Due, a mio avviso, sono i fatti politici che hanno segnato l’ultimo scorcio di questo 2017 e che produrranno effetti di non trascurabile entità negli scenari futuri del Paese: l’“affaire” Banca d’Italia e i referendum sull’autonomia promossi dalle regioni Lombardia e Veneto, svoltisi domenica 22 ottobre.
Lo scontro sull’Istituto di vigilanza, conflitto che ha scosso i piani alti della politica e dell’economia, ha visto schierarsi due opposte tifoserie: quella dei difensori ad oltranza dell’autonomia e della sacralità di Via Nazionale (istituzione ritenuta per decenni intoccabile ed insindacabile), e quella dei sostenitori della necessità ed utilità dell’attacco sferrato dal Pd renziano ai vertici di palazzo Koch, ritenuti responsabili di una colpevole serie di gravi omissioni nell’attività di controllo del settore creditizio. Omissioni che sarebbero state, almeno in parte, all’origine di quelle situazioni di crisi in cui sono precipitate alcune banche (Banca Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara, CariChieti, Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, e, soprattutto, Monte dei Paschi di Siena, il caso sicuramente più eclatante ed inquietante) e che hanno provocato ingenti danni ai risparmiatori.
La mozione presentata dal Pd a Montecitorio, e approvata con 213 voti favorevoli (dopo un intervento del Governo teso ad ammorbidirne i toni più ruvidi), in cui si chiedeva un cambio di passo di Banca d’Italia e la non riconferma di Visco a Governatore, ha destato allarme in alcuni settori dell’establishment per l’inusuale intervento a gamba tesa in una materia ritenuta di stretta competenza governativa.
Il presidente della Repubblica è sceso in campo per precisare che ognuno deve stare al suo posto e che i posizionamenti dei partiti su fatti riguardanti Bankitalia dovrebbero essere ispirati a “esclusivi criteri di salvaguardia dell’autonomia e dell’indipendenza dell’istituto”. Naturalmente, nonostante il clamore suscitato dalla mozione del Pd, Renzi non ha mai avuto alcuna seria intenzione di fare piena luce su quanto è accaduto negli ultimi venti anni nel mondo del credito, né di accertare quali possano essere stati i reali limiti dell’azione ispettiva e di controllo svolta da Via Nazionale.
Per il Segretario del Pd la questione banche è soltanto un utile argomento di lotta politica da utilizzare come una clava contro le opposizioni, contro una parte del suo stesso partito (soprattutto con chi vedrebbe di buon occhio Gentiloni a Palazzo Chigi dopo le prossime elezioni) e contro chi ha tardivamente lasciato il Pd per dar vita ad una nuova forza politica (principalmente versus D’Alema).
Molti commentatori hanno sostenuto che la commissione bicamerale d’inchiesta sulle banche istituita alcuni mesi fa – alla cui guida è stato posto il felpato e navigato centrista Casini – avrà poco tempo a disposizione per condurre una seria ed approfondita indagine su quel che è accaduto nel mondo del credito italiano.
In realtà, non è l’ostacolo temporale rappresentato dalla fine incombente della legislatura a rendere impossibile qualsiasi serio accertamento sulle cause delle crisi bancarie. La vera e sola ragione del più che certo fallimento del lavoro che dovrà essere svolto dei parlamentari inquirenti trova origine nella totale assenza di una effettiva volontà politica di far luce sui molteplici aspetti delle tante oscure vicende in cui si sono fortemente intrecciate responsabilità dei vertici degli istituti di credito travolti dalla crisi (management palesemente inadeguati al compito e con spiccate tendenze alla malversazione) e del mondo politico che ha sempre coperto le malefatte dei manager con i quali aveva stretto vergognosi patti di mutuo soccorso (la storia del Monte dei Paschi di Siena è da questo punto di vista emblematica).
Renzi vuole, quindi, usare la commissione d’inchiesta esclusivamente per costruire una buona parte della sua campagna elettorale, per utilizzare frammenti di verità che dovessero emergere per attaccare i suoi avversari, per costruire alleanze trasversali utili nella futura legislatura, e, ultimo, ma non in ordine d’importanza, per poter sbandierare la presunta verginità del gruppo dirigente del Pd a lui più vicino e fedele (mettendo la sordina alla vicenda Banca dell’Etruria-famiglia Boschi). Renzi non pensa affatto ad un’operazione verità (che, se fosse davvero realizzata avrebbe l’effetto dirompente dell’apertura di un vaso di Pandora), ma intende sfruttare la vicenda banche per interloquire con le classi dirigenti del capitalismo italiano, oggi alla ricerca di nuovi assetti di potere.
