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02/12/2014

Prima dell'articolo 18

Morte di Maria Margotti,
di Gabriele Mucchi.
“Se ci trovavano con un volantino della Cgil venivamo licenziati in tronco. Quando entravamo in fabbrica ci perquisivano le borse, per vedere se avessimo materiale politico. E se ci beccavano a parlare di questioni sindacali prima ci sospendevano, o ci demansionavano a tempo indeterminato. Poi poteva arrivare la perdita del lavoro” (Ernesto Cevenini, licenziato per rappresaglia alla Maccaferri di Bologna).

Dal 1947 al 1966 nelle fabbriche italiane si contarono più di 500.000 licenziamenti, di cui circa 35.000 per rappresaglia politica e sindacale contro ex partigiani, attivisti di reparto, membri delle commissioni interne. Era questo il modo in cui gli industriali dimostravano la propria riconoscenza verso coloro che, pochi anni prima, gli avevano salvato le fabbriche, impedendo il trasferimento dei macchinari in Germania, ricostruendo mattone su mattone i capannoni bombardati.

Nel corso degli anni ’50 e ’60 centinaia di migliaia di operai scesero in piazza a fianco dei licenziati, lasciando compagni morti sul terreno o chiusi nelle galere. Fu il prezzo da pagare per ottenere nel 1966 la prima legge contro i licenziamenti senza giusta causa.

Bologna con la sua provincia subì 8.550 licenziamenti per rappresaglia dal 1947 al 1966, di cui 3800 lavoratori metalmeccanici, 1000 tessili, 900 nell’abbigliamento, 1.500 nell’alimentare, 600 nel chimico, 500 nel comparto legno e 250 nel pubblico impiego. Si trattò di ritorsioni contro singoli militanti o gruppi politicizzati, ma in vari casi anche dell’espulsione dell’intero corpo operaio delle fabbriche ritenute troppo conflittuali: punizioni individuali o collettive per le lotte contro il cottimo, per il salario e il contratto, per la sicurezza, per gli asili nido, per la libertà di riunione e di parola.

Veniva punita la solidarietà di classe (che all’epoca si esprimeva in dimensioni vastissime) e soprattutto la politicità operaia, la capacità di andare oltre i confini della propria vertenza e di praticare obiettivi di ordine generale.

Dentro le fabbriche le condizioni di lavoro erano durissime. “Quando nevicava forte trovavamo sui banchi la neve, e il giorno dopo c’era meno tre, meno cinque, e si lavorava a quella temperatura… Solo negli ultimi anni misero dei bidoni da benzina, quelli da due quintali, con della segatura…. Quando avevo freddo mi avvicinavo più a questi “fogoni” per scaldarmi le mani, però poi c’era il capo officina che ti guardava e dovevi andar via subito…. Facemmo delle lotte per avere più legna, per avere i locali più riscaldati, non ci riuscimmo”…  “La polvere che c’era era una cosa incredibile. La sera andavi a casa che avevi la saliva rossa”… “Fui preso e messo al reparto confino, al reparto zincatura, che andando in quel reparto a 55 anni si moriva, perché c’erano gli acidi liberi per terra. I vestiti diventavano rossi e poi si stracciavano. I guanti, gli aspiratori, i ventilatori non esistevano” (Operai Ducati e Maccaferri).

1950, Bologna:
la Celere si appresta a sciogliere
una manifestazione sindacale.
Al ritorno a casa, poi, c’era la fame. “Avevamo delle paghe troppo basse. Le paghe erano una cosa … che si lavorava per niente. Chi aveva famiglia era un povero … ma povero povero” (Ovidia Galloni, impiegata alla Ducati).

Chi si opponeva a tutto questo prima o poi era fuori, ed oltre al licenziamento doveva subire l’accanirsi di prefetti, questure e tribunali.  “Io lavoravo alla Ducati, facemmo una grande manifestazione… Qualcuno gettò dei sassi contro questa vetrina perché era aperta. Io ero in tuta in mezzo a tutta la gente, e la polizia …sa quando vedevano quelli in tuta … mi arrestarono. Sono stato lì tre mesi”.

