Sul brutale omicidio di Giulio Regeni, il 21 febbraio scorso Renzi, intervenendo all’assemblea nazionale del PD, aveva affermato che “Non accetteremo una verità artificiale e raccogliticcia. Siamo l’Italia e non accetteremo mai una verità di comodo. Non c’è business o realpolitik che tenga, non è un optional la verità per Giulio”. Ma solo qualche giorno fa, le autorità egiziane hanno fornito qualcosa di molto peggio di una verità artificiale e raccogliticcia, hanno messo in atto un aperto depistaggio e offerto cinque cadaveri di piccoli malavitosi, un messaggio teso a far capire che di questo l’Italia deve accontentarsi. Il cerino ora è nella mani di un governo che rappresenta il secondo partner commerciale dell’Egitto e di un paese al quale appartiene l’Eni che proprio recentemente ha scoperto un enorme giacimento di gas al largo delle coste egiziane. E’ evidente dunque come sia le esigenze del business che quelle della realpolitik stiano pesando maledettamente sulle contromisure che l’Italia adotterà verso l’Egitto del generale Al Sisi, alleato di ferro nella crisi libica e rilevante partner commerciale. In parlamento qualcuno ha sollevato l’opzione delle sanzioni, ma in molti hanno fatto intendere che sarebbero un boomerang, esattamente come quelle adottate contro la Russia eppure tuttora vigenti. Tra le ipotesi sollevate in questi giorni anche quella di un ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo, ma l’idea non convince, anzi prendono forza coloro che parlano di un rafforzamento della presenza diplomatica italiana in Egitto.
L’India intanto ha risposto picche all’accomodamento suggerito dall’Italia all’apertura dell’udienza dell’arbitrato internazionale alla Corte dell’Aja sul caso dei due marò. “E’ l’Italia ad aver rallentato l’avvio di un processo nei loro confronti con le continue richieste e petizioni presentate alle corti indiane. Non per nostra negligenza”, ha affermato il rappresentante indiano, Neeru Chadha. Qui gli strumenti di pressione diretta dell’Italia appaiono decisamente spuntati. Ragione per cui Renzi sta chiedendo l’aiutino di Obama in occasione del suo viaggio negli Usa. Barack Obama ha promesso all’India l’ingresso nell’esclusivo club del Missile Technology Control Regime: un’organizzazione che controlla il commercio mondiale di missili. Un passaggio importante per un paese che vuole giocare un ruolo di potenza e l’India, è bene ricordarlo, è già una potenza nucleare. L’ingresso, però, è regolato con il criterio della cooptazione e con l’unanimità dei membri. L’Italia, membro dell’Mtcr, già sei mesi fa si era opposta alla partecipazione dell’India, portando come motivazione proprio il caso di Girone e Latorre. Il prossimo 21 aprile è prevista una nuova sessione plenaria che ha di nuovo all’ordine del giorno l’entrata o meno dell’India. “L’aiutino” di Obama – che sta spingendo verso il commercio di armamenti e tecnologie e l’integrazione dell’India nel club occidentale – potrebbe rivelarsi l’unica carta a disposizione del governo italiano.
In Libia infine, l’arzigogolato disegno di un governo di unità nazionale come conditio sine qua non per un intervento militare esterno di “stabilizzazione” del paese, per ora vede il premier libico incaricato e riconosciuto dalla coalizione Usa/Ue/Arabia Saudita, rinchiuso in una base navale militare sulla costa e impossibilitato a mettere piede nella capitale Tripoli. Il governo italiano ha frenato – prudentemente – sull’accelerazione dell’intervento militare in Libia ma adesso si trova in una situazione di impasse. La quadratura del cerchio non c’è stata o comunque ancora non si vede. Diventa difficile nascondersi dietro schermaglie diplomatiche e battute di circostanza la cui inefficacia è sotto gli occhi di tutti.
Ci sono dunque tre dossier pesanti sul tavolo della politica e del ruolo internazionale dell’Italia. Si apre così una fase nella quale le diverse posizioni – quelle interventiste e quelle trattativiste – saranno costrette a giocare tutte le loro carte: da quella del rapporto tra costi e benefici (nel caso dell’Egitto e della Libia) a quelle “da petto in fuori” sul piano dell’immagine internazionale (il caso dell’India). L’unico dato certo che balza agli occhi è che Renzi è andato a fare petizione alla corte di Washington, un po’ come da piccoli quando si minacciava di andare a chiamare il fratello più grande nelle baruffe con i coetanei. Sarà perché in Europa sono in molti a guardarlo come un altro Berlusconi ma con trent’anni di meno. I rischi che si palesano sono sia quello di non vedere in campo una politica estera omogenea nei comportamenti verso l’Egitto, l’India e la Libia, alternando realpolitik e esigenze del business, sia quello di scegliere un solo caso – magari con il paese più debole – per esorcizzare l’immagine di una Italia che “non si fa rispettare” sul piano internazionale. Conoscendo Renzi, la sua corte, le sue relazioni, è il caso libico – l’unico in qualche modo a non aver fatto torto all’Italia – quello su cui poter costruire la retorica nazionale e nazionalista affidando ai droni, ai bombardieri e magari proprio ai Marò il compito di saturare l’ansia di prestazione sul piano internazionale. Alla fine si riduce sempre tutto a questo: se non bombardi qualcuno non sei nessuno. Ma è una mentalità che ha già dimostrato di essere suicida oltre che omicida.
Fonte
In decenni di nanismo politico da parte di tutta la classe dirigente occidentale, quella italiana riesce a manifestarsi ancora una volta come la più nana, meschina e becera.
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