di Chiara Cruciati
I sadristi se ne sono
andati: hanno lasciato il parlamento e la Zona Verde, il giorno dopo
aver fatto irruzione nel luogo simbolo delle istituzioni irachene. La
rabbia era esplosa sabato: pochi minuti dopo il discorso del leader
religioso sciita Moqtada al-Sadr a Najaf, che chiedeva una protesta
pacifica contro lo stallo parlamentare nella nomina del nuovo governo
tecnico, migliaia di suoi sostenitori nella capitale hanno abbattuto una
parte del muro di cemento che divide la capitale dalla “zona rossa” e
sono entrati.
Un atto senza precedenti che ha preso di mira quei quattro km
quadrati simbolo dell’occupazione Usa e della fine del regime di Saddam
Hussein, dal 2003 area fortificata e inaccessibile sede di ambasciate straniere, del parlamento e degli uffici governativi. Il
muro di cemento che da un decennio la delimita oggi come ma prima
rappresenta la lontananza delle istituzioni dalla gente, il tentativo
debole di chi detiene il potere a mantenere la distanza dalla base.
Una distanza visibile: molti manifestanti si sono trovati di fronte ad
un quartiere ricco, ben tenuto, con acqua corrente e elettricità
continua, quando il paese soffre per continui blackout e servizi quasi
inesistenti.
Così la base, dopo mesi di proteste, è esplosa. Non è un atto
estemporaneo: dallo scorso anno, con l’Isis che occupava già un terzo
del territorio iracheno, gli sciiti di numerose comunità erano
scese in piazza per settimane, nel torrido caldo estivo, per chiedere al
premier al-Abadi di mettere in atto le riforme anti-corruzione promesse
da tempo. A manovrare lo scontento, in modo sapiente, è stato
al-Sadr, passato da leader della resistenza sciita in chiave
anti-statunitense a moralizzatore e riformatore. Sotto di lui non sta
più il temibile Esercito del Mahdi, ma le cosiddette Brigate della Pace,
in prima linea contro l’Isis e ora spauracchio del potere costituito di
Baghdad.
I suoi sostenitori sono tanti, sono decine di migliaia e
continuano ad aumentare, anche all’interno di fazioni politiche
avversarie. Perché il popolo iracheno è stanco e frustrato: decenni di
guerra permanente e miliardi di dollari destinati alla ricostruzione
scomparsi tra le pieghe del clientelismo strutturale delle istituzioni
nazionali. Sabato la frustrazione ha preso la forma di un vero e
proprio assalto al parlamento: i manifestanti sono entrati nelle aule,
sono saliti sulle poltrone e hanno sventolato le bandiere dell’Iraq
gridando slogan contro la corruzione dei propri deputati. Molti di loro
si sono dati alla fuga in auto, alcuni sono finiti sotto il lancio di
sassi della folla.
Il premier al-Abadi, dato inizialmente in fuga dalla capitale, ha
emesso un comunicato nel quale chiedeva di manifestare in modo pacifico e
assicurava: “La situazione è sotto controllo”. Eppure poco prima il
governatorato di Baghdad dichiarava lo stato di emergenza e l’esercito
chiudeva tutti gli ingressi alla città: si poteva uscire ma non entrare.
Ieri i manifestanti hanno lasciato la Zona Verde, a seguito di un
comunicato di Moqtada al-Sadr per poter garantire la sicurezza durante
il pellegrinaggio sciita che si tiene in questi giorni in ricordo
dell’imam al-Kadhim, figura sacra sciita. Nelle stesse ore il primo
ministro ordinava l’arresto di coloro che hanno aggredito le forze di
sicurezza e i deputati e che hanno danneggiato proprietà dello Stato.
Ma la potenza della protesta resta in tutta la sua forza.
Chiedono un nuovo governo tecnico, quello che al-Abadi ha già
individuato ma che il parlamento continua a non votare facendo
ostruzionismo: a fare da tappo è il timore dei partiti politici
di perdere il controllo dei ministeri e quindi di veder indebolita la
rete di consenso basata su favori e clientelismo.
Sullo sfondo dell’instabilità delle istituzioni sta la concreta
minaccia islamista: l’Isis, nonostante la perdita di Tikrit, Sinjar e
Ramadi, continua a controllare quasi un terzo del territorio del paese e
compie attacchi nelle zone non occupate. Gli ultimi proprio mentre a
Baghdad la Zona Verde veniva invasa: ieri due autobomba sono
esplose nella città meridionale di Samawa, uccidendo almeno 30 persone e
ferendone 55; sabato 23 civili hanno perso la vita per un’esplosione
rivendicata dall’Isis nel sito sacro di Kadhimiyah.
E se la debolezza dello Stato è il primo ostacolo alla lotta
contro lo Stato Islamico, all’assenza di unità interna si aggiungono le
interferenze esterne. A partire dalle superpotenze, Usa e
Russia, che puntano a controllare Baghdad con il sostegno militare e
dall’Occidente che continua a concedere prestiti miliardari tramite
Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. L’obiettivo è un paese
malleabile alle proprie esigenze strategiche. Dall’altra parte sta però
l’Iran che dalla caduta di Saddam ha allungato le mani sulle istituzioni
irachene e oggi controlla la lotta all’Isis con le proprie guardie
rivoluzionarie e con milizie irachene sciite fedeli.
In mezzo si pone al-Sadr, sciita non certo filo-iraniano che non
intende piegarsi a Teheran mettendo ulteriormente in difficoltà il
premier (estremamente debole) al-Abadi che della Repubblica Islamica ha
bisogno. Il consenso di cui gode il religioso sciita cambia gli
equilibri, spinge il primo ministro verso i propri interessi strategici e
spacca il fronte sciita, ulteriore divisione in un Iraq frammentato.
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