Potremmo dire che gli è andata bene, visto che oggi per una vetrina rotta c’è chi sta scontando 10 anni di galera. Ma sarebbe solo una battuta. Dal ‘48 al ’56 il bilancio della repressione contro il movimento operaio nel bolognese fu pesantissimo, con due morti, 795 feriti, 5.092 arrestati e fermati, 15.835 processati (di cui quasi la metà assolti, ma dopo anni di carcere) e 8.369 condannati a 5 ergastoli, 1.959 anni e 7 mesi di reclusione, 49.960.766 lire di multe.

Su questa Storia collettiva fatta di solidarietà e coraggio, di sbarre, fame e lutti, sputa oggi la fatua gioventù renziana e la sua meno fatua corte di ministri emanati da Confindustria, Legacoop e Fondo Monetario Internazionale. Una Storia collettiva che va di nuovo raccontata, per aver chiaro in quali tenebre vogliono sprofondarci, il valore di quello che ci stanno togliendo e quanto ci costerà riconquistarlo.

I licenziamenti per rappresaglia e la repressione antioperaia a Bologna e provincia nel dopoguerra
30 gennaio 1948.
Manifestazione di solidarietà
con i lavoratori della “Barbieri & Burzi”
A Bologna la Barbieri & Burzi fu la prima a inaugurare la stagione delle espulsioni politiche alla fine del 1947.

Da qualche mese il clima del paese era cambiato: la rottura dell’unità nazionale, l’espulsione delle sinistre dal governo e il varo del piano Marshall suggerivano agli industriali che era il momento di ricominciare ad alzare la testa, scrollarsi di dosso l’onta della collaborazione col fascismo e riprendere il potere in fabbrica.

Giorgio Barbieri, presidente dell’Associazione degli industriali bolognesi, si assunse l’onere della prima forzatura, licenziando assieme ad altri il direttore tecnico della sua azienda, Giorgio Barnabà. Alla Barbieri & Burzi il partigiano Barnabà era stato il punto di riferimento nella resistenza di fabbrica ai nazifascisti. Il suo licenziamento immotivato, assieme a quello di altri 40 operai, era una provocazione indigeribile. Fu subito sciopero ad oltranza, per 24 giorni, a cui seguì l’occupazione della fabbrica.

Gennaio 1948.
Operaie della “Barbieri & Burzi”
nella fabbrica occupata.
Per più di un mese i lavoratori diressero la produzione di ceramiche e laterizi tramite un consiglio di gestione eletto da loro.

Al loro fianco scese in strada la città, assieme agli operai ed ai lavoratori della terra di tutta la provincia. L’intero territorio si assunse la responsabilità della tenuta della lotta e della sopravvivenza materiale degli occupanti: le campagne inviavano aiuti alimentari, nelle fabbriche raccoglievano viveri e soldi, le Camere del lavoro coordinavano gli aiuti e le mobilitazioni.

Ma l’autogestione della fabbrica non riuscì a funzionare a lungo perchè le autorità decisero il blocco delle merci. La vertenza si concluse il 17 febbraio del ’48: Barbieri sui licenziamenti non cedette. Fu un pessimo segnale, e non solo per la Barbieri & Burzi, che si distinse per i licenziamenti politici anche negli anni a seguire.

Un anno dopo fu la volta della Ducati, e lo schiaffo contro gli operai bruciò ancora di più. Perché erano stati loro a ricostruirla pietra su pietra dopo che il bombardamento alleato del 12 ottobre ’44 l’aveva rasa al suolo. Erano stati loro a cercare i macchinari rubati o trasferiti, a riavviare la produzione. Loro, e non certo i fratelli Ducati, che dopo aver presieduto sotto l’occupazione tedesca la Confindustria locale e la casa del fascio, appena le cose si misero male se ne scapparono a Milano.

30 gennaio 1948. Manifestazione di solidarietà
con i lavoratori della “Barbieri & Burzi”.
Gli aiuti di San Giorgio di Piano.
Nel ’48 la fabbrica fu ceduta alle partecipazioni statali dai proprietari accusati di collaborazionismo, ma la gestione pubblica non si dimostrò migliore, decretando da subito la chiusura dello stabilimento di Bazzano. Il 13 novembre la mobilitazione popolare impedì il trasferimento dei materiali dall’officina bazzanese, ma non riuscì a fermarne la chiusura. Il 31 dicembre vennero licenziati 80 lavoratori.

