A Barcellona per i turisti non è cambiato niente. Se ti lasci trascinare
a valle dal flusso incessante che scorre lungo la Rambla, se ti
addentri tra la folla che si accalca nei negozietti di souvenir del
quartiere Gòtic o che sgomita per un boccadillo tra i banchi del Mercado
de La Boqueria, la capitale della Catalogna è la stessa di sempre. Le
stesse ventenni americane che ciabattano in flip flop, le stesse
comitive di italiani vocianti, gli stessi capannelli di giapponesi col
naso perso nella cartina in cerca della Sagrada Familia. Ma basta
svoltare l’angolo, e già l’aria è diversa. Varcato il ristretto confine
della città per stranieri in gita, la Barcellona dei catalani,
caparbiamente radicata nei vecchi barrios deve fare i conti, ancora
mezzo stordita dallo stupore, con qualcosa che non aveva previsto. La
ricca Catalogna, che da sola produce circa il 20% del Pil spagnolo, ha
accumulato un debito pubblico di circa 42 miliardi di euro. E nei bar
del Raval, nelle stradine del Poble Sec o all’ombra delle fabbriche
dismesse del barrio Sants, non si parla che dei recortes, i tagli
all’educazione, alla sanità, all’assistenza sociale, con cui il premier
Mariano Rajoy spera di risanare i conti in rosso del paese. E della
disoccupazione (salita al 27% nel primo trimestre 2013), in una crisi
che anche qui sembra non dover passare mai.
«Parliamoci chiaro: in questo paese non troverò mai più un lavoro». Monse, 47 anni, appena licenziata da una ditta privata di trasporti sanitari, è una di quelle che non si fa illusioni.
«Ma nemmeno mi arrendo», dice, mentre si asciuga le mani sul grembiule
che indossa per cucinare nella mensa pubblica di Besòs. La mensa, o
comedor solidario, come lo chiamano qui, è stata fondata
dall’associazione che riunisce gli abitanti del barrio in una saletta
messa a disposizione dal Comune: 50 metri quadri con due lunghi tavoli,
una piccola cucina, una dispensa dove è stipato il cibo che arriva dalle
donazioni. Un frigorifero da sostituire perché funziona a singhiozzo.
«Besòs è uno dei quartieri più poveri di Barcellona. Qui la crisi ha
colpito durissimo: ognuno di noi ne porta i segni». Per questo Monse e i
suoi vicini di casa, per la maggior parte disoccupati, si sono
organizzati per fornire pasti gratuiti a chi ne ha bisogno come, e più,
di loro. «Quando abbiamo cominciato, sono arrivate 20 persone. Oggi
serviamo fino a 500 pasti in un giorno».
Allo stesso tavolo, per mangiare pasta al sugo e crocchette di pollo, siede ora Mercedes,
35 anni, catalana senza lavoro, con tre figli e un marito (un piccolo
imprenditore della zona) finito in galera per debiti non pagati
dopo il fallimento della sua azienda. Accanto a lei, Massimiliano, 49,
italiano, arrivato qui inseguendo una ragazza e il sogno della Spagna
ottimista e libertaria dell’epoca di Zapatero per poi restare
disoccupato per le strade di Besòs. E Amadou, 28, venuto dal Senegal con grandi speranze e
finito a vivere con molti altri immigrati in una fabbrica abbandonata
senza acqua né luce. Al comedor, almeno, un piatto caldo si trova
sempre. «Il barrio», dice Monse, «deve restare unito. Solo aiutandoci
gli uni con gli altri possiamo sentirci meno impotenti».
In
questa città di oltre 1 milione e 600mila abitanti ogni barrio ha
un’anima sua. «C’è da sempre un senso condiviso di appartenenza sociale,
culturale, sportiva che lega gli abitanti dello stesso quartiere»,
spiega Lluís Rabell, 59 anni, presidente della Favb, la Federazione Associazioni di Vicini di Barcellona.
