di Simona R.
Quando avevo più o meno 16 anni mi convinsi che non c’era persona più
abietta di me. Fu la prima volta in cui qualcuno disse che pensavo solo
a me stessa. Lasciai un ragazzo, un buon partito, che già si era
ripromesso di sposarmi dopo il mio diploma. Mi sembrò parecchio
insistente e io non avevo alcuna voglia di metter su famiglia a 18 anni.
Poi dissi no quando mio padre mi ordinò di stare alcune ore al giorno
con mia nonna, malata, perché “non può fare tutto tua madre“. Risposi che ero d’accordo, ma la responsabilità era la sua, di lui. Perché gli faceva così schifo aiutarla?
Poi venne il momento in cui mi dissero
che dovevo stare attenta a mia sorella, più piccola, perché una sorta di
regola non scritta diceva che le sorelle grandi badano a quelle
piccole, mentre le madri badano a suocere e mariti. Non mi era molto
chiaro questo procedimento, ma mi fu subito chiaro che non avevo alcuna
difficoltà a dire di no. Le mie compagne di studio dicevano che
evidentemente ero molto egoista. Le figlie femmine, si sa, aiutano da
sempre in casa e se non lo fai viene anche il dubbio che tu non sia
abbastanza donna.
Però io ero anche brava ad inventare scuse. Dato che in famiglia era
impossibile parlare di autodeterminazione e sano egoismo allora fingere
un malessere mi metteva un po’ al sicuro. Poi c’era lo studio, momento
sacro per il quale i miei spendevano e facevano sacrifici, perché, sia
chiaro, siamo di fronte a una amorevole famiglia che non mi ha mai, e
dico mai, fatto mancare niente. Il fatto è che io non avevo alcuna
voglia di ripagarli con il lavoro casalingo e di cura. Pensavo di
scrivere qualcosa per loro, di presentargli un pezzo di mondo che mi
piaceva tanto. Pensavo che l’orgoglio per una figlia che si sbatteva per
diplomarsi, poi fare l’università, sarebbe bastato. Pensavo di poter
lavorare e regalargli qualcosa, in futuro. Invece no.
I miei per ignoranza e tradizione, per incapacità di mettere in
discussione modelli sui quali si regge il cazzo di welfare mondiale,
tendevano a farmi sentire una merda. Io ero immune a ogni ricatto
affettivo. Avevo segato il senso di colpa alla nascita, credo, e dunque
tutta la “colpa” ricadde su mia sorella che era molto più incline a
diventare succube di quelle regole. Più tardi lo studio di alcuni testi
mi fornì la perfetta spiegazione a quel che avveniva in casa mia.
Dinamiche che avevano un nome. Si chiamava biolavoro e
implicava l’uso dei corpi. Stranamente gran parte della riflessione si
basava sulle prestazioni che le donne, attraverso i propri corpi,
fornivano all’esterno. Raramente mi ritrovai a vedere ragionare tante
femministe per dire che quello casalingo, lavoro di cura, lavoro
riproduttivo, era ed è puro sfruttamento.
Quel che a me era chiaro nell’adolescenza possibile che non sia
chiaro a donne adulte? Eppure mi sembra ancora oggi che sia proprio
così. Tutte pronte a farmi le pulci per dire che devo affrancarmi dalla
schiavitù del biolavoro a livello globale, ma nessuna afferma con forza
che le donne che si prendono cura di familiari, bimbi e vecchi, incluse
le migranti/badanti che vengono accettate entro i confini d’Europa solo
in virtù del fatto che assolveranno a ruoli di cura sostituendo le donne
bianche, etero e occidentali, tutte le donne devono poter scegliere,
decidere liberamente se fare quel che viene richiesto oppure no.
Altrimenti addio alla nostra libertà di scelta.
