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05/11/2013

Kerry alla riconquista di Riyadh

di Mario Lombardo

Come ha ricordato in una recente intervista il presidente siriano, Bashar al-Assad, il principale ostacolo ad una risoluzione pacifica della crisi nel paese mediorientale rimane il continuo sostegno fornito da potenze regionali come l’Arabia Saudita alle formazioni ribelli anti-regime dominate da forze integraliste violente. Con l’accordo russo-americano sullo smantellamento dell’arsenale chimico di Damasco (processo ben avviato) gli sforzi della diplomazia internazionale si stanno concentrando da settimane su una possibile conferenza di pace da tenersi a Ginevra (“Ginevra II”) e che viene puntualmente rimandata dal mese di maggio scorso.

A boicottare di fatto un percorso di questo genere sono però soprattutto quei paesi mediorientali che, per ragioni legate ai propri interessi strategici, hanno manifestato reazioni al limite dell’isteria alla marcia indietro decisa a settembre dall’amministrazione Obama sull’aggressione militare contro la Siria.

Da allora, l’Arabia Saudita ha in particolare espresso il proprio malcontento in maniera insolita verso Washington, giungendo addirittura a rifiutare un seggio provvisorio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il quale si era battuta da oltre un anno.

Oltre alle apprensioni suscitate dall’ammorbidimento forzato della Casa Bianca sulla Siria, Riyadh teme ancora di più un eventuale accordo tra gli Stati Uniti e l’Iran sul nucleare di Teheran, dal momento che il riconoscimento delle legittime aspirazioni regionali della Repubblica Islamica rappresenterebbe un autentico incubo per la monarchia saudita.

Di fronte al nuovo scenario che si sta sia pure a fatica delineando in Medio Oriente dopo il sostanziale fallimento di quanti intendevano provocare il cambio di regime con la forza a Damasco, i regimi del Golfo Persico, con l’Arabia Saudita in prima linea, stanno perciò cercando di portare avanti il proprio disegno indipendentemente dagli USA o, quanto meno, stanno cercando in tutti i modi di mandare un chiaro messaggio della propria frustrazione a Washington.

Alcuni esponenti di questi governi nel fine settimana hanno così rivelato in forma anonima ai media americani l’intenzione di intensificare i propri sforzi per sostenere finanziariamente e militarmente i “ribelli” siriani, svincolandosi almeno in parte dalla collaborazione con l’amministrazione Obama.

Questa iniziativa era già stata prospettata un paio di settimane fa da una rivelazione del Wall Sreet Journal, basata sulla nuova strategia saudita modellata dal numero uno dell’intelligence di Riyadh, principe Bandar bin Sultan, all’indomani del rifiuto del seggio elettivo al Consiglio di Sicurezza ONU.

Come ha scritto domenica il Washington Post citando come di consueto fonti anonime all’interno dei regimi del Golfo Persico, i sauditi e i loro vicini sarebbero d’altra parte ormai convinti dell’intenzione americana di raggiungere un accomodamento con il nuovo governo iraniano nonostante le resistenze manifestate non solo da Riyadh ma anche da Israele.

Per questa ragione, le iniziative saudite sembrano già ben avviate, non solo relativamente alla Siria con la conseguenza più che probabile dell’intensificazione delle azioni terroristiche da parte delle formazioni estremiste che si battono contro Assad, ma anche riguardo, ad esempio, all’Egitto, il cui regime militare è stato l’obiettivo di critiche relativamente modeste da parte degli USA dopo la durissima repressione ai danni dei Fratelli Musulmani.

Al paese nordafricano, infatti, l’Arabia Saudita si è impegnata a versare svariati miliardi di dollari in aiuti assieme a Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, in seguito alla recente decisione di Washington di sospendere alcune forniture militari al Cairo.

Se l’Arabia Saudita risulta oggi decisamente meno influente sullo scacchiere internazionale rispetto a qualche decennio fa, le inquietudini manifestate nelle ultime settimane non hanno lasciato indifferente il governo americano, tanto che alcuni esponenti dell’amministrazione Obama hanno recentemente incontrato membri della famiglia reale per cercare di rassicurare l’alleato mediorientale.

In questo quadro rientra anche la visita in Arabia Saudita di domenica del Segretario di Stato, John Kerry, nell’ambito di una trasferta di nove giorni che lo porterà, oltre che a Riyadh, negli Emirati Arabi, in Giordania, Israele, Cisgiordania, Polonia, Algeria e Marocco.

Come ha affermato la portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki, l’importanza della visita è confermata dal fatto che l’ex senatore democratico incontrerà per la prima volta il sovrano saudita, Abdullah, con il quale “discuterà una vasta gamma di questioni bilaterali e di importanza regionale”.

Soprattutto, Kerry proverà a tranquillizzare un regime in piena crisi a causa sia della situazione internazionale che dei consueti problemi legati alla complicata successione interna, così da “riaffermare la natura strategica delle relazioni tra USA e Arabia Saudita, alla luce dell’importanza della collaborazione tra i nostri due paesi, delle sfide condivise e della leadership che Riyadh continua a garantire in Medio Oriente”.

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