Le crisi bancarie e degli sbocchi che esse avranno in futuro sembrano, infatti, offrire uno spazio utile di interlocuzione al Pd con settori del capitalismo italiano sebbene, su questo stesso specifico versante, anche la Lega e il MoVimento 5 Stelle cerchino, ciascuno a suo modo, di intessere rapporti e di proporsi come credibili referenti.
E’ chiaro che sia il Pd, sia i suoi principali avversari, nel mentre cercano accordi sotterranei con i padroni del vapore ai quali si offrono come interlocutori affidabili, si rivolgono nello stesso tempo ai ceti colpiti dalla crisi fingendo di farsi interpreti del loro malcontento e della loro insoddisfazione al fine di raccoglierne il consenso elettorale. In questo furbesco e tartufesco gioco delle parti, la vicenda banche rappresenta, quindi, un efficace argomento di propaganda politica per il Pd, ma anche per la Lega e per il MoVimento 5 Stelle, perché consente loro di cavalcare la legittima rabbia dei risparmiatori raggirati, senza però indicare gli autentici responsabili delle crisi, né tantomeno fare alcuna forma di chiarezza sui meccanismi che hanno consentito la rapina dei sudati risparmi dei tanti pensionati che agli sportelli bancari avevano depositato le loro liquidazioni.
Non è un caso, infatti, che né Renzi, né Salvini né Di Maio facciano minimamente cenno a cosa abbia rappresentato la politica della privatizzazione dei grandi istituti di credito pubblici, sciagurata e torbida operazione di svendita che ha consegnato nelle mani di alcuni gruppi di potere capitalistici aziende creditizie di notevoli dimensioni. Insomma, morale della favola, quasi tutti gli scheletri negli armadi resteranno ben nascosti, mentre nelle piazze e nei talk show elettorali gli aspiranti premier faranno a gara nel proporsi come paladini dei cittadini vittime delle malversazioni bancarie.
E’ compito, quindi, della sinistra anticapitalista, a mio avviso, ricostruire il quadro complessivo di quanto è accaduto nel settore creditizio negli ultimi due decenni, quadro la cui lettura deve avvenire parallelamente all’analisi dei processi economici e sociali del capitalismo italiano. Su questo, credo, sarà cosa utile aprire al più presto un proficuo dibattito, non con intenti “accademici” o peggio ancora meramente propagandistici, bensì in una prospettiva militante e di classe.
L’altro fatto politico recentemente avvenuto nell’ultimo scorcio del 2017 di rilevante portata e che sicuramente avrà effetti significativi sugli scenari futuri del Paese è l’esito dei due referendum sull’autonomia indetti dalla regione Veneto e dalla regione Lombardia, svoltisi domenica 22 ottobre.
Seppure entrambe le consultazioni referendarie fossero puramente consultive e concernessero la richiesta al governo di un maggiore spazio di autonomia su determinate materie e competenze specificate dagli articoli 116 e 117 della Costituzione italiana, non si può dire, come hanno tentato di far credere quasi tutti i giornaloni della borghesia, che il 22 ottobre sia stata l’occasione per fare una passeggiata domenicale un po’ più lunga per raggiungere i seggi e che sostanzialmente nulla di serio sia accaduto.
Mi soffermerò esclusivamente sul risultato del Veneto perché esprime, a mio giudizio, più di quello della Lombardia (comunque anch’esso da analizzare attentamente) linee di tendenza, pulsioni profonde, orientamenti di ampi settori della popolazione residente nel Nord Est del Paese. La partecipazione in tutta la regione è stata abbastanza alta, nonostante le preoccupazioni manifestate, alla vigilia del voto, dallo stesso presidente della giunta regionale, il leghista Luca Zaia, su quella che sarebbe stata l’effettivo “appeal” dei quesiti referendari sui cittadini da lui governati. La soglia di validità della consultazione era stata fissata per legge al 51%, quorum poi ampiamente superato: su 4.068.560 aventi diritto, hanno partecipato alla consultazione 2.328.949 elettori, pari al 57,2% del corpo elettorale.
