Diversi giorni fa, i deputati verdiniani Amoruso e Barani (mai precedentemente auditi) hanno sostenuto che Regeni è stato ucciso da imprecisati settori di servizi deviati, al soldo di una potenza straniera, per sabotare l’intesa Eni-Egitto
sullo sfruttamento del gas e la prova è il ritrovamento del corpo del
ragazzo proprio il giorno in cui la delegazione italiana giungeva per
sottoscrivere l’accordo. Ovviamente, tanto sarebbe stato fatto per
rimpiazzare l’Italia con la propria compagnia petrolifera. Il nome del
paese non è fatto ma tutti capiscono che si sta parlando della Francia.
E’ esattamente quello che sostengo da oltre un mese, ma con qualche differenza:
in primo luogo che chi ha sequestrato ed assassinato Regeni non può che
appartenere agli organi di sicurezza egiziani, anche se lo ha fatto
dietro lauto compenso straniero; in secondo luogo, che questo non
significa affatto che il governo Al Sisi sia la vittima innocente della
deviazione di un qualche gruppo di servitori infedeli. Se lo fosse
stato, avrebbe punito severamente i colpevoli sino ai livelli più alti
(in Egitto c’è la pena di morte e questo potrebbe essere considerato
alto tradimento). Invece, si è prodotto in una serie di miserabili
depistaggi e penose ritrattazioni, alla ricerca di una scappatoia.
Dunque, dobbiamo ritenere che Al Sisi
fosse al corrente della cosa e fosse complice? Nemmeno questo: se Al
Sisi avesse voluto cambiar cavallo prima dell’accordo, avrebbe avuto
molti modi più semplici per farlo e non si spiegherebbe questo
disperato tentativo di prendere tempo e placare l’ira italiana e il
dilagare della campagna internazionale. Perché è chiaro che Al Sisi (ma
forse gli stessi mandanti dell’assassinio di Regeni) aveva
totalmente sottovalutato sviluppi così pesanti del caso: abituati a
ritenere normale sequestrare, torturare ed uccidere i propri cittadini
e, confermati in questo dall’atteggiamento dalla Francia che non ha
fatto una piega per la sparizione di un suo cittadino al Cairo, non
avevano immaginato che potesse venir fuori questo putiferio per una
questione così trascurabile come l’assassinio di un cittadino straniero.
Ma questo, per fortuna, è un paese civile e se la Francia del
“socialista” Hollande è giunta a questi livelli di abiezione, l’Italia
non ci è ancora arrivata.
La spiegazione è probabilmente un’altra: Al Sisi non può colpire chi, sin dentro il suo governo, ha promosso l’operazione,
perché non se lo può permettere, essendo in condizioni di debolezza. In
primo luogo perché, se lui accusasse qualche suo compare dell’omicidio
Regeni, l’altro potrebbe tirarne fuori altre venti a suo carico. Si
arriverebbe in breve ad un braccio di ferro fra le diverse componenti
del regime, senza esclusione di colpi, e questo non se lo può permettere
nessuno di loro perché il regime è molto fragile: gli alleati americani
sembrano essersi stufati ed iniziano a rimpiangere di averli appoggiati
per il colpo di stato contro i fratelli Musulmani, l’avvicinamento
all’Arabia Saudita è subito bilanciato dall’allontanamento del Qatar
che guarda con sempre più interessa alla Fratellanza, i Russi hanno un
conto aperto dalla storia del jet caduto in ottobre, ma quello che dà i
grattacapi maggiori è il fronte interno.
Il regime dei generali, a differenza di quanto accadeva ai tempi di Nasser, Sadat e persino ai primi tempi di Mubarak, non ha alcuna base di consenso
per la quale avrebbe bisogno di un collettore almeno paragonabile a
quello che fu l’Unione Socialista Nazionale di Nasser o quella
“democratica” di Sadat. Il paese è spaccato in due: le città
(soprattutto Alessandria ed il Cairo) sono con l’opposizione democratica,
la sinistra (compreso il Partito Comunista) ed i copti, mentre le
campagne e la sterminata periferia cairota stanno con i Fratelli
Musulmani che hanno organizzato un efficiente welfare che organizza quel
consenso che si espresse nelle elezioni dopo la caduta di Mubarak.
Certo, si tratta di due opposizioni che hanno due progetti di Egitto
diametralmente opposti fra loro e, quindi difficilmente alleabili, ed è
proprio su questa spaccatura che i militari reggono il loro potere,
puntellandolo con pratiche criminali.
Nella città la piazza ha ripreso a
muoversi e nelle campagne la Fratellanza ha retto nonostante la
sanguinosissima repressione. Il caso Regeni è piovuto su questa
situazione ed ora il governo egiziano inizia a prendere atto del peso
politico della questione. E i segnali non mancano: il governo
(promettendo la solita svolta nelle indagini che poi non c’è) chiede
esplicitamente che cessino le pressioni politiche dell’Italia e persino
la conduttrice più conosciuta della Tv, esplode in un inconsueto sfogo
mandando al diavolo il caso Regeni.
Come dicevo, tutto fa pensare che solo
ora il regime stia valutando in quale guaio si è cacciato. Di fronte a
questa situazione, è necessario che l’Italia non lasci cadere la
questione, anzi, si decida a passare a misure effettive: iscrivere
l’Egitto nei paesi non sicuri proibendo il turismo italiano in quella
direzione, bloccando le forniture di armi in corso, rompendo le
relazioni diplomatiche con il Cairo ed attivando l’Aise per contribuire
alla destabilizzazione del sistema.
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