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14/01/2016

(Bio) Lavoro: su riproduzione e cura le donne non hanno libertà di scelta!

di Simona R.

Quando avevo più o meno 16 anni mi convinsi che non c’era persona più abietta di me. Fu la prima volta in cui qualcuno disse che pensavo solo a me stessa. Lasciai un ragazzo, un buon partito, che già si era ripromesso di sposarmi dopo il mio diploma. Mi sembrò parecchio insistente e io non avevo alcuna voglia di metter su famiglia a 18 anni. Poi dissi no quando mio padre mi ordinò di stare alcune ore al giorno con mia nonna, malata, perché “non può fare tutto tua madre“. Risposi che ero d’accordo, ma la responsabilità era la sua, di lui. Perché gli faceva così schifo aiutarla?

Poi venne il momento in cui mi dissero che dovevo stare attenta a mia sorella, più piccola, perché una sorta di regola non scritta diceva che le sorelle grandi badano a quelle piccole, mentre le madri badano a suocere e mariti. Non mi era molto chiaro questo procedimento, ma mi fu subito chiaro che non avevo alcuna difficoltà a dire di no. Le mie compagne di studio dicevano che evidentemente ero molto egoista. Le figlie femmine, si sa, aiutano da sempre in casa e se non lo fai viene anche il dubbio che tu non sia abbastanza donna.

Però io ero anche brava ad inventare scuse. Dato che in famiglia era impossibile parlare di autodeterminazione e sano egoismo allora fingere un malessere mi metteva un po’ al sicuro. Poi c’era lo studio, momento sacro per il quale i miei spendevano e facevano sacrifici, perché, sia chiaro, siamo di fronte a una amorevole famiglia che non mi ha mai, e dico mai, fatto mancare niente. Il fatto è che io non avevo alcuna voglia di ripagarli con il lavoro casalingo e di cura. Pensavo di scrivere qualcosa per loro, di presentargli un pezzo di mondo che mi piaceva tanto. Pensavo che l’orgoglio per una figlia che si sbatteva per diplomarsi, poi fare l’università, sarebbe bastato. Pensavo di poter lavorare e regalargli qualcosa, in futuro. Invece no.

I miei per ignoranza e tradizione, per incapacità di mettere in discussione modelli sui quali si regge il cazzo di welfare mondiale, tendevano a farmi sentire una merda. Io ero immune a ogni ricatto affettivo. Avevo segato il senso di colpa alla nascita, credo, e dunque tutta la “colpa” ricadde su mia sorella che era molto più incline a diventare succube di quelle regole. Più tardi lo studio di alcuni testi mi fornì la perfetta spiegazione a quel che avveniva in casa mia. Dinamiche che avevano un nome. Si chiamava biolavoro e implicava l’uso dei corpi. Stranamente gran parte della riflessione si basava sulle prestazioni che le donne, attraverso i propri corpi, fornivano all’esterno. Raramente mi ritrovai a vedere ragionare tante femministe per dire che quello casalingo, lavoro di cura, lavoro riproduttivo, era ed è puro sfruttamento.

Quel che a me era chiaro nell’adolescenza possibile che non sia chiaro a donne adulte? Eppure mi sembra ancora oggi che sia proprio così. Tutte pronte a farmi le pulci per dire che devo affrancarmi dalla schiavitù del biolavoro a livello globale, ma nessuna afferma con forza che le donne che si prendono cura di familiari, bimbi e vecchi, incluse le migranti/badanti che vengono accettate entro i confini d’Europa solo in virtù del fatto che assolveranno a ruoli di cura sostituendo le donne bianche, etero e occidentali, tutte le donne devono poter scegliere, decidere liberamente se fare quel che viene richiesto oppure no. Altrimenti addio alla nostra libertà di scelta.

