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02/05/2016

Iaq - La rivolta contro Baghdad e la longa manus di al-Sadr

di Chiara Cruciati

I sadristi se ne sono andati: hanno lasciato il parlamento e la Zona Verde, il giorno dopo aver fatto irruzione nel luogo simbolo delle istituzioni irachene. La rabbia era esplosa sabato: pochi minuti dopo il discorso del leader religioso sciita Moqtada al-Sadr a Najaf, che chiedeva una protesta pacifica contro lo stallo parlamentare nella nomina del nuovo governo tecnico, migliaia di suoi sostenitori nella capitale hanno abbattuto una parte del muro di cemento che divide la capitale dalla “zona rossa” e sono entrati.

Un atto senza precedenti che ha preso di mira quei quattro km quadrati simbolo dell’occupazione Usa e della fine del regime di Saddam Hussein, dal 2003 area fortificata e inaccessibile sede di ambasciate straniere, del parlamento e degli uffici governativi. Il muro di cemento che da un decennio la delimita oggi come ma prima rappresenta la lontananza delle istituzioni dalla gente, il tentativo debole di chi detiene il potere a mantenere la distanza dalla base. Una distanza visibile: molti manifestanti si sono trovati di fronte ad un quartiere ricco, ben tenuto, con acqua corrente e elettricità continua, quando il paese soffre per continui blackout e servizi quasi inesistenti.

Così la base, dopo mesi di proteste, è esplosa. Non è un atto estemporaneo: dallo scorso anno, con l’Isis che occupava già un terzo del territorio iracheno, gli sciiti di numerose comunità erano scese in piazza per settimane, nel torrido caldo estivo, per chiedere al premier al-Abadi di mettere in atto le riforme anti-corruzione promesse da tempo. A manovrare lo scontento, in modo sapiente, è stato al-Sadr, passato da leader della resistenza sciita in chiave anti-statunitense a moralizzatore e riformatore. Sotto di lui non sta più il temibile Esercito del Mahdi, ma le cosiddette Brigate della Pace, in prima linea contro l’Isis e ora spauracchio del potere costituito di Baghdad.

I suoi sostenitori sono tanti, sono decine di migliaia e continuano ad aumentare, anche all’interno di fazioni politiche avversarie. Perché il popolo iracheno è stanco e frustrato: decenni di guerra permanente e miliardi di dollari destinati alla ricostruzione scomparsi tra le pieghe del clientelismo strutturale delle istituzioni nazionali. Sabato la frustrazione ha preso la forma di un vero e proprio assalto al parlamento: i manifestanti sono entrati nelle aule, sono saliti sulle poltrone e hanno sventolato le bandiere dell’Iraq gridando slogan contro la corruzione dei propri deputati. Molti di loro si sono dati alla fuga in auto, alcuni sono finiti sotto il lancio di sassi della folla.

Il premier al-Abadi, dato inizialmente in fuga dalla capitale, ha emesso un comunicato nel quale chiedeva di manifestare in modo pacifico e assicurava: “La situazione è sotto controllo”. Eppure poco prima il governatorato di Baghdad dichiarava lo stato di emergenza e l’esercito chiudeva tutti gli ingressi alla città: si poteva uscire ma non entrare.

Ieri i manifestanti hanno lasciato la Zona Verde, a seguito di un comunicato di Moqtada al-Sadr per poter garantire la sicurezza durante il pellegrinaggio sciita che si tiene in questi giorni in ricordo dell’imam al-Kadhim, figura sacra sciita. Nelle stesse ore il primo ministro ordinava l’arresto di coloro che hanno aggredito le forze di sicurezza e i deputati e che hanno danneggiato proprietà dello Stato.

Ma la potenza della protesta resta in tutta la sua forza. Chiedono un nuovo governo tecnico, quello che al-Abadi ha già individuato ma che il parlamento continua a non votare facendo ostruzionismo: a fare da tappo è il timore dei partiti politici di perdere il controllo dei ministeri e quindi di veder indebolita la rete di consenso basata su favori e clientelismo.

Sullo sfondo dell’instabilità delle istituzioni sta la concreta minaccia islamista: l’Isis, nonostante la perdita di Tikrit, Sinjar e Ramadi, continua a controllare quasi un terzo del territorio del paese e compie attacchi nelle zone non occupate. Gli ultimi proprio mentre a Baghdad la Zona Verde veniva invasa: ieri due autobomba sono esplose nella città meridionale di Samawa, uccidendo almeno 30 persone e ferendone 55; sabato 23 civili hanno perso la vita per un’esplosione rivendicata dall’Isis nel sito sacro di Kadhimiyah.

E se la debolezza dello Stato è il primo ostacolo alla lotta contro lo Stato Islamico, all’assenza di unità interna si aggiungono le interferenze esterne. A partire dalle superpotenze, Usa e Russia, che puntano a controllare Baghdad con il sostegno militare e dall’Occidente che continua a concedere prestiti miliardari tramite Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. L’obiettivo è un paese malleabile alle proprie esigenze strategiche. Dall’altra parte sta però l’Iran che dalla caduta di Saddam ha allungato le mani sulle istituzioni irachene e oggi controlla la lotta all’Isis con le proprie guardie rivoluzionarie e con milizie irachene sciite fedeli.

In mezzo si pone al-Sadr, sciita non certo filo-iraniano che non intende piegarsi a Teheran mettendo ulteriormente in difficoltà il premier (estremamente debole) al-Abadi che della Repubblica Islamica ha bisogno. Il consenso di cui gode il religioso sciita cambia gli equilibri, spinge il primo ministro verso i propri interessi strategici e spacca il fronte sciita, ulteriore divisione in un Iraq frammentato.

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