Un libro di Chantal Mouffe spiega come – nel momento in cui sta
crollando il Sistema tecnocratico e postdemocratico – l’unico modo per
contrastare l’avanzata delle destre xenofobe sia abbracciare le ragioni
populistiche: una via, in antitesi sia ai liberali del centrosinistra
che alla sinistra marginale e rivoluzionaria, che recuperi un
“riformismo radicale” e la democratizzazione delle istituzioni.
L’obiettivo è essere maggioranza nel Paese. Un manifesto politico che fa
discutere e tocca i tabù novecenteschi e marxisti.
di Giacomo Russo Spena
Un pamphlet utile e che anima dibattito. Sicuramente non è un libro
ideologico: all’utopia si preferisce il pragmatismo. E sicuramente è una
lettura ostile per chi è nell’alveo della cosiddetta sinistra radicale o
per chi utilizza pedissequamente le lenti marxiane per leggere la
società d’oggi. Con il testo Per un populismo di sinistra
(Laterza, pp. 120) Chantal Mouffe, docente all’Università di
Westminster, enuncia il suo manifesto politico per la costruzione
europea, e globale, di un’alternativa possibile. Alla studiosa non manca
l’audacia di rompere alcuni tabù novecenteschi propri della tradizione
classica. La tesi di fondo è che, nell’era populista che viviamo, la
sinistra (o quel che rimane del progressismo) è obbligata a sposare il
populismo se vuole ritornare in auge in termini di rappresentanza.
Il populismo non sarebbe un’ideologia ma una mera strategia discorsiva
di costruzione della frontiera tra il “popolo” e “l’oligarchia”. Un modo
di fare politica: una tattica vincente. Non sposare il populismo di
sinistra equivarrebbe ad essere esclusi dalla contesa e, quindi,
relegati alla marginalità elettorale. Secondo l’autrice nei prossimi
anni sarà possibile combattere le politiche xenofobe, promosse dal
populismo di destra, solo attraverso la costruzione di un “popolo”, di
una volontà collettiva che sia l’esito della mobilitazione degli effetti
comuni in difesa dell’uguaglianza e della giustizia sociale. Mouffe –
insieme ad Ernesto Laclau, filosofo argentino, postmarxista, e vate della “ragione populista” – rappresenta il volto più rinomato di questo pensiero.
La sua teoria parte da un punto imprescindibile: il crollo del sistema
liberaldemocratico. Dopo i gloriosi trenta negli anni ‘80 sarebbe
partita la controffensiva neoliberale di Ronald Reagan e di Margaret
Thatcher, una controffensiva che ha portato al dominio di un pensiero
unico e alla fine delle socialdemocrazie europee che, negli anni, hanno
via via abbandonato le ragioni della sinistra – sposando spesso e
volentieri le larghe intese – assumendo come proprio il paradigma della
"terza via" di Tony Blair. Si è utilizzata la parola "riformismo" per
sostenere guerre umanitarie, deregulation, restringimento del welfare
state e precarizzazioni varie. Quella dei socialdemocratici è stata una
mutazione genetica dovuta sia a errori soggettivi che alla insufficiente
analisi e comprensione nel "mare in subbuglio di quel capitalismo in
via di mutazione", per parafrasare lo storico Eric Hobsbawm.
Ancora oggi il Pd – malgrado la batosta del 4 marzo – continua a fare
opposizione al governo gialloverde tifando lo spread, schierandosi per
la Tav, le privatizzazioni o difendendo i passati provvedimenti di
Minniti sull’immigrazione o il Jobs Act sul lavoro. Una strada che
appare miope e sbagliata. Il centrosinistra – esaltando le magnifiche
sorti e progressive della globalizzazione liberista e dell’Europa di
Maastricht – ha finito così per schiantarsi. Chantal Mouffe parla di
“postpolitica” per definire come, dal punto di vista economico e
sociale, si sia appiattita la differenza tra destra e sinistra. Il
crollo di un Sistema è il tema globale. Il Sistema delle oligarchie,
delle tecnocrazie e del dominio della finanza sta mostrando sempre
maggiori crepe. Per ultimo, ad accorgersene è il presidente francese
Macron costretto a cedere alle richieste dei gilet gialli. All’Ancient
Regime si oppone una mobilitazione di cittadini arrabbiati che chiedono
cambiamento, diritti e protezione sociale.
