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05/05/2013

Crisi? Bussa ai vicini

A Barcellona per i turisti non è cambiato niente. Se ti lasci trascinare a valle dal flusso incessante che scorre lungo la Rambla, se ti addentri tra la folla che si accalca nei negozietti di souvenir del quartiere Gòtic o che sgomita per un boccadillo tra i banchi del Mercado de La Boqueria, la capitale della Catalogna è la stessa di sempre. Le stesse ventenni americane che ciabattano in flip flop, le stesse comitive di italiani vocianti, gli stessi capannelli di giapponesi col naso perso nella cartina in cerca della Sagrada Familia. Ma basta svoltare l’angolo, e già l’aria è diversa. Varcato il ristretto confine della città per stranieri in gita, la Barcellona dei catalani, caparbiamente radicata nei vecchi barrios deve fare i conti, ancora mezzo stordita dallo stupore, con qualcosa che non aveva previsto. La ricca Catalogna, che da sola produce circa il 20% del Pil spagnolo, ha accumulato un debito pubblico di circa 42 miliardi di euro. E nei bar del Raval, nelle stradine del Poble Sec o all’ombra delle fabbriche dismesse del barrio Sants, non si parla che dei recortes, i tagli all’educazione, alla sanità, all’assistenza sociale, con cui il premier Mariano Rajoy spera di risanare i conti in rosso del paese. E della disoccupazione (salita al 27% nel primo trimestre 2013), in una crisi che anche qui sembra non dover passare mai.

«Parliamoci chiaro: in questo paese non troverò mai più un lavoro». Monse, 47 anni, appena licenziata da una ditta privata di trasporti sanitari, è una di quelle che non si fa illusioni. «Ma nemmeno mi arrendo», dice, mentre si asciuga le mani sul grembiule che indossa per cucinare nella mensa pubblica di Besòs. La mensa, o comedor solidario, come lo chiamano qui, è stata fondata dall’associazione che riunisce gli abitanti del barrio in una saletta messa a disposizione dal Comune: 50 metri quadri con due lunghi tavoli, una piccola cucina, una dispensa dove è stipato il cibo che arriva dalle donazioni. Un frigorifero da sostituire perché funziona a singhiozzo. «Besòs è uno dei quartieri più poveri di Barcellona. Qui la crisi ha colpito durissimo: ognuno di noi ne porta i segni». Per questo Monse e i suoi vicini di casa, per la maggior parte disoccupati, si sono organizzati per fornire pasti gratuiti a chi ne ha bisogno come, e più, di loro. «Quando abbiamo cominciato, sono arrivate 20 persone. Oggi serviamo fino a 500 pasti in un giorno».

Allo stesso tavolo, per mangiare pasta al sugo e crocchette di pollo, siede ora Mercedes, 35 anni, catalana senza lavoro, con tre figli e un marito (un piccolo imprenditore della zona) finito in galera per debiti non pagati dopo il fallimento della sua azienda. Accanto a lei, Massimiliano, 49, italiano, arrivato qui inseguendo una ragazza e il sogno della Spagna ottimista e libertaria dell’epoca di Zapatero per poi restare disoccupato per le strade di Besòs. E Amadou, 28, venuto dal Senegal con grandi speranze e finito a vivere con molti altri immigrati in una fabbrica abbandonata senza acqua né luce. Al comedor, almeno, un piatto caldo si trova sempre. «Il barrio», dice Monse, «deve restare unito. Solo aiutandoci gli uni con gli altri possiamo sentirci meno impotenti».

In questa città di oltre 1 milione e 600mila abitanti ogni barrio ha un’anima sua. «C’è da sempre un senso condiviso di appartenenza sociale, culturale, sportiva che lega gli abitanti dello stesso quartiere», spiega Lluís Rabell, 59 anni, presidente della Favb, la Federazione Associazioni di Vicini di Barcellona. «Negli anni '70, quando il Franchismo proibiva le formazioni politiche, le associazioni di vicini erano l’unico veicolo per le rivendicazione sociali», racconta Rabell. L’urbanizzazione ammassava a migliaia i nuovi cittadini in quartieri completamente impreparati a riceverli, in cui mancavano le strutture fondamentali, dai semafori alle scuole: «Insieme abbiamo fatto tanto, e la città di oggi deve molto alle nostre lotte di allora». Al Movimiento Vecinal (che ha ramificazioni in tutte le maggiori città spagnole) Barcellona deve anche una delle risposte più decise al clima di incertezza che domina il paese: «Le Associazioni di Vicini», 101 quelle riunite nella Favb, che conta in tutto 50mila iscritti dalle sensibilità politiche diversissime, «stanno svolgendo una capillare funzione di ammortizzatore degli effetti della crisi. Dai pasti scolastici per i figli dei meno abbienti all’assistenza agli anziani, dalle biblioteche popolari agli orti urbani: piccole cose, ma concrete».

