ai vertici a stelle e strisce.

Del resto, i partiti comunisti sono stati banditi già dal 2015, ben prima dell’operazione militare russa. È bene ricordare che nelle democrazie liberali occidentali, sicuramente meno evolute di oggi, essi non vennero messi al bando nemmeno durante la Seconda guerra mondiale.

Passiamo a Israele, West Bank e Gaza. La prima sezione del rapporto si apre dicendo subito che nel corso del 2023 vi sono state “diverse segnalazioni che il governo o i suoi agenti hanno commesso uccisioni arbitrarie o illegali”. Non dopo il 7 ottobre, ma ben prima e durante tutto l’anno.

La legge israeliana non proibisce la tortura o altri trattamenti inumani, e ci sono varie relazioni attendibili sul loro utilizzo. Questo è avvenuto in particolar modo nei confronti dei detenuti palestinesi, e soprattutto dopo il 7 ottobre.

Per i crimini che prevedono condanne dai dieci anni in su è obbligatoria la registrazione degli interrogatori, ma una legge “temporanea”, continuamente prorogata dal parlamento, esenta i casi ascrivibili ai reati di sicurezza. In poche parole, tramite legislazione speciale Tel Aviv si è assicurata che non ci possano essere prove scritte dei crimini perpetrati sui prigionieri palestinesi.

Alcuni di loro, detenuti nella West Bank o a Gaza, sono stati trasferiti in strutture interne a Israele. Per molti gruppi che si battono in difesa dei diritti umani, questo va contro la Quarta Convenzione di Ginevra, che tutela i civili in tempo di guerra.

Tutele ormai dimenticate da tempo: il 2 maggio Amnesty International ha riportato l’utilizzo da parte del governo israeliano di un sistema di riconoscimento facciale da usare sui palestinesi per imporre ulteriori restrizioni di movimento. Inutile dire che il database biometrico che ne è risultato raccoglie i dati senza alcun consenso.

Il rapporto continua esplicitando che “il governo ha generalmente rispettato [la libertà di espressione] con alcune eccezioni, soprattutto per i palestinesi e i cittadini arabi/palestinesi di Israele”. Per questi ultimi vale anche, allo stesso modo, la restrizione del diritto a riunirsi pacificamente.

Sono frasi che smontano le dichiarazioni che ogni tanto si sentono sul fatto che i palestinesi con cittadinanza israeliana vivano “senza problemi” nell’entità sionista. Una falsità che deriva dalla Costituzione stessa di Israele, in quanto progetto coloniale, suprematista e, dal 2018, anche stato etnico-religioso (“ebraico“) per legge.

Nel rapporto sono ricordati anche molti altri elementi tragici del genocidio condotto da Israele. Per citarne uno, il Comitato per la protezione dei giornalisti ha denunciato “un apparente schema di attacchi ai giornalisti e alle loro famiglie da parte delle forze armate israeliane”.

Tutte queste informazioni non sono elucubrazioni di un qualche “comunista rancoroso” o di qualche “integralista islamico”, ma una rassegna di notizie e rapporti raccolti dal Dipartimento di Stato statunitense.

Come possano andare d’accordo con la retorica per cui la guerra che la filiera euroatlantica sta alimentando in Ucraina e Medio Oriente sia “a difesa della democrazia” è un mistero che ha senso solo nelle sale di Bruxelles e Washington.

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