di Mario Lombardo
Come ha
ricordato in una recente intervista il presidente siriano, Bashar
al-Assad, il principale ostacolo ad una risoluzione pacifica della crisi
nel paese mediorientale rimane il continuo sostegno fornito da potenze
regionali come l’Arabia Saudita alle formazioni ribelli anti-regime
dominate da forze integraliste violente. Con l’accordo russo-americano
sullo smantellamento dell’arsenale chimico di Damasco (processo ben
avviato) gli sforzi della diplomazia internazionale si stanno
concentrando da settimane su una possibile conferenza di pace da tenersi
a Ginevra (“Ginevra II”) e che viene puntualmente rimandata dal mese di
maggio scorso.
A boicottare di fatto un percorso di questo
genere sono però soprattutto quei paesi mediorientali che, per ragioni
legate ai propri interessi strategici, hanno manifestato reazioni al
limite dell’isteria alla marcia indietro decisa a settembre
dall’amministrazione Obama sull’aggressione militare contro la Siria.
Da
allora, l’Arabia Saudita ha in particolare espresso il proprio
malcontento in maniera insolita verso Washington, giungendo addirittura a
rifiutare un seggio provvisorio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite per il quale si era battuta da oltre un anno.
Oltre alle
apprensioni suscitate dall’ammorbidimento forzato della Casa Bianca
sulla Siria, Riyadh teme ancora di più un eventuale accordo tra gli
Stati Uniti e l’Iran sul nucleare di Teheran, dal momento che il
riconoscimento delle legittime aspirazioni regionali della Repubblica
Islamica rappresenterebbe un autentico incubo per la monarchia saudita.
Di
fronte al nuovo scenario che si sta sia pure a fatica delineando in
Medio Oriente dopo il sostanziale fallimento di quanti intendevano
provocare il cambio di regime con la forza a Damasco, i regimi del Golfo
Persico, con l’Arabia Saudita in prima linea, stanno perciò cercando di
portare avanti il proprio disegno indipendentemente dagli USA o, quanto
meno, stanno cercando in tutti i modi di mandare un chiaro messaggio
della propria frustrazione a Washington.
Alcuni esponenti di
questi governi nel fine settimana hanno così rivelato in forma anonima
ai media americani l’intenzione di intensificare i propri sforzi per
sostenere finanziariamente e militarmente i “ribelli” siriani,
svincolandosi almeno in parte dalla collaborazione con l’amministrazione
Obama.
Questa iniziativa era già stata prospettata un paio di settimane fa da una rivelazione del Wall Sreet Journal,
basata sulla nuova strategia saudita modellata dal numero uno
dell’intelligence di Riyadh, principe Bandar bin Sultan, all’indomani
del rifiuto del seggio elettivo al Consiglio di Sicurezza ONU.
Come ha scritto domenica il Washington Post
citando come di consueto fonti anonime all’interno dei regimi del Golfo
Persico, i sauditi e i loro vicini sarebbero d’altra parte ormai
convinti dell’intenzione americana di raggiungere un accomodamento con
il nuovo governo iraniano nonostante le resistenze manifestate non solo
da Riyadh ma anche da Israele.
Per questa ragione, le iniziative
saudite sembrano già ben avviate, non solo relativamente alla Siria con
la conseguenza più che probabile dell’intensificazione delle azioni
terroristiche da parte delle formazioni estremiste che si battono contro
Assad, ma anche riguardo, ad esempio, all’Egitto, il cui regime
militare è stato l’obiettivo di critiche relativamente modeste da parte
degli USA dopo la durissima repressione ai danni dei Fratelli Musulmani.
Al
paese nordafricano, infatti, l’Arabia Saudita si è impegnata a versare
svariati miliardi di dollari in aiuti assieme a Kuwait ed Emirati Arabi
Uniti, in seguito alla recente decisione di Washington di sospendere
alcune forniture militari al Cairo.
Se l’Arabia Saudita risulta
oggi decisamente meno influente sullo scacchiere internazionale rispetto
a qualche decennio fa, le inquietudini manifestate nelle ultime
settimane non hanno lasciato indifferente il governo americano, tanto
che alcuni esponenti dell’amministrazione Obama hanno recentemente
incontrato membri della famiglia reale per cercare di rassicurare
l’alleato mediorientale.
In
questo quadro rientra anche la visita in Arabia Saudita di domenica del
Segretario di Stato, John Kerry, nell’ambito di una trasferta di nove
giorni che lo porterà, oltre che a Riyadh, negli Emirati Arabi, in
Giordania, Israele, Cisgiordania, Polonia, Algeria e Marocco.
Come
ha affermato la portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki,
l’importanza della visita è confermata dal fatto che l’ex senatore
democratico incontrerà per la prima volta il sovrano saudita, Abdullah,
con il quale “discuterà una vasta gamma di questioni bilaterali e di
importanza regionale”.
Soprattutto, Kerry proverà a
tranquillizzare un regime in piena crisi a causa sia della situazione
internazionale che dei consueti problemi legati alla complicata
successione interna, così da “riaffermare la natura strategica delle
relazioni tra USA e Arabia Saudita, alla luce dell’importanza della
collaborazione tra i nostri due paesi, delle sfide condivise e della
leadership che Riyadh continua a garantire in Medio Oriente”.
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