Di fronte a questo
quadro, la sinistra – a parte qualche eccezione menzionata nel libro
come Podemos, La France Insoumise di Melenchon, la prima Syriza o il
Labour Party di Jeremy Corbyn – non è stata in grado di incanalare tale
rabbia e di trasformarla in proposta politica. Quel vuoto è ben colmato,
ad oggi, dai populismi di destra che hanno costruito un immaginario ben
preciso dove il migrante è il capro espiatorio di tutti i mali, dalla
crisi economica al degrado passando per la sicurezza.
La
tecnica populistica si delinea per il suo carattere agonistico: la
costruzione di un “noi” identitario (l’idea di comunità) contro un
“loro” inteso come nemico da combattere. La differenza tra i vari
populismi sarebbe nell’identificazione di quel “loro”. Mouffe, portando
il caso di Podemos o di Occupy Wall Street, incarna il nemico esterno
nel cosiddetto 1 per cento, nell’oligarchia che detiene potere e
ricchezze a scapito del 99. Al contrario, i nazionalisti xenofobi
identificano il nemico – foraggiando la guerra tra poveri – nello
straniero. Il M5S vedrebbe il nemico nelle Caste (politici fannulloni) o
nella stampa (pennivendola e sciacalla). Sono strategie che portano
consenso e il prodotto di narrazione egemoniche nella società. Nel
testo, l’autrice – riscoprendo Gramsci – definisce una formazione
egemonica come “una configurazione di pratiche sociali di natura
differente: economica, culturale, politica e giuridica, la cui
articolazione è assicurata da alcuni significanti simbolici chiave che
plasmano il senso comune”.
Si dovrebbe ripartire da qui, a
costo di abbandonare la parola sinistra – svuotata di significato a
causa del “tradimento” consumato dai socialdemocratici – per abbracciare
la dicotomia basso/alto. Il termine sinistra non aiuterebbe a costruire
un “popolo” degli sfruttati, relegando e delimitando il consenso della
proposta politica. A differenza di precedenti libri, Chantal Mouffe non
si sofferma nell’identificazione di questo popolo, che poi è il vero
nodo – il 99 per cento non sempre è un blocco omogeneo e al proprio
interno ha una serie di contraddizioni – definendolo come una
“risultante da una catena equivalenziale che collega domande eterogenee,
e la cui unità è garantita dall’identificazione con una concezione
democratica radicale di cittadinanza e dall’opposizione comune
all’oligarchia”.
Una sorta di maggioranza invisibile nella
società composta da fasce popolari, ceto medio polverizzato, precari di
ogni specie, migranti, partite Iva, pensionati. Da chi, in questi anni,
sta pagando la crisi sulla propria pelle. Facendo sue le tesi
antiessenzialiste, nel pamphlet, il popolo non è definito come un
referente politico ma è fondamentale la “costruzione di una volontà
collettiva capace di determinare una nuova formazione egemonica che
ristabilisca l’articolazione tra liberalismo e democrazia”.
Qui
c’è un secondo punto fondamentale. Il populismo di sinistra sarebbe una
terza via, in antitesi sia ai liberali del centrosinistra che alla
sinistra cosiddetta estremista. L’obiettivo è il governo. Essere
maggioranza nel Paese, per prendere il potere. Si abbandona ogni
velleità rivoluzionaria, o esodo negriano, per sostenere quella che
Mouffe definisce “radicalizzazione della democrazia”. Nell’era della
postpolitica e della postdemocrazia, per rompere col neoliberalismo –
senza però ricadere nella marginalità della sinistra radicale – è necessario rilanciare un “riformismo radicale” (Mouffe cita persino
Norberto Bobbio) capace di aprire una stagione di partecipazione e nuovi
diritti. “L’errore fondamentale dei rappresentanti dell’