«Tra i gravi impedimenti che il marxismo
volgare frappone alla diffusione e all’influsso del marxismo si annovera
proprio questo illecito e fallace irrigidimento dei rapporti reali. Non basta, in risposta, appellarsi a Lenin, che dimostra a più riprese e in varie occasioni come ogni verità si trasformi in errore non appena la si esageri oltre misura»
György Lukacs, Il marxismo e la critica letteraria – premessa all’edizione italiana, Einaudi, 1964
La questione catalana ha fatto chiarezza almeno su di un punto: ha indicato la distanza incolmabile tra chi fa politica e chi parla di politica. In assenza di lotte di classe, la confusione ha portato spesso alla sovrapposizione dei due aspetti. I social network, dal canto loro, hanno acuito drammaticamente tale disordine. Eppure è bastata l’irruzione di un movimento reale per rimettere le cose al loro posto. I commentatori della politica, sovente marxisti dei più duri, ancora si attardano, breviario alla mano, alla ricerca della giusta citazione, della frase granitica, che dovrebbe sgomberare il campo delle facili infatuazioni regionalistiche. La Storia ha parlato, inutile discorrere altrimenti: lo Stato va salvaguardato, anzi, più grande esso diventa migliori le potenzialità delle classi subalterne. Con ciò, fine di ogni illusione piccolo borghese di ritorno al tempo che fu. Le piccole patrie trovano il loro posto nella raccolta differenziata dello spirito dei tempi. Amen. Chi, al contrario, rimane nonostante l’orrore post-moderno un militante politico, nella questione catalana vede un’occasione. Vaglielo a spiegare, ai profeti della logica, l’alchimia della circostanza nella storia. Tempo perso.
In punta di marxismo non c’è alcuna teoria definitiva della questione nazionale. Marx nel corso della sua esperienza politica ha cambiato, a volte letteralmente stravolto, le sue opinioni in merito. Non è il caso di appesantire il discorso con la sfilza di citazioni contraddittorie che possono ricavarsi sulle diverse questioni nazionali contemporanee a Marx ed Engels. Dalla questione irlandese alla questione polacca, dai popoli slavi alla Germania, come ci ricorda Renato Monteleone [1982], «ne viene fuori una sorta di valutazione caso per caso». Impossibile inchiodare Marx a una posizione di principio sulla questione nazionale, sia essa la lotta all’«autodeterminazione dei popoli», sia il suo contrario. Questo per l’evidente motivo secondo cui Marx intendeva la nazione come condizione storica e non naturale, per ciò stesso non solo transitoria, ma soprattutto valutabile, per l’appunto, «caso per caso». La dialettica tra nazionalità e internazionalismo è in Marx esattamente questo: una dialettica. Procedere a colpi di breviario non porterebbe il discorso da nessuna parte, ognuno rimarrebbe fedele al suo frammento attorno al quale ergere il moloch della “giusta teoria” sulla questione catalana.
A noi, per dire, dell’«autodeterminazione dei popoli» ci frega il giusto. Nel corso della storia questa frase è stata utilizzata per indicare tutto e il suo contrario, motivo per cui sarebbe bene valutare caso per caso di cosa si sta parlando, quando si parla della fatidica autodeterminazione. Il concetto di “popolo”, inteso nelle sue caratteristiche organiche e armoniche, è infatti uno dei più complicati da maneggiare, culturalmente e politicamente. Anche dello Stato trattato come entità naturale e sovrastorica ci interessa il giusto. Può essere questo un elemento progressivo o regressivo, non c’è modo di stabilirlo in principio. Nello stesso senso vanno intesi gli indipendentismi e i nazionalismi. Allora, cosa c’è di interessante nella questione catalana?
Il nazionalismo catalano è un fatto evidentemente trasversale tanto politicamente quanto soprattutto socialmente. E’ una contraddizione ambivalente, che poggia da una parte su retaggi storici effettivi, dall’altra su interessi di classe materiali. In tal senso è una contraddizione, altrimenti assumerebbe i toni della coerenza. La capacità della sinistra catalana è stata quella di interloquire con la contraddizione senza relegarla al campo della nemicità, né rimanere stritolata nelle esclusive logiche del separatismo fine a se stesso. L’indipendentismo è un vettore che veicola idee e lotte di classe in grado di raggiungere una platea sociale decisamente più vasta del settarismo ideologico. E’ dentro la lotta per l’indipendentismo che è in corso lo scontro politico decisivo tra i caratteri alternativi che dovrebbe assumere la Repubblica catalana. Che, sia detto per inciso, non sta lottando per tornare al Principato di Catalogna, ma spostando direttamente in avanti le condizioni politiche di partenza, a cominciare dall’abolizione della Monarchia e l’instaurazione della Repubblica. Dentro questo scontro la sinistra di classe ha saputo ritagliarsi uno spazio non marginale, svolgendo un ruolo che altrimenti non sarebbe mai stato possibile. Questo discorso vale per la Catalogna, ma ancor di più negli scorsi decenni è valso in Euskal Herria, in Galizia, e dovunque le lotte di classe hanno saputo intercedere con la questione nazionale. Proprio perché la questione nazionale, nel suo complesso, è un intrico di contraddizioni irrisolvibili una volta per tutte. Se valessero le immutabili leggi della Storia, dovremmo accodarci alla Merkel e a Macron rafforzando il ruolo dell’Unione europea contro i residui statuali particolari. Al contrario, in barba ai sacramentari, la statualità europeista, organizzata nell’odierna chiave ordoliberale, assume una forma reazionaria rispetto alle entità particolari di cui si compone. Non per questo una futura unione europea organizzata su altre basi materiali sarebbe da combattere. Come detto, dipende caso per caso.
Al termine di ogni ragionamento la domanda che rimane sospesa è: a chi conviene? Nella lotta di liberazione della Catalogna la sinistra di classe gioca una sua partita e lo fa non partendo sconfitta in principio. Fuori da questo ambito la sconfitta della sinistra è un’evidenza in tutto l’Occidente. Stupisce come di fronte a questa ovvietà diversi dei marxisti di cui sopra, definiti da Lukacs per l’appunto marxisti volgari, si schierino oggi con la polizia, l’esercito, la monarchia, l’Unione europea, il neofascismo e tutto l’arco liberale della politica spagnola. In nome di un hegelismo macchiettizzato che dovrebbe dimostrare qualcosa e che riesce solo a intenerire. Non riuscendo peraltro a cogliere la lampante cesura dei campi contrapposti: da una parte l’ordine costituito, dall’altra le lotte di classe. Che queste lotte non avvengano direttamente in uno scontro tout court per il socialismo è un ben misero motivo di polemica. Oggi, nel 2017, in Occidente come altrove, dov’è lo scontro schiettamente politico “per il socialismo”? In nessun luogo, che poi è il luogo d’elezione di ogni marxismo volgare. Dunque, spogliata di ogni variante contraddittoria, nella Catalogna si gioca per la sinistra una partita più grande dei suoi confini (per ora) regionali. La posta in gioco è quella del metodo, della capacità della sinistra comunista di vivere dentro le contraddizioni sociali generate dal capitalismo, e non fuori da esse. Il metodo di una sinistra che sa trovare il proprio spazio dentro la perenne dialettica tra le contraddizioni immediate e le contraddizioni principali, trovandone una via di sintesi originale ed efficace. Dovremmo imparare silenti questa capacità, non certo per replicare localismi artificiali, ma per apprendere un metodo di lotta, quello di stare nel popolo sapendone parlare la stessa lingua.
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