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09/02/2017

Filippine. Tregua rotta, Duterte ordina l’arresto dei leader comunisti

Nei giorni scorsi il presidente filippino Rodrigo Duterte, dopo aver fatto saltare i negoziati con la guerriglia maoista in corso da diversi mesi, ha ordinato alle forze armate e di polizia l'arresto dei leader del Partito Comunista e delle altre forze di sinistra sue alleate che erano stati liberati dal suo stesso governo per partecipare ai colloqui.

"Inizieremo a cercarli e ad arrestarli, se erano in prigione prima ed erano stati rilasciati a condizione che fossero necessari per i colloqui", ha spiegato il presidente filippino che ha bollato i suoi ex interlocutori come “terroristi”. «Ho fatto del mio meglio per fare la pace con tutti. Questi comunisti sono marmocchi viziati» ha detto ancora il presidente filippino, esortando i militari a «prepararsi a una lunga guerra» perché la pace «non arriverà durante la nostra generazione».

Il cessate il fuoco proclamato nell’agosto del 2016 dal Nuovo Esercito del Popolo e dalle forze armate in realtà era scaduto da parecchie settimane e i negoziatori maoisti del Fronte Democratico Nazionale, ombrello di organizzazioni militari, politiche, sociali, indigene e femminili che guida la ribellione contro Manila iniziata nel 1969, avevano più volte denunciato le violazioni dei militari e della polizia.

La decisione presidenziale è stata resa nota sabato scorso, 4 febbraio, dopo che tre giorni prima il Nuovo Esercito del Popolo aveva comunicato l’intenzione di interrompere, a partire dalla mezzanotte di venerdì 10 febbraio, la tregua che le due parti avevano decretato in maniera unilaterale l’estate scorsa. La guerriglia accusa da tempo Duterte di non aver rispettato l’impegno preliminare del governo di rilasciare tutti i prigionieri politici entro ottobre (circa 400 rimangono in carcere) ed ha affermato in un comunicato che il governo di Manila si è avvantaggiato a tradimento del cessate il fuoco per invadere alcuni importanti territori controllati dalla ribellione. La provocazione più grave risale al mese scorso quando in uno scontro a fuoco provocato da un’incursione dell’esercito sono morti otto soldati filippini e un guerrigliero maoista.

Negli ultimi giorni la svolta, con Duterte che ha ordinato ai suoi emissari di abbandonare Roma – dove si era svolto l’ultimo round dei colloqui dopo le tappe norvegesi – “di fare i bagagli e di tornare a casa” perché lui non è più “interessato a parlare”. A proposito del conflitto armato in corso da 50 anni tra guerriglia e forze governative Duterte ha minacciato: “Se volete continuarlo per altri 50 anni beh sarò lieto d'accontentarvi".

Intanto nei giorni scorsi Duterte ha prima coinvolto l’esercito nella cosiddetta “guerra contro la droga” che in pochi mesi ha portato all’uccisione di alcune migliaia di presunti spacciatori o consumatori di droga, e poi l’ha temporaneamente bloccata allo scopo “di fare pulizia nei settori corrotti delle forze dell’ordine”. Il presidente ha definito "corrotte fino al midollo" le forze di polizia che finora hanno condotto la “caccia ai drogati”, dopo che una serie di scandali avevano messo in evidenza il fatto che molte delle vittime della guerra proclamata da Duterte non avevano nulla a che fare né con lo spaccio né con il consumo di stupefacenti, e che molti agenti uccidevano, estorcevano e rubavano usando la cosiddetta ‘guerra alla droga’ come copertura.

"Voi poliziotti siete i più corrotti. Siete corrotti fino al midollo. E' il vostro sistema" ha tuonato Duterte attaccando gli agenti colpevoli di aver organizzato l'omicidio di un imprenditore sudcoreano nel quartier generale nazionale della polizia, aggiungendo che quasi 40% della forza di polizia conduce attività illecite.

Lo scorso 5 febbraio la potente Conferenza Episcopale delle Filippine ha emesso un duro comunicato di condanna nei confronti della cosiddetta ‘guerra alla droga’ lanciata personalmente da Duterte, accusando il suo governo di aver instaurato un “regno del terrore” in alcune regioni del paese. Secondo la Chiesa Cattolica molte delle 7000 persone finora uccise dalle forze dell’ordine non sarebbero né consumatori né trafficanti, bensì poveri o addirittura attivisti sociali e ambientalisti eliminati nell’ambito di una vera e propria guerra sporca su vasta scala. Da tempo Duterte è in contrasto con la Chiesa Cattolica e non ha risparmiato critiche al vetriolo ai sacerdoti e alla gerarchia ecclesiastica. «Io ora li sfido – aveva detto il presidente filippino – sfido la Chiesa Cattolica, sono pieni di merda e tutti appestati, dalla corruzione e da tutto» aveva detto il 24 gennaio scorso. Prima ancora Duterte aveva definito “figlio di puttana” il pontefice mentre Papa Francesco era in visita a Manila nel novembre 2015.

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