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17/07/2015

Grexit: primo atto

di Raffaele Sciortino
 
Era facile prevedere che l’OXI glielo avrebbero fatto pagare carissimo, e così è stato. Alla luce dell’esito durissimo del “negoziato” tra governo greco ed Eurogruppo la discussione ruota ora intorno alle prese di posizione pro/contro Tsipras -ha tradito o non ha tradito il mandato popolare- e/o alla questione se il prezzo per salvare l’Europa non sia magari troppo alto. Una discussione, come minimo, in ritardo di fase. Questo “accordo” infatti non evita il Grexit ma ne è a ben vedere il primo atto, ed è da qui che bisognerebbe partire.

In effetti, a un minimo di considerazione realistica ciò che dovrebbe saltare agli occhi è che le condizioni del diktat europeo sono semplicemente inattuabili. Inattuabili per le prevedibili conseguenze sociali e politiche della “curatela” (così la Faz) imposta. Perché il “piano di investimenti” che Tsipras avrebbe strappato è una bufala - per poter investire un miliardo di euro, la Grecia dovrà prima cederne qualcosa come venticinque in asset pubblici pro banche e interessi, alla faccia della “crescita”. Perché il debito greco aumenterà ulteriormente ed è già oggi inesigibile. Ma soprattutto perché a metterci i soldi non sarà l’Europa ma dovrebbe essere Atene stessa, non solo con le privatizzazioni ma con il bail in delle banche greche, oramai sotto pieno controllo Bce, essendo solo questione di tempo e modi la loro ricapitalizzazione via requisizione dei conti correnti (secondo il precedente cipriota). È ovvio che da qui a qualche mese salterà tutto, in un modo o nell’altro. Possibile che almeno non si sospetti che siamo (per ora) di fronte a un Grexit al rallentatore?

Dal punto di vista di Berlino l’accordo è infatti congegnato in maniera tale da non poter che essere nei fatti disatteso (al di là dei diversi ostacoli procedurali che dovrebbero alla fine essere superati, dal varo di un prestito ponte alle misure della Bce sulla liquidità). E nel momento in cui ciò sarà servito dalla macchina da guerra della comunicazione all’”opinione pubblica” europea - neanche il terzo pacchetto di “aiuti” è servito con questa gente! - sarà di fatto Grexit a pieno titolo (le forme giuridiche poi si troveranno).

Tutto un teatrino allora il “drammatico” eurogruppo di domenica? Niente affatto: di fronte alla fortissima pressione statunitense - il vero convitato di pietra dell’eurogruppo coadiuvato dal Fondo Monetario - Berlino è stata costretta, temporaneamente, a rinviare un Grexit immediato nudo e crudo, ma è rimasta ferma abbastanza per porne le basi a breve-medio termine. Con tutti i governi europei che in un modo o nell’altro hanno accettato l’atteggiamento tedesco - altro che inesistenti meriti francesi, di Renzi poi non mette neanche conto parlarne - vuoi  per interessi diretti vuoi perché diligenti scolaretti vuoi perché terrorizzati dal messaggio lanciato da Berlino (dove nel frattempo l’asse del governo si è spostato da Merkel a favore del ministro delle finanze Schäuble).  

Forse non lo si vuol capire, ma siamo all’inizio del decoupling della Germania da questa Europa così come si è data finora. Abbiamo già discusso il perché di questa “ritirata strategica” (L'ordine non regna ad Atene). Per Berlino l’altra Europa possibile, e a questo punto necessaria, è quella di un nucleo di paesi “nordici” (la stessa Francia dovrà sudare per rientrarvi) in cui le maglie delle politiche fiscali, monetarie, sociali ecc. verranno strette come precondizione di una vera unione politica, mentre chi non può o vuole si dovrà accomodare in uno dei cerchi concentrici esterni, prima o più probabilmente dopo aver assaggiato la vera austerity in salsa Schäuble. Con ciò la classe dirigente tedesca crede (o si illude?) di poter affrontare da una posizione di maggior forza, senza “zavorre” economiche e politiche, le sfide poste dalla crisi e dal riaccendersi dei contrasti tra i grandi attori globali. Comunque andrà, suonano patetici e autoconsolatori i messaggi di scampato pericolo propinati dai nostrani “prodi” del giorno dopo…