Nel frattempo il contesto nazionale continuava a peggiorare, sgretolando le speranze (o le illusioni) di chi aveva creduto che la libertà e il diritto appena sanciti nella costituzione formale del paese avrebbero potuto diventare costituzione materiale nelle fabbriche. Da nord a sud braccianti ed operai continuavano a morire ammazzati nelle piazze: a Cerignola, a Pantelleria, ad Andria, a Trecenta, a Spino d’Adda, a San Martino in Rio…

Il 1948 fu l’anno della restaurazione sancita dalla vittoria elettorale della DC, a cui fece seguito l’attentato a Togliatti del 14 luglio. Nelle ore immediatamente successive all’attentato una rabbia spaventosa, contenuta a fatica dai vertici del Partito Comunista, si riversò per le strade di tutta Italia. L’esecutivo della CGIL proclamò lo sciopero generale quando ormai tutto il paese era già con le braccia incrociate.

30 gennaio 1948.
I braccianti alla manifestazione di solidarietà
con i lavoratori della “Barbieri & Burzi”.
Da Genova, all’Amiata, a Gravina di Puglia, con le fabbriche occupate, gli assalti alle sedi della DC e del MSI, migliaia di lavoratori impegnati negli scontri con la polizia, la situazione raggiunse livelli preinsurrezionali. A Bologna “sui tetti della Weber compaiono le mitragliatrici, alla Calzoni gli operai si asserragliano coi vecchi Sten pronti alla battaglia, mentre i loro colleghi si mettono a produrre i chiodi a tre punte per boicottare le colonne motorizzate della Celere. Alla Ducati, i lavoratori ex partigiani si appostano, anch’essi armati, a vigilanza delle cabine elettriche. Lo scenario è da guerra urbana con le camionette che circondano le fabbriche e i quartieri industriali, mentre un corteo imponente si dirige verso il centro“.

Dovettero intervenire con tutto il loro peso Longo, Secchia e l’organizzazione intera del PC e del sindacato per far star ferma la gente, dopo che un telegramma di Stalin aveva escluso che potessero darsi sviluppi rivoluzionari alla rivolta. Sul terreno degli scontri dal 14 al 19 luglio restarono comunque 19 morti (di cui uno a Bologna), oltre a 600 feriti e 7.000 fra denunciati e arrestati.

Le giornate del luglio ’48 dimostrarono l’entità della forza operaia, ma anche la volontà del Partito Comunista di non volerla usare fino in fondo. Da allora il fronte padronale riconquistò tutta la sua arroganza, forte anche della scissione sindacale della “Libera CGIL”, poi diventata CISL. “Fino al 1948 potevamo fare delle riunioni, potevamo discutere. Dopo il ’48 finì tutto, cambiò l’indirizzo del lavoro, della produzione, cambiò quasi tutto”. “Abbiamo cominciato a perdere per gradi tutte le libertà che avevamo. La libertà di parola, la libertà di riunione, ci voleva l’autorizzazione per qualsiasi cosa” (Operaio Weber).

30 gennaio 1948.
Manifestazione di solidarietà con
i lavoratori della “Barbieri & Burzi”.
In questo clima a Modena i proprietari della Fonderia Valdevit decisero di imporre la trasformazione del cottimo collettivo in cottimo individuale. Le maestranze reagirono con la strategia della non collaborazione e con scioperi intermittenti, ma al ritorno dalle festività natalizie del 1948 si trovarono davanti la serrata e il licenziamento collettivo di tutti i 228 dipendenti. La direzione assunse al loro posto 140 crumiri provenienti dal Veneto e dalla montagna, reclutati dai preti.

Nel febbraio successivo i dipendenti della imolese Cogne decisero di fare come la Galilei di Firenze: entrambe le fabbriche ricevevano pezzi dalla Valdevit, ma i loro operai si rifiutavano di lavorarli in appoggio ai licenziati modenesi. Per l’occasione l’amministratore delegato del Gruppo Cogne (il senatore DC Teresio Guglielmone) ritenne di inviare addirittura un colonnello per la gestione delle “relazioni sindacali” con i riottosi operai imolesi. Ma ci voleva ben altro per spaventarli !