A voi sembra che oggi noi abbiamo scelta? A me pare di no. C’è chi ne
fa un discorso di “aridità” soggettiva, come qualcuno mi ricordò
dicendomi che solo una donna arida può pensare che il lavoro di cura sia
una forma di schiavitù. C’è chi sostiene che le donne, in quanto
diverse, in quanto depositarie di “istinto alla cura”, e qui entriamo
nel magico, fantascientifico, fottuto, mondo del femminismo della
differenza, devono essere orgogliose di essere quello che sono. Donna,
madre, moglie, dunque sei. Mi pare di sentire i maschilisti quando
sciorinano idiozie su come dovrebbe essere la vera donna. La soluzione,
per loro, per le femministe istituzionali, donne di partito e comunque
borghesi che non hanno alcun problema economico, si chiama
conciliazione.
Tutto quello che hanno saputo immaginare, ‘ste tipe rivoluzionarie
(seeee!) è quello di farmi diventare una perfetta candidata del lavoro
precario, perché mi lascerebbe più tempo, cosicché io possa conciliare
con il lavoro che devo fare a casa. Avete mai sentito parlare di
conciliazione per quel che riguarda gli uomini? Io no. Quando si
prendono cura di famiglia e figli vengono quasi guardati come fossero
dei potenziali serial killer. Un padre che si prende cura del figlio è
assai sospetto, non vi pare? Se rispondi che della conciliazione non te
ne fotte niente e che vuoi un lavoro a tempo pieno perché la dipendenza
economica ti fa schifo, loro non hanno risposte. O meglio, tirano fuori
tesi sulla bellezza della maternità. La Madonna è molto più
rivoluzionaria di tutte loro.
Ed esaltando così tanto la maternità sono finite a raccontare che il
massimo dello sfruttamento, per noi donne, è vendere ovociti o prestare
l’utero per altri. Dunque il biolavoro riproduttivo in famiglia va bene,
ma se invece lo faccio fuori non vi piace? E chi siete voi per
scegliere quel che devo fare del mio corpo e come devo guadagnarmi dei
soldi?
Vi riporto qui la mia opinione in sintesi (stamattina buttata lì come domanda sulla pagina di AiM):
mi sorprende sempre il perché si parli di sfruttamento e uso dei
corpi delle donne, come se le donne fossero sempre oggetto non attivo,
anche quando c’è di mezzo un lavoro. Si decide per loro quali siano i
mestieri più consoni e moralmente accettabili. Ma se per gli operai la
rivoluzione fu stabilita grazie alla nascita di sindacati, gli scioperi,
le rivendicazioni sui salari e i diritti del lavoratore (perché non
si chiedeva mica di cancellare il lavoro. Invece si chiedeva di
valutare la forza lavoro per la reale capacità di produzione,
riconoscendo la necessità di tempi per sè e quindi di un orario di
lavoro più umano), perché per i lavori che riguardano i corpi delle
donne non si parla di stipendi maggiori, di diritti, cose che arrivano
se tu consapevolmente chiedi quanto ti spetta? Dicono che sia immorale
vendere ovociti, rientrare nel ramo d’industria della fecondazione
assistita e della surrogacy. Mantenendo il livello del dibattito alla
fase di rifiuto della decisione delle donne di farsi pagare per alcune
prestazioni non si pensa che, per esempio, se una donna dell’est
chiedesse molto di più (si calcolano 100 dollari per ogni infornata di
ovociti), se facesse lei le regole su come si dovrebbe svolgere questa
“prestazione”, probabilmente le donne non potrebbero essere “sfruttate”.
Dovremmo appoggiare le loro richieste di maggiori garanzie per il
(bio)”lavoro” che hanno scelto di fare e non essere indignate per
questo. Ricordiamo che la schiavitù fu abolita quando vennero
riconosciuti i diritti della persona che lavora, venne valutata la sua
forza lavoro, riconobbero un giusto stipendio, giusti contratti, e
diritti civili da rispettare. Abolire la schiavitù non significa
cancellare il lavoro. Non può, perciò, essere la stessa cosa per queste
donne?
“non esiste che una femminista che ha soldi dica a me come devo
guadagnarmeli. Quello che fanno ‘ste femministe è come mettere la testa
sotto la sabbia. Come se dicessi che vuoi cancellare la schiavitù
mantenendo gli schiavi senza lavoro e alla fame. Come se Marx avesse
detto che gli operai, invece che in organizzazioni paritarie, con il
fine della redistribuzione del capitale, avrebbero dovuto parlare di
distruzione delle fabbriche.”