A voi sembra che oggi noi abbiamo scelta? A me pare di no. C’è chi ne fa un discorso di “aridità” soggettiva, come qualcuno mi ricordò dicendomi che solo una donna arida può pensare che il lavoro di cura sia una forma di schiavitù. C’è chi sostiene che le donne, in quanto diverse, in quanto depositarie di “istinto alla cura”, e qui entriamo nel magico, fantascientifico, fottuto, mondo del femminismo della differenza, devono essere orgogliose di essere quello che sono. Donna, madre, moglie, dunque sei. Mi pare di sentire i maschilisti quando sciorinano idiozie su come dovrebbe essere la vera donna. La soluzione, per loro, per le femministe istituzionali, donne di partito e comunque borghesi che non hanno alcun problema economico, si chiama conciliazione.

Tutto quello che hanno saputo immaginare, ‘ste tipe rivoluzionarie (seeee!) è quello di farmi diventare una perfetta candidata del lavoro precario, perché mi lascerebbe più tempo, cosicché io possa conciliare con il lavoro che devo fare a casa. Avete mai sentito parlare di conciliazione per quel che riguarda gli uomini? Io no. Quando si prendono cura di famiglia e figli vengono quasi guardati come fossero dei potenziali serial killer. Un padre che si prende cura del figlio è assai sospetto, non vi pare? Se rispondi che della conciliazione non te ne fotte niente e che vuoi un lavoro a tempo pieno perché la dipendenza economica ti fa schifo, loro non hanno risposte. O meglio, tirano fuori tesi sulla bellezza della maternità. La Madonna è molto più rivoluzionaria di tutte loro.

Ed esaltando così tanto la maternità sono finite a raccontare che il massimo dello sfruttamento, per noi donne, è vendere ovociti o prestare l’utero per altri. Dunque il biolavoro riproduttivo in famiglia va bene, ma se invece lo faccio fuori non vi piace? E chi siete voi per scegliere quel che devo fare del mio corpo e come devo guadagnarmi dei soldi?

Vi riporto qui la mia opinione in sintesi (stamattina buttata lì come domanda sulla pagina di AiM):

mi sorprende sempre il perché si parli di sfruttamento e uso dei corpi delle donne, come se le donne fossero sempre oggetto non attivo, anche quando c’è di mezzo un lavoro. Si decide per loro quali siano i mestieri più consoni e moralmente accettabili. Ma se per gli operai la rivoluzione fu stabilita grazie alla nascita di sindacati, gli scioperi, le rivendicazioni sui salari e i diritti del lavoratore (perché non si chiedeva mica di cancellare il lavoro. Invece si chiedeva di valutare la forza lavoro per la reale capacità di produzione, riconoscendo la necessità di tempi per sè e quindi di un orario di lavoro più umano), perché per i lavori che riguardano i corpi delle donne non si parla di stipendi maggiori, di diritti, cose che arrivano se tu consapevolmente chiedi quanto ti spetta? Dicono che sia immorale vendere ovociti, rientrare nel ramo d’industria della fecondazione assistita e della surrogacy. Mantenendo il livello del dibattito alla fase di rifiuto della decisione delle donne di farsi pagare per alcune prestazioni non si pensa che, per esempio, se una donna dell’est chiedesse molto di più (si calcolano 100 dollari per ogni infornata di ovociti), se facesse lei le regole su come si dovrebbe svolgere questa “prestazione”, probabilmente le donne non potrebbero essere “sfruttate”. Dovremmo appoggiare le loro richieste di maggiori garanzie per il (bio)”lavoro” che hanno scelto di fare e non essere indignate per questo. Ricordiamo che la schiavitù fu abolita quando vennero riconosciuti i diritti della persona che lavora, venne valutata la sua forza lavoro, riconobbero un giusto stipendio, giusti contratti, e diritti civili da rispettare. Abolire la schiavitù non significa cancellare il lavoro. Non può, perciò, essere la stessa cosa per queste donne?

non esiste che una femminista che ha soldi dica a me come devo guadagnarmeli. Quello che fanno ‘ste femministe è come mettere la testa sotto la sabbia. Come se dicessi che vuoi cancellare la schiavitù mantenendo gli schiavi senza lavoro e alla fame. Come se Marx avesse detto che gli operai, invece che in organizzazioni paritarie, con il fine della redistribuzione del capitale, avrebbero dovuto parlare di distruzione delle fabbriche.

