Senza dubbio molti fra i lettori, subito dopo la chiusura dei seggi, ascoltando lo sconcertante teatrino messo in scena da Matteo Renzi, si saranno posti la seguente domanda: “e ora, cosa resta di questo referendum?”. Per rispondere a questo quesito dobbiamo partire da un presupposto: abbiamo perso una battaglia.
In particolare abbiamo perso come movimento, come opposizione materiale a un sistema basato sulla messa a valore indefinita delle risorse scarse di cui disponiamo.
Secondariamente, la sconfitta si sostanzia in una mancata capacità di fare presa sulla maggior parte della popolazione intorno a un tema fondamentale per gli interessi materiali di tutti; abbiamo perso la battaglia contro questo sistema politico, ora bisogna ripensare a come riorganizzare un movimento NoTriv che, nel bene o nel male, ha acquisito maggior attenzione nel dibattito nazionale. Per farlo, dobbiamo essere però capaci di leggere quanto accaduto finora. Non è nostro interesse soffermarci in questa sede sulla debolezza di un referendum eterodiretto dalle Regioni firmatarie, totalmente inquadrato in contraddittorie compatibilità con questo sistema politico.
Al di là di tutte le considerazioni, era giusto votare sì; malgrado fosse sotto gli occhi di tutti l’evidenza per cui sarebbe stato molto difficile raggiungere il quorum, ciò non significa che è stato un errore averci creduto. Ciò che abbiamo sbagliato è stato l’approccio politico, debole se non talvolta assente. Diciamolo fuori dai denti, si sono viste cose terribili durante questa campagna referendaria. Ho visto amici, compagni invadere i social network con una frase vera o presunta di Paolo Borsellino, secondo cui “il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano”.
Se vogliamo renderci egemoni in futuro, dobbiamo evitare e combattere questa concezione: il cambiamento lo crea l’evolversi delle condizioni materiali e storiche. Il nostro ruolo, al momento, è quello di dare una spinta a una Storia impantanatasi in questa crisi sistemica, non quello di mettere una X su una scheda gentilmente concessa dal Ministero dell’Interno. Il referendum è risultato perdente nel momento in cui abbiamo concesso ai fautori dell’astensione di costruire la retorica per cui “se il referendum passa si perderanno posti di lavoro”. Risposte del tipo “ma le rinnovabili creano molto più lavoro di quanto faccia il petrolio” sono assolutamente perdenti, come infatti si sono dimostrate.
Sullo specifico della battaglia NoTriv, non potremo mai vincere nulla finché non riusciremo a inquadrare la resistenza ambientale in un quadro di resistenza sindacale: in altre parole, il diritto di tutti a un ambiente più pulito non è che lo stesso diritto dei lavoratori (anche al di fuori del settore petrolifero) a non essere sfruttati da multinazionali senza scrupoli. Non possiamo pretendere di difendere la Natura se rinunciamo a mettere in discussione i meccanismi che soggiacciono la gestione delle risorse, fossili e non. Da oggi fino ai giorni a seguire, faremmo bene a evitare inutili piagnistei e scoraggiamenti vari: è proprio questo l’obiettivo di Renzi & co., evidentemente sicuri che il referendum non sarebbe passato, che ora sperano di fare terra bruciata sulla disillusione generale.
Diciamolo una volta per tutte: non abbiamo perso perché gli italiani sono un branco di capre incapaci di fare scelte oculate circa il loro futuro. Abbiamo perso perché tutti noi, che avremmo dovuto costruire una lotta più estesa, siamo stati incapaci di creare consenso. Rimbocchiamoci dunque le maniche e ricominciamo a fare politica, diversamente da come (non) abbiamo fatto finora. Ripartiamo da ciò che ci restituisce questo referendum: un’affluenza alta in tutti i luoghi colpiti da permessi di ricerca e trivellazioni petrolifere, segno che dove gli interessi materiali di molti cozzano contro i profitti di pochi, il problema è percepito e si sta chiedendo un cambiamento reale.
Pensiamo alla Basilicata, martoriata da 25 anni di sfruttamento neocoloniale, unica Regione in cui è stato superato il quorum. È da lì che bisogna ripartire per costruire un movimento conflittuale e nazionale, che partendo dai problemi peculiari delle popolazioni colpite da anni di inquinamento, povertà ed emigrazione, riesca a sfidare l’attuale modo di gestione nazionale e internazionale della risorsa petrolio e di tutte le risorse energetiche e non.
Questo referendum mette sotto gli occhi di tutti la più grande lezione che dobbiamo imparare: non basta mettere in discussione il modello di sviluppo, rimanendo nelle compatibilità del modo di produzione. Non è più sufficiente parlare di ambiente, se non si affronta la questione lavorativa, se non si parla di riappropriazione delle nostre risorse e delle nostre vite. Smettiamo di piangere su un mondo che non si conforma alle nostri lenti. Cambiamo occhiali, ritroviamoci nelle strade, costruiamo nuove sfide. Nuove e più importanti battaglie ci attendono. Abbiamo un mondo da guadagnare.
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