Milano e una Versilia che sta lassù, qualche metro sopra il livello
del mare, senza clacson né euforie alcoliche. Questi erano i due mondi
di
Giorgio Gaber, scappato via dieci anni fa. A Milano
era cresciuto, aveva incontrato il Giambellino e il suo fratello, minore
o maggiore, dipendeva dai giorni, che porta il nome di
Enzo Jannacci.
Le serate erano tra il Derby di via Monte Rosa e la palazzina Liberty.
Giravano loschi figuri come Francis Turatello e gente –
Bettino Craxi
circondato da belle donne – che da lì a breve avrebbe appeso al cappio
una povera italietta. Ma il Derby, fortunatamente, non erano i suoi
avventori, ma quelli che ci lavoravano: c’erano certi Cochi e Renato,
Teocoli, Boldi, Abatantuono, Beppe Viola. C’era una Milano che da porta
Lodovica, bar Gattullo, oggi si è trasferita nei
wine bar dove mangi gli scarti della mattina, bevi vino da due euro a bottiglia, ma porta il nome di aperitivo e fa trendy.
Ha
fatto in tempo a vedere anche questo, Giorgio Gaber. Lo ha anche
cantato, ormai controvoglia. Perché insofferente lo è sempre stato. Gli
intellettuali di sinistra,
rigidi e severi, lo chiamavano qualunquista. Quando non hanno argomenti
si rifugiano in questa parola. In realtà Gaber è stato anarchico o, al
massimo, perché lui la sdrammatizzava così, anarcoide. Erano gli anni
dell’impegno e, come racconta
Guccini, era fin troppo audace girare “con in tasca l’Unità”. Dovevi andare oltre, e non si sa dove.
Difficile
per uno che era circondato da fidanzate e belle auto essere amato da
quella gioventù. Così facevano come con Battisti: disprezzato in
pubblico, ascoltato in un angolo senza farsi sentire. Raccontare quanti
Gaber ci siano stati sarebbe compito arduo e senza senso: il primo, il
secondo, il terzo. C’è stato un Gaber che si divertiva a suonare con
Jannacci e accompagnare
Celentano, quello tutto Corsari e rock ‘n roll. C’è stato un Gaber che ha raccontato la Milano dei
Trani a go go. Del Giambellino, appunto, del Riccardo che da solo gioca a biliardo.
Di quegli anni esiste un duetto memorabile con
Mina, conservato in quel mostro di memoria che si chiama
Youtube.
Andate a rivederlo il signor G e quella che chiamavano la Tigre, ma che
era molto più semplicemente la voce più grande che l’Italia, il mondo
intero, forse, abbia mai avuto. Guardate come si divertono e
gorgheggiano, alzano le ottave.
C’è poi il teatro canzone, dove Gaber inebriava un pubblico mai addomesticato, come solo quell’altro geniaccio di
Carmelo Bene
che la cultura non ufficiale ci ha regalato, riusciva a fare. Gli
ultimi anni di Gaber sono la malattia, quella brutta e di cui fatichiamo
a pronunciarne il nome, e un disco,
Io non mi sento italiano, che è diventato il testamento del Signor G. La sinistra, ancora una volta, non gli aveva perdonato l’impegno con
Forza Italia
della moglie, Ombretta Colli. Quello che oggi chiamano Pd e si nasconde
dietro a una testa calva e da bassa pianura padana, riesce a essere
infimo nella ricerca di nemici. E quando si tratta di intellettuali,
quella sinistra, riesce a diventare ancora più riottosa. Intervenne il
centrodestra per cercare di metterci il cappello, senza capire che Gaber
non si sarebbe fatto lapidare facilmente.
Era il
signor G,
appunto. Non catalogabile né etichettabile. Era solo Giorgio Gaber,
fratello minore e maggiore di Enzo Jannacci, un padre di famiglia
riconosciuto in
Dario Fo. Tutto il resto non conta, è
immaginazione politica, piroette di un Paese che paga ancora il conto
dei tavoli a cui sedevano Turatello e Craxi.
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