Altrettanto autoconsolatori ma se possibile ancora più confusivi i tentativi di cercare una sponda nella “ragionevolezza” di Washington e del Fondo Monetario come compagni di trattativa utili a contenere e smussare la rigidità tedesca. Quanto al Fmi, si dimentica bellamente l’intervento di Lagarde l’americana a emendare con la matita rossa il testo che Merkel e Tsipras stavano concordando (il che ha portato all’indizione del referendum). Ora escono fuori con una tempistica quanto meno strana i memo sull’insostenibilità del debito greco, ma a che pro? Perché la Germania e gli altri paesi europei, questa la richiesta esplicita, si accollino un haircut significativo del debito greco, mentre il Fondo si sfila da qualunque ulteriore “aiuto” finanziario e il Dipartimento del tesoro Usa continua la sua pressione sulle capitali europee perché ci mettano i soldi tenendo dentro la Grecia a che non si sfili verso la Russia.

Non va dimenticato insomma che la vicenda greca è un episodio della crisi globale e degli scontri emersi negli ultimi anni anche tra i partner occidentali. Non a caso il primo episodio della crisi greca coincise con la speculazione della finanza transnazionale sui debiti statali europei e con l’innesco dell’eurocrisi, sullo sfondo dello scontro tra dollaro e euro. Oggi questo non si è dato, ma resta che le divergenze ricompaiono alla superficie rinviando al problema di fondo che sta dietro l’ennesima precipitazione della vicenda greca: chi deve bruciare i crediti inesigibili - e quelli greci sono solo un’infinitesima parte del capitale fittizio globale - sobbarcandosene il costo? Le nubi che si addensano sull’economia e sulla geopolitica mondiale - dal fronte orientale anti-russo al Medio Oriente e al Mediterraneo che bruciano, dallo sgonfiamento della borsa cinese al futuro aumento dei tassi statunitensi - annunciano probabilmente un nuovo passaggio di approfondimento della crisi globale. Il grande gioco sulla pelle dei greci ci dice che il clima complessivo sta cambiando.

Per finire, solo qualche battuta su Tsipras e sulla dèbacle di Syriza perché il tema meriterebbe ben altri approfondimenti e il “voltafaccia” per quasi tutti inaspettato non è mera vicenda personale riconducibile a un “tradimento” (?!) o anche solo limitata al contesto greco. C’è innanzitutto il dato oggettivo-soggettivo dell’isolamento completo a scala europea in cui si è trovata e si trova la popolazione greca nel suo tentativo di resistenza. E c’è, probabilmente ancora forte anche se da qui è impossibile giudicare, l’ambivalenza insita in questa resistenza tra rivendicazione di dignità e di forme di vita e però volontà di restare ancorati all’euro e tramite questo all’Europa contro una rottura che viene percepita come un salto nel buio. In fondo, l’euro diventato quasi un “feticcio” è solo l’altra faccia di ciò, di un’insufficienza di iniziativa e costruzione autonoma, di un’immaturità della dinamica sociale antagonista che non va vista però alla sola scala greca ma parla di noi tutti se è vero che le classi sfruttate europee al momento vivono nell'illusione che sia meglio evitare passaggi catastrofici della crisi nella speranza che il tutto prima o poi si riprenda.

Qui dentro va collocata la rapidissima parabola di Syriza, che quelle insufficienze però ha amplificato fino a un esito - pur dentro margini di manovra strettissimi che non concedono compromessi - catastrofico. Ha qui giocato, questo l’elemento di riflessione politica forte, il deficit costitutivo e insuperabile di tutta la sinistra europeista che antepone, a prescindere, il quadro europeo (potenzialmente unitario, ma appunto solo potenzialmente) alla necessità, in date condizioni, di rottura con il comando della finanza. Una rottura che da subìta può, se organizzata e di massa, essere agita per riconquistare livelli più alti di unificazione internazionale delle lotte. Ma per questo non si può continuare a pensare che ci si può e deve salvare in due, noi in basso e loro in alto, facendosi responsabilmente carico dei sacrifici (per poi essere gettati via una volta spremuti), o che un campo istituzionale dato sia di per sé garanzia di ricomposizione sociale e politica a livelli più alti. Paradossalmente, ma neanche tanto, Syriza è andata incontro al suo destino perché troppo profondamente di “sinistra” e troppo poco “populista” (chi vuole fraintendere fraintenda…). Per intanto, pur nella sconfitta, è stata posta per la prima volta concretamente la questione di una cancellazione almeno parziale del debito. Bisognerà tornarci su.

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