Il dato è sicuramente rilevante, soprattutto se si tiene conto del fatto che, come ha giustamente osservato l’Istituto Cattaneo di Bologna, quello di domenica 22 ottobre è stato uno dei risultati «più elevati in termini di partecipazione dal 1995 ad oggi». Nel giugno del 2011, quando si votò sull’acqua pubblica e sul nucleare la partecipazione dei veneti si attestò al 58,89 %.
Alle regionali del 2015 del 31maggio del 2015, quando fu riconfermato Zaia alla presidenza, si recò alle urne il 57,16% dell’elettorato. Domenica 22 ottobre si sono pronunciati a favore del SI 2.273.985 cittadini (pari al 98,1%), mentre hanno risposto NO al quesito appena 43.928 veneti.
Dall’analisi dei dati relativi alla partecipazione suddivisi per provincia emerge un quadro ancora più significativo: nelle provincie di Vicenza e Padova, ad esempio, si raggiungono picchi più elevati della media regionale (62,7% nella prima e 59,7% nella seconda). La corsa alle urne è stata più alta nei comuni non capoluogo di provincia rispetto a quelli capoluogo (ad eccezione di Belluno), e le percentuali maggiormente rilevanti sono state raggiunte soprattutto nei comuni inferiori ai 15.000 abitanti.
La mobilitazione elettorale e la purtroppo imponente affermazione del SI possono essere attribuite alla massiccia mobilitazione dell’elettorato leghista e alla sensibilità al tema dell’autonomia dimostrata dagli elettori pentastellati (in larga parte recatisi alle urne); peraltro, anche coloro che avevano votato Pd alle elezioni politiche del 2013 hanno contribuito all’affermazione del SI, sebbene in proporzione nettamente inferiore a chi in quella consultazione aveva scelto Lega o 5Stelle. Ma non sono mancati apporti provenienti dall’estrema destra.
Come interpretare l’esito del voto in Veneto? Molti sono i fattori che possono aver contribuito all’alta partecipazione ed alla vittoria netta del SI all’autonomia. Proverò ad indicarne sinteticamente alcuni:
a) la necessità di consolidare i primi timidi segnali di apparente uscita dalla crisi economica. L’economia del Veneto, infatti, ha fatto registrare qualche debole risultato positivo prevalentemente ascrivibile all’andamento del commercio con l’estero (situazione comune alle altre regioni del Nord Est). Questa sostanziale tenuta, derivante dalle transazioni commerciali con l’Europa e gli Stati Uniti, può aver spinto gli elettori a chiedere a Governo e Parlamento, attraverso lo strumento referendario, un’ampia autonomia nelle materie previste dall’articolo 117 della Costituzione e, quindi, conseguentemente maggiori risorse da destinare alla regione;
b) le criticità in cui versano due tra i principali istituti di credito veneti (Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca) hanno innescato per reazione un meccanismo di difesa a tutto campo, teso a preservare la vasta rete creditizia operante nel Veneto, da sempre espressione del territorio. E’ di questi giorni la notizia che Carmelo Barbagallo, capo della Vigilanza di Palazzo Koch, audito per più di cinque ore dalla Commissione d’inchiesta presieduta da Casini, ha attribuito le debolezze delle due banche ai prestiti erogati con colpevole leggerezza o addirittura in conflitto di interessi da un management inadeguato.
c) l’affermarsi, in strati del “popolo veneto”, di una concezione proprietaria della democrazia, fondata sulla difesa ostinata del territorio sia dallo straniero immigrato, sia da una visione unitaria delle grandi questioni del Paese;
d) la tendenza della media imprenditoria a rispondere alle logiche economiche restrittive imposte da Bruxelles attraverso percorsi istituzionali che consentano al Veneto di poter stabilire un rapporto diretto con i vertici dell’Unione;
e) la corsa del Pd ad inseguire continuamente la Lega sul suo terreno (persino attraverso l’adozione di politiche securitarie che potessero risultare gradite al più becero elettorato) ha avuto come unico risultato un ulteriore spostamento a destra delle opinioni e degli orientamenti dei cittadini veneti;
e) infine, direttamente collegato al punto precedente, ha avuto un non trascurabile peso sull’alta partecipazione al referendum e sul plebiscitario successo del SI il conservatorismo della società veneta, un fattore di natura politico-culturale che affonda le sue radici nel passato, recente e meno recente, della regione e sul quale intendo focalizzare l’attenzione.