I lavoratori della Cogne si erano già distinti nella resistenza al nazifascismo praticando il sabotaggio della produzione bellica, scendendo in sciopero, rischiando grosso sotto l’occupazione tedesca. La fabbrica, distrutta dalle bombe, se l’erano ricostruita con le loro mani. Gente tosta e determinata.

Per questo, nonostante le provocazioni del colonnello Borla, il Comitato di agitazione riuscì ugualmente ad imporre alla Cogne di ritirare dalla Valdevit i modelli per le fusioni dei suoi pezzi, e di ricollocarli in altre fonderie modenesi disposte ad assumere il personale licenziato. Fu una vittoria di tutto rispetto, tenendo conto che sia gli operai che la Direzione generale della Cogne avevano ben chiara la natura politica dello scontro in corso a Modena, come parte di un attacco generale agli spazi conquistati dai lavoratori durante la Liberazione. Proprio a Modena, da lì a poco lo scontro sarebbe stato portato alle estreme conseguenze, con i licenziamenti alle Fonderie Riunite e l’eccidio del 9 gennaio del 1950.

30 gennaio 1948.
Manifestazione di solidarietà con
i lavoratori della “Barbieri & Burzi”.
Per la loro solidarietà gli imolesi dovettero comunque pagare un prezzo: l’allontanamento dalla Cogne del direttore di stabilimento Carlo Nicoli, comandante partigiano e comunista, e del responsabile amministrativo Ester Benini, anche lui di sinistra. Anche in questo caso si trattò solo della premessa ad ulteriori licenziamenti per rappresaglia nella fabbrica ribelle.

Tornando a Bologna, il 26 febbraio del ’49 il dott. Mantelli, commissario giudiziale della Ducati, comunicava al prefetto la chiusura entro due giorni degli stabilimenti di Borgo Panigale, benchè fossero pieni di ordinazioni e di macchine pronte per la consegna. Con 2.000 operai sul lastrico la Camera del Lavoro indisse lo sciopero generale. La serrata durò fino al 15 marzo, poi il provvedimento di chiusura venne ritirato e i licenziamenti annullati, ma come vedremo, non per molto.

In primavera nelle campagne della provincia si avvicinava la data del grande sciopero bracciantile. Si lottava per il contratto nazionale ma anche per il controllo del collocamento, fondamentale per contrastare una delle forme più utilizzate per il licenziamento occulto degli indesiderati: la mancata riassunzione nella stagione successiva.

Il 16 maggio centinaia di braccianti, tante donne, presidiarono le campagne per impedire l’accesso ai crumiri. Intervennero la celere ed i carabinieri con bastonature, lacrimogeni, arresti, sventagliate di mitra, non solo in aria. La violenza si scagliava sulle persone ma anche sulle loro povere cose: gli autoblindo distruggevano le biciclette degli scioperanti, indispensabili ai lavoratori della terra per raggiungere i campi.

Il 17 cadde Maria Margotti, operaia della fornace cooperativa di Filo d’Argenta, che assieme alle compagne partecipava alla lotta delle mondine. Questa è una cronaca di quei giorni: “16 Maggio la polizia giunge a reprimere le manifestazioni in maniera particolarmente violenta: le donne vengono disperse a colpi di mitra, inseguite e malmenate. A Molinella 52 di esse sono ferite, 638 bastonate e 49 arrestate.

Loredano Bizzarri.
Il 17 viene organizzata una manifestazione di protesta. Maria è sul ciglio della strada, insieme ad altri e discute animatamente. All’improvviso arrivano camion e jeep carichi di armati. Un carabiniere in motocicletta passa veloce, intima a tutti di sciogliersi e, senza nemmeno aspettare di vedere se il suo ordine viene eseguito, spara con il mitra uccidendo sul colpo Maria Margotti”.

Lo sciopero proseguì più forte di prima. Il 12 giugno era ancora in corso, e Loredano Bizzarri, operaio di Calderara di Reno, stava dando man forte ad un picchetto contro i crumiri presso l’azienda agricola Lenzi di San Giovanni in Persiceto. Fu freddato a 22 anni da un colpo di pistola di una guardia campestre, tal Guido Cenacchi. Nessuno pagherà per la sua morte, mentre per quella di Maria Margotti il carabiniere Francesco Galeati si prenderà sei mesi. Poco più della pena per una vetrina rotta. (Continua)
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