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14/10/2016

Legge di stabilità. Promesse per tutti, ma calano pure quelle...

Ormai l'hanno capito anche i sassi: le misure che il governo Renzi sta infilando nella legge di stabilità servono solo a tentare di comprare qualche “sì” per il referendum di dicembre.

Sarebbe meglio chiamarle promesse, anziché “misure”, perché la rapidità con cui vengono corrette, smentite, cancellate, riviste, è tale che non possono essere seriamente prese in considerazione.

Per almeno tre ragioni.

a) C'è un problema serio di soldi, di “coperture”, come si dice in sede di bilancio. Gli interventi più “populisti” (quattordicesima e pensioni minime più alte, bonus a tizio e caio, meno tasse alle imprese, ecc) sono drammaticamente costosi e diventa sempre più chiaro che se dovessero veramente entrare in vigore sarebbero finanziate con altri tagli alla spesa sociale, specie sanitaria (un capitolo che vedremo a parte). Ne vien fuori una partita da truffatori che con una mano fingono di dare e con l'altra tolgono davvero (più pensioni, ma meno assistenza sanitaria, che ti devi pagare da solo). Mentre il capitolo più costoso – il congelamento dell'Iva, che avrebbe dovuto aumentare le 2%, secondo il piano definito negli scorsi anni con le “clausole di salvaguardia” – deve essere mantenuto a tutti i costi, altrimenti anche quel refolo di “crescita economica” messo audacemente in conto (1%, quando tutti calcolano un più misero 0,5-0,8%, nel migliore dei casi) finisce sottoterra prima del tempo.

b) C'è il “guardiano” – l'Unione Europea, nella figura dei Commissari economici – che già sta scuotendo la testa. Quello 0,4% in più di rapporto deficit/Pil (2,4% invece del 2, come da Fiscal Compact) è irrealistico. Al massimo, in considerazione delle spese impreviste per terremoti e migranti, sarà uno 0,2. E c'è già una differenza di 3,2 miliardi. Soprattutto, nella Ue vedono malissimo il fatto che una parte delle maggiori spese vada su capitoli sociali, mentre preferirebbero ancora meno tasse alle imprese, più privatizzazioni, più tagli alla spesa per stipendi pubblici e ai servizi sociali. Non si respira aria di bocciature – l'unica certa, già avvenuta, è arrivata dall'Ufficio Parlamentare di Bilancio, un organo tecnico che per la prima volta non ha “bollinato” una legge finanziaria – ma di ridimensionamento della flessibilità concedibile, sì.

c) Il referendum si svolgerà il 4 dicembre, mentre la legge di stabilità deve essere approvata dal parlamento entro il 31. Un lasso di tempo stretto, ma neanche tanto, per cancellare molte spese promesse oggi (addirittura 30.000 dipendenti pubblici in più, ricchi premi e cotillons e chi vuole chiedere altro lo faccia... purché voti “sì”).

Ce n'è abbastanza, insomma, per diffidare. Il segnale più chiaro viene proprio dal tema più strombazzato: le pensioni. L'anticipo pensionistico (Ape), già costosissimo (anche oltre il 30% dell'assegno atteso), diventa sempre meno attraente. Oltre a costringere l'aspirante pensionato “anticipato” (ovvero con la vecchiaia in vigore prima della legge Fornero) a dover fare un mutuo con una banca, il governo ha già ridotto del 50% la copertura sugli interessi (aveva “giurato” che sarebbero stati versati tutti dallo Stato; non è già più così). Ma l'elemento più chiaro viene dalla versione “social” dell'Ape: doveva essere gratuita – ossia senza mutuo e senza penalizzazioni – per una serie di categorie (disoccupati, disabili, lavoratori in mansioni “gravose” da definire insieme ai sindacati complici) che avessero totalizzato almeno 20 anni di contributi. Stamattina, nell'ultima versione della “manovra”, ne servono minimo 30. In pratica la platea viene ristretta in modo deciso.

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