Questo stesso ragionamento si applica sul sex working, la vendita di
servizi sessuali. Si applica su qualunque lavoro che implichi l’uso dei
corpi delle donne. Supportare le rivendicazioni delle sex workers non
significa stare dalla parte di chi sfrutta. Anzi. E’ proprio il
contrario.
“Cancellare il fatto che le donne (sorpresa!) hanno una volontà, e
che possano volontariamente scegliere di essere retribuite in cambio di
questo tipo di prestazioni, beh, secondo me è ignorante e sessista.” – scrive Lilith.
E’ una costante quella di parlare di donne come di persone passive
che non sono in grado di decidere per sé e che senza la guida di un uomo
forte o di donne borghesi non sanno dove andare. La stessa passività si
usa per parlare di interventi da parte di patriarcati di ogni tipo
quando si parla di violenza sulle donne. Anche per le molestie di
Colonia è sfuggito a molti il fatto che le donne di cui si parla si sono
difese, hanno la capacità di rispondere e reagire. Non erano tutte
inermi e non sarebbe venuto fuori quel che è venuto fuori se non vi
fosse stata una forte reazione da parte loro.
Insomma, dopo tutto questo parlare, che spero mi perdonerete, arrivo
al punto: sono adulta, precaria, ho una sorella che dipende dalla mia
famiglia e non va via di casa pur avendo oltre trent’anni. Io vivo da
sola, pago l’affitto come posso, sempre sotto ricatto economico. Non
voglio convivere con un uomo solo per rimediare un tetto e, soprattutto,
non voglio un figlio. Non obbedisco a chi vorrebbe farmi diventare un
mezzo per partorire più occidentali da esibire per recuperare il tasso
di natalità che solo le donne straniere possono riportare ai livelli
utili al capitalismo. Mi sentirei altrimenti strumento – sfruttato – di
capitalismo razzista. Questo è quel che penso. Eppure non ho ancora gli
strumenti né la solidarietà da parte di altr* per poter realizzare un
modello di vita diverso. Io, come donna, non ho scelta.
Il mio lavoro o è in casa o non è. Il mio corpo o viene usato in casa
o non posso metterlo al servizio dei miei progetti futuri. Del mio
corpo io posso vendere tutto salvo cose sacre da fare solo in famiglia.
Il sesso, i figli, la cura. Tutto mi dice “sposati, trova un uomo che ti si piglia e sposati“.
E’ questo il tempo, devi fare presto, devi fare un figlio perché
altrimenti oggi ti ritengono uno scarto. Basta vedere quanto ti fanno
scontare un aborto. Quanti insulti e colpevolizzazione. Se ti rifiuti di
fare figli tu sei considerata la sterile, quella che si rifiuta di far
lavorare l’utero, gratis, per chi poi mi abbandonerà a me stessa. A voi
che fate figli chiedo: pensate di poter rivendicare dei diritti? Non ne
avete. La retorica che dice che fate figli per amore vi fotte fino alla
fine e fotte anche quei poveri figli che si ritroveranno incastrati
sempre nello stesso meccanismo. Figli, poi aiutanti in famiglia, poi
genitori, poi crepi e i tuoi figli ricominciano il ciclo.
Quello che chiedo adesso è: vi sembra normale il fatto che io debba
sottostare alle regole sociali ed economiche che mi impongono? Vi sembra
normale che le femministe, proprio quelle che dovrebbero fare un grande
casino per le strade per combattere contro questa grande e
orribile schiavitù, se ne stiano a farci la morale su altre cose invece
che lottare per la nostra indipendenza? Indipendenza dalla famiglia,
dalla struttura sociale così com’è. Io non ci sto. Vorrei sapere: a voi
sembra giusto?
Ps: sto seriamente pensando di fare la sex worker. Sfido chiunque a dirmi che devo fare qualcos’altro.
Simona
Fonte
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