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02/05/2016

La crisi del regime egiziano e il “realismo stupido” di Hollande

Diversi giorni fa, i deputati verdiniani Amoruso e Barani (mai precedentemente auditi) hanno sostenuto che Regeni è stato ucciso da imprecisati settori di servizi deviati, al soldo di una potenza straniera, per sabotare l’intesa Eni-Egitto sullo sfruttamento del gas e la prova è il ritrovamento del corpo del ragazzo proprio il giorno in cui la delegazione italiana giungeva per sottoscrivere l’accordo. Ovviamente, tanto sarebbe stato fatto per rimpiazzare l’Italia con la propria compagnia petrolifera. Il nome del paese non è fatto ma tutti capiscono che si sta parlando della Francia. 

E’ esattamente quello che sostengo da oltre un mese, ma con qualche differenza: in primo luogo che chi ha sequestrato ed assassinato Regeni non può che appartenere agli organi di sicurezza egiziani, anche se lo ha fatto dietro lauto compenso straniero; in secondo luogo, che questo non significa affatto che il governo Al Sisi sia la vittima innocente della deviazione di un qualche gruppo di servitori infedeli. Se lo fosse stato, avrebbe punito severamente i colpevoli sino ai livelli più alti (in Egitto c’è la pena di morte e questo potrebbe essere considerato alto tradimento). Invece, si è prodotto in una serie di miserabili depistaggi e penose ritrattazioni, alla ricerca di una scappatoia.
Dunque, dobbiamo ritenere che Al Sisi fosse al corrente della cosa e fosse complice? Nemmeno questo: se Al Sisi avesse voluto cambiar cavallo prima dell’accordo, avrebbe avuto molti modi più semplici per farlo e non si spiegherebbe questo disperato tentativo di prendere tempo e placare l’ira italiana e il dilagare della campagna internazionale. Perché è chiaro che Al Sisi (ma forse gli stessi mandanti dell’assassinio di Regeni) aveva totalmente sottovalutato sviluppi così pesanti del caso: abituati a ritenere normale sequestrare, torturare ed uccidere i propri cittadini e, confermati in questo dall’atteggiamento dalla Francia che non ha fatto una piega per la sparizione di un suo cittadino al Cairo, non avevano immaginato che potesse venir fuori questo putiferio per una questione così trascurabile come l’assassinio di un cittadino straniero. Ma questo, per fortuna, è un paese civile e se la Francia del “socialista” Hollande è giunta a questi livelli di abiezione, l’Italia non ci è ancora arrivata.

La spiegazione è probabilmente un’altra: Al Sisi non può colpire chi, sin dentro il suo governo, ha promosso l’operazione, perché non se lo può permettere, essendo in condizioni di debolezza. In primo luogo perché, se lui accusasse qualche suo compare dell’omicidio Regeni, l’altro potrebbe tirarne fuori altre venti a suo carico. Si arriverebbe in breve ad un braccio di ferro fra le diverse componenti del regime, senza esclusione di colpi, e questo non se lo può permettere nessuno di loro perché il regime è molto fragile: gli alleati americani sembrano essersi stufati ed iniziano a rimpiangere di averli appoggiati per il colpo di stato contro i fratelli Musulmani, l’avvicinamento all’Arabia Saudita è subito bilanciato dall’allontanamento del Qatar che guarda con sempre più interessa alla Fratellanza, i Russi hanno un conto aperto dalla storia del jet caduto in ottobre, ma quello che dà i grattacapi maggiori è il fronte interno.

Il regime dei generali, a differenza di quanto accadeva ai tempi di Nasser, Sadat e persino ai primi tempi di Mubarak, non ha alcuna base di consenso per la quale avrebbe bisogno di un collettore almeno paragonabile a quello che fu l’Unione Socialista Nazionale di Nasser o quella “democratica” di Sadat. Il paese è spaccato in due: le città (soprattutto Alessandria ed il Cairo) sono con l’opposizione democratica, la sinistra (compreso il Partito Comunista) ed i copti, mentre le campagne e la sterminata periferia cairota stanno con i Fratelli Musulmani che hanno organizzato un efficiente welfare che organizza quel consenso che si espresse nelle elezioni dopo la caduta di Mubarak. Certo, si tratta di due opposizioni che hanno due progetti di Egitto diametralmente opposti fra loro e, quindi difficilmente alleabili, ed è proprio su questa spaccatura che i militari reggono il loro potere, puntellandolo con pratiche criminali.

Nella città la piazza ha ripreso a muoversi e nelle campagne la Fratellanza ha retto nonostante la sanguinosissima repressione. Il caso Regeni è piovuto su questa situazione ed ora il governo egiziano inizia a prendere atto del peso politico della questione. E i segnali non mancano: il governo (promettendo la solita svolta nelle indagini che poi non c’è) chiede esplicitamente che cessino le pressioni politiche dell’Italia e persino la conduttrice più conosciuta della Tv, esplode in un inconsueto sfogo mandando al diavolo il caso Regeni.

Come dicevo, tutto fa pensare che solo ora il regime stia valutando in quale guaio si è cacciato. Di fronte a questa situazione, è necessario che l’Italia non lasci cadere la questione, anzi, si decida a passare a misure effettive: iscrivere l’Egitto nei paesi non sicuri proibendo il turismo italiano in quella direzione, bloccando le forniture di armi in corso, rompendo le relazioni diplomatiche con il Cairo ed attivando l’Aise per contribuire alla destabilizzazione del sistema.

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