Concreto è anche quello che fanno, ogni giorno, i genitori del quartiere Poble Sec: in venti tra mamme e papà si sono riuniti per fondare l’asilo autogestito Babalia, che i bimbi dagli 8 ai 19 mesi possono frequentare, con una quota mensile dai 35 ai 150 euro, fino a cinque giorni a settimana. Tra loro Marco, un anno, impegnato in una complessa costruzione di mattoncini, e Samuel, dieci mesi, che monopolizza col suo broncio l’attenzione dell’educatrice Martina. Ma Martina non è sola: ogni giorno c’è con lei una mamma ausiliaria, e oggi è il turno di Teia, 43 anni. Psicologa nel settore pubblico, ha visto nell’ultimo anno il suo stipendio bruscamente tagliato e i sussidi per la famiglia pesantemente ridotti: «Ho due figli, uno di 8 e una di un anno e mezzo. Come avrei potuto permettermi un asilo normale?».

Dall’altra parte della città, nel Born, Paco, 55 anni, è alle prese con problemi non molto diversi. Ex formatore occupazionale specializzato nel settore edile, con l’esplosione della burbuja immobiliaria, la bolla che ha visto le banche tornare in possesso di circa 150mila case di aziende fallite e di famiglie non più in grado di pagare i mutui, ha perso il lavoro. Il suo molto tempo libero Paco lo impiega coltivando pomodori, zucchine e patate nell’Orto Collettivo del Forat: un’isola verde all’ombra dei palazzoni di una piazza senza nome, strappata al cemento. «Negli ultimi dieci anni il centro della città è diventato un terreno da sfruttare per fini turistici e immobiliari», spiega Paco. Contro la speculazione che, con l’alibi della riqualificazione urbanistica, puntava a trasformare lo spazio dell’ex giardino pubblico del Born in un parcheggio, Paco e i suoi vicini sono riusciti a riconquistare l’accesso all’area e una nuova piazza al quartiere: rimuovendo detriti, piantando alberi, montando due reti da calcio. Su questo terreno, oggi, corrono dietro a un pallone i figli dei “nuovi vicini” dominicani, pakistani e magrebini, mentre i vecchi abitanti del barrio vanno in bicicletta o curano le piante dell’orto. «Ma non si tratta solo di coltivare pomodori», tiene a precisare Paco. «Si tratta di far crescere una comunità».

Nell’ex fabbrica
All’ingresso del Can Batllò c’è una targa: Carrer 11 de Juny 2011. A ribattezzare così la stradina che corre lungo le mura di questo immenso complesso industriale risalente al 1880, sono stati i vicini dei quartieri La Bordeta e Sants, cuore dell’ex distretto tessile di Barcellona. L’11 giugno del 2011 hanno varcato, dopo trent’anni di rivendicazioni e minacce di occupazione, la soglia del Bloc 11: una porzione degli oltre 9 ettari di un’area industriale inutilizzata, dove  costruire servizi essenziali per due quartieri sorti all’ombra delle fabbriche. Oggi, lungo Carrer 11 de Juny 2011, i ragazzi dei centri sociali montano le bancarelle del mercato, al bar cooperativo vecchi e giovani siedono a bere cerveza e nella nuova biblioteca pubblica le madri leggono a bassa voce favole ai bambini. E un collettivo di architetti è al lavoro per progettare nuovi usi per gli spazi.

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Fonte

Articolo interessante per ciò che presenta, ma deformante per il tono in cui lo fa.
Questi misti tra piccolo mondo antico e libro cuore, volti ad anestetizzare la rabbia, mi sono sempre stati sui coglioni.

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