«Negli anni '70, quando il Franchismo proibiva le formazioni politiche,
le associazioni di vicini erano l’unico veicolo per le rivendicazione
sociali», racconta Rabell. L’urbanizzazione ammassava a migliaia i nuovi
cittadini in quartieri completamente impreparati a riceverli, in cui
mancavano le strutture fondamentali, dai semafori alle scuole: «Insieme
abbiamo fatto tanto, e la città di oggi deve molto alle nostre lotte di
allora». Al Movimiento Vecinal (che ha ramificazioni in tutte le
maggiori città spagnole) Barcellona deve anche una delle risposte più
decise al clima di incertezza che domina il paese: «Le Associazioni di
Vicini», 101 quelle riunite nella Favb, che conta in tutto 50mila
iscritti dalle sensibilità politiche diversissime, «stanno svolgendo una
capillare funzione di ammortizzatore degli effetti della crisi. Dai
pasti scolastici per i figli dei meno abbienti all’assistenza agli
anziani, dalle biblioteche popolari agli orti urbani: piccole cose, ma
concrete».
Concreto è anche quello che fanno, ogni giorno, i genitori del quartiere Poble Sec: in venti tra mamme e papà si sono riuniti per fondare l’asilo autogestito Babalia,
che i bimbi dagli 8 ai 19 mesi possono frequentare, con una quota
mensile dai 35 ai 150 euro, fino a cinque giorni a settimana. Tra loro
Marco, un anno, impegnato in una complessa costruzione di mattoncini, e
Samuel, dieci mesi, che monopolizza col suo broncio l’attenzione
dell’educatrice Martina. Ma Martina non è sola: ogni giorno c’è con lei
una mamma ausiliaria, e oggi è il turno di Teia, 43 anni. Psicologa nel
settore pubblico, ha visto nell’ultimo anno il suo stipendio bruscamente
tagliato e i sussidi per la famiglia pesantemente ridotti: «Ho due
figli, uno di 8 e una di un anno e mezzo. Come avrei potuto permettermi
un asilo normale?».
Dall’altra parte della città, nel Born,
Paco, 55 anni, è alle prese con problemi non molto diversi. Ex formatore
occupazionale specializzato nel settore edile, con l’esplosione della
burbuja immobiliaria, la bolla che ha visto le banche tornare in
possesso di circa 150mila case di aziende fallite e di famiglie non più
in grado di pagare i mutui, ha perso il lavoro. Il suo molto tempo
libero Paco lo impiega coltivando pomodori, zucchine e patate nell’Orto Collettivo del Forat:
un’isola verde all’ombra dei palazzoni di una piazza senza nome,
strappata al cemento. «Negli ultimi dieci anni il centro della città è
diventato un terreno da sfruttare per fini turistici e immobiliari»,
spiega Paco. Contro la speculazione che, con l’alibi della
riqualificazione urbanistica, puntava a trasformare lo spazio dell’ex
giardino pubblico del Born in un parcheggio, Paco e i suoi vicini sono
riusciti a riconquistare l’accesso all’area e una nuova piazza al
quartiere: rimuovendo detriti, piantando alberi, montando due reti da
calcio. Su questo terreno, oggi, corrono dietro a un pallone i figli dei
“nuovi vicini” dominicani, pakistani e magrebini, mentre i vecchi
abitanti del barrio vanno in bicicletta o curano le piante dell’orto.
«Ma non si tratta solo di coltivare pomodori», tiene a precisare Paco.
«Si tratta di far crescere una comunità».
Nell’ex fabbrica
All’ingresso
del Can Batllò c’è una targa: Carrer 11 de Juny 2011. A ribattezzare
così la stradina che corre lungo le mura di questo immenso complesso
industriale risalente al 1880, sono stati i vicini dei quartieri La
Bordeta e Sants, cuore dell’ex distretto tessile di Barcellona. L’11
giugno del 2011 hanno varcato, dopo trent’anni di rivendicazioni e
minacce di occupazione, la soglia del Bloc 11: una porzione degli oltre 9
ettari di un’area industriale inutilizzata, dove costruire servizi
essenziali per due quartieri sorti all’ombra delle fabbriche. Oggi,
lungo Carrer 11 de Juny 2011, i ragazzi dei centri sociali montano le
bancarelle del mercato, al bar cooperativo vecchi e giovani siedono a
bere cerveza e nella nuova biblioteca pubblica le madri leggono a bassa
voce favole ai bambini. E un collettivo di architetti è al lavoro per
progettare nuovi usi per gli spazi.
GUARDA LE IMMAGINI
Fonte
Articolo interessante per ciò che presenta, ma deformante per il tono in cui lo fa.
Questi misti tra piccolo mondo antico e libro cuore, volti ad anestetizzare la rabbia, mi sono sempre stati sui coglioni.
Nessun commento:
Posta un commento