Questo stesso ragionamento si applica sul sex working, la vendita di servizi sessuali. Si applica su qualunque lavoro che implichi l’uso dei corpi delle donne. Supportare le rivendicazioni delle sex workers non significa stare dalla parte di chi sfrutta. Anzi. E’ proprio il contrario.

Cancellare il fatto che le donne (sorpresa!) hanno una volontà, e che possano volontariamente scegliere di essere retribuite in cambio di questo tipo di prestazioni, beh, secondo me è ignorante e sessista.” – scrive Lilith.

E’ una costante quella di parlare di donne come di persone passive che non sono in grado di decidere per sé e che senza la guida di un uomo forte o di donne borghesi non sanno dove andare. La stessa passività si usa per parlare di interventi da parte di patriarcati di ogni tipo quando si parla di violenza sulle donne. Anche per le molestie di Colonia è sfuggito a molti il fatto che le donne di cui si parla si sono difese, hanno la capacità di rispondere e reagire. Non erano tutte inermi e non sarebbe venuto fuori quel che è venuto fuori se non vi fosse stata una forte reazione da parte loro.

Insomma, dopo tutto questo parlare, che spero mi perdonerete, arrivo al punto: sono adulta, precaria, ho una sorella che dipende dalla mia famiglia e non va via di casa pur avendo oltre trent’anni. Io vivo da sola, pago l’affitto come posso, sempre sotto ricatto economico. Non voglio convivere con un uomo solo per rimediare un tetto e, soprattutto, non voglio un figlio. Non obbedisco a chi vorrebbe farmi diventare un mezzo per partorire più occidentali da esibire per recuperare il tasso di natalità che solo le donne straniere possono riportare ai livelli utili al capitalismo. Mi sentirei altrimenti strumento – sfruttato – di capitalismo razzista. Questo è quel che penso. Eppure non ho ancora gli strumenti né la solidarietà da parte di altr* per poter realizzare un modello di vita diverso. Io, come donna, non ho scelta.

Il mio lavoro o è in casa o non è. Il mio corpo o viene usato in casa o non posso metterlo al servizio dei miei progetti futuri. Del mio corpo io posso vendere tutto salvo cose sacre da fare solo in famiglia. Il sesso, i figli, la cura. Tutto mi dice “sposati, trova un uomo che ti si piglia e sposati“. E’ questo il tempo, devi fare presto, devi fare un figlio perché altrimenti oggi ti ritengono uno scarto. Basta vedere quanto ti fanno scontare un aborto. Quanti insulti e colpevolizzazione. Se ti rifiuti di fare figli tu sei considerata la sterile, quella che si rifiuta di far lavorare l’utero, gratis, per chi poi mi abbandonerà a me stessa. A voi che fate figli chiedo: pensate di poter rivendicare dei diritti? Non ne avete. La retorica che dice che fate figli per amore vi fotte fino alla fine e fotte anche quei poveri figli che si ritroveranno incastrati sempre nello stesso meccanismo. Figli, poi aiutanti in famiglia, poi genitori, poi crepi e i tuoi figli ricominciano il ciclo.

Quello che chiedo adesso è: vi sembra normale il fatto che io debba sottostare alle regole sociali ed economiche che mi impongono? Vi sembra normale che le femministe, proprio quelle che dovrebbero fare un grande casino per le strade per combattere contro questa grande e orribile schiavitù, se ne stiano a farci la morale su altre cose invece che lottare per la nostra indipendenza? Indipendenza dalla famiglia, dalla struttura sociale così com’è. Io non ci sto. Vorrei sapere: a voi sembra giusto?

Ps: sto seriamente pensando di fare la sex worker. Sfido chiunque a dirmi che devo fare qualcos’altro.

Simona

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