Per lunghi decenni nella storia repubblicana, il Veneto è stato uno dei serbatoi elettorali della Democrazia cristiana, soprattutto della sua parte più moderata e conservatrice. Certo, durante la Resistenza erano state presenti ed attive la componente comunista, quella socialista e quella azionista, ma anche i partigiani bianchi ed i militari svolsero un ruolo non indifferente (si pensi ad esempio all’azione del militare monarchico Eugenio Spiazzi, padre del più tristemente noto generale Amos Spiazzi, a Verona).
Dopo la Liberazione, in alcune zone della regione si stabilì un’egemonia moderata – conservatrice che condizionò, con l’appoggio delle parrocchie, il dibattito interno alla stessa Democrazia cristiana, espungendo le spinte progressiste del mondo cattolico più avanzato e marginalizzando l’azione del PCI – pur sostenuto da un apprezzabile consenso popolare, operaio ed intellettuale. Il partito di cui era divenuto segretario Luigi Longo, ad un anno dalla morte di Palmiro Togliatti, si arrovellava, infatti, nel corso dei lavori della seconda conferenza regionale dei comunisti veneti svoltasi nel giugno del ’65 a Treviso, sulla questione di come costruire nella regione quel partito di massa, già esistente in tanti parti d’Italia.
Nel ’48 nelle elezioni per la Camera la Dc si attestò, in entrambe le circoscrizioni venete, al di sopra del 50%, con una percentuale di quasi 10 punti superiore a quella raggiunta a livello nazionale (48%). Da allora sino al 1987, il partito democristiano mantenne sempre una posizione elettorale nettamente dominante, con una distanza rispetto al PCI mediamente di 20 punti percentuali (e questo divario elettorale fu registrato persino nel’76, l’anno della maggiore avanzata del Partito comunista italiano).
Veneti erano esponenti di primo piano del gruppo dirigente democristiano: Mariano Rumor, leader doroteo, segretario nazionale del partito e più volte ministro e capo del governo; Toni Bisaglia, potente ras doroteo, costretto a dimettersi nel 1980 da ministro dell’Industria perché accusato di essere coinvolto nel secondo scandalo dei petroli; il doroteo Costante Degan e il moroteo Luigi Gui, entrambi più volte ministri.
La componente dorotea era dunque quella prevalente ed aveva nelle sue mani quasi tutte le leve del potere locale (banche, giornali, aziende pubbliche). Dalla fine degli anni Ottanta il blocco moderato ed anticomunista raccolto intorno alla Dc cominciò a dissolversi e a trovare nella Liga veneta un suo punto di riferimento. Le parole d’ordine della Liga, confluita nella Lega Nord, rifacendosi agli antichi fasti della Repubblica veneta rivendicavano autonomia da Roma e chiamavano a raccolta la media e piccola borghesia delle città e delle campagne con una propaganda fortemente anticomunista ed antimeridionalista.
Dal ’92, con il crollo dei partiti storici italiani per effetto delle inchieste di Tangentopoli, questo elettorato rancoroso nei confronti del Mezzogiorno accusato di essere dilapidatore di risorse, si riconobbe nell’azione politica della Lega nord e del centro destra. Il Veneto è, infatti, da 22 anni ininterrottamente governato dal blocco berlusconiano, centrista, leghista e postmissino: nel ’95 si affermò un’alleanza composta da Forza Italia, An e Ccd senza la Lega che in quella consultazione andò da sola; e dal 2000 sino ad oggi si è imposta una vasta coalizione, estesa al partito un tempo guidato da Bossi (formazione diventata dal 2010 egemone nello schieramento).
Se la cultura leghista fondata sulla rivendicazione delle ragioni storiche del Veneto ha iniziato a crescere verso la fine degli anni Settanta, in alcune zone della regione è stata, invece, sempre attiva una consistente presenza di destra neofascista e neonazista, diretta discendente della Repubblica di Salò. Esponenti del neofascismo veneto sono stati pesantemente coinvolti in molte tragiche vicende della strategia della tensione. Alcuni dirigenti di Ordine nero veneto (la nuova formazione nata dopo lo scioglimento di Ordine nuovo alla fine del ‘73) sono stati condannati per la partecipazione alla strage di Brescia del 28 maggio ’74; ed è noto che a Padova agiva il nucleo ordinovista riunito intorno al neonazista Franco Freda, gruppo le cui attività eversive erano state oggetto, qualche tempo prima della strage di Piazza Fontana, delle indagini del commissario di polizia Pasquale Juliano, poi sottoposto, proprio per aver individuato l’origine nera di alcuni attentati, ad un ingiusto procedimento disciplinare.
Negli anni Sessanta e Settanta Ordine nuovo aveva frequenti rapporti, accertati dall’ordinanza-sentenza del giudice milanese Guido Salvini, con alcuni ufficiali del Comando delle forze terrestri alleate del Sud Europa (FTASE), la cui sede era a Verona. Il “canale” istituitosi tra manovalanza neofascista e base Nato fu alla base delle più torbide e nefande provocazioni architettate nel corso della strategia della tensione.
La galassia di sigle neofasciste e neonaziste che ha agito ed agisce in Veneto ha assunto, rispetto al quesito referendario del 22 ottobre, posizioni diversificate.
Se la destra parlamentare rappresentata da FdI ha preso le distanze dall’iniziativa di Maroni e Zaia, l’estrema destra veneta si è prevalentemente orientata per il Si. I neo-fascisti di Forza Nuova hanno partecipato ad iniziative accanto a esponenti della Lega Nord. Appare evidente il tentativo di queste forze di inserirsi in qualche modo nel disegno più complessivo della “strategia” di Matteo Salvini, fornendo all’occorrenza qualche slogan e un po’ di manovalanza.
Il capo dei leghisti ha recentemente tolto dal simbolo elettorale della sua forza politica il riferimento al Nord per poter “sfondare” anche a Sud del Garigliano (operazione che appare non del tutto agevole). E’ un disegno ambizioso che ponendo in soffitta (ma non definitivamente) i vecchi cavalli di battaglia bossiani (che consentirono la conquista di una solida fetta di consenso elettorale e che potrebbero tornare sempre utili) è finalizzato alla costruzione di una forza di destra non dichiaratamente ed apertamente fascista, ma che attinge a larghe mani all’arsenale propagandistico dei neofascisti.
A tal proposito, basta pensare alla assurda mozione presentata da una consigliera leghista e fatta propria dal consiglio comunale di Soragna, piccolo comune della provincia di Parma, mozione in cui si chiede un impegno delle istituzioni a rendere illegale e sanzionato penalmente tutto ciò che significhi “comunista”, dalle persone alle idee, dai simboli agli oggetti.
Oggi sembrano esservi le condizioni per l’affermazione di una destra che, facendo leva sul disagio sociale derivante dalla crisi economica del 2007-2008 e dalle politiche restrittive di Bruxelles, miri ad essere determinante negli indirizzi sociali ed economici del Paese. Una manovra a tenaglia- autonomismo al Nord e sfondamento al Sud-potrebbe dare alla forza guidata da Salvini, ai suoi recalcitranti alleati di FdI e a gruppi e gruppuscoli neofascisti (questi ultimi collocati in posizione autonoma) una dimensione elettorale ragguardevole, intorno al 18% o 19%, che farebbe configurare un nuovo, ancor più preoccupante quadro politico nazionale in cui occuperebbero la scena una destra agguerrita e all’offensiva, un ventre molle di centro costituito da Pd, Forza Italia e minori (da Cicchitto, a Fitto e Verdini) e il MoVimento 5 Stelle, sempre più attestato su posizioni ambigue con aperture al capitalismo italiano che conta.
A questa destra, le forze anticapitaliste devono rispondere respingendo le vetuste forme di un antifascismo mummificato, ossificato, commemorativo, rituale, e lottando per costruire quella società socialista per la quale sacrificarono le loro esistenze, dai tempi della clandestinità sino alla Resistenza, tanti giovani militanti comunisti, socialisti e di altre forze della sinistra.
I moti del luglio ’60 fecero emergere una possente spinta antifascista che travolse il governo Tambroni, una spinta che fu propedeutica alle straordinarie lotte degli anni Settanta. Oggi la destra va contrastata con una chiara battaglia politica in cui i temi della lotta allo sfruttamento del lavoro, della pace e dell’uscita dalla Nato, della effettiva libertà della cultura e dell’informazione, dell’opposizione alle politiche xenofobe e securitarie del governo, dal ripudio della gabbia dell’euro, della nazionalizzazione delle principali aziende che un tempo furono pubbliche (in primis le banche), siano parte centrale e assolutamente non negoziabile del programma comunista per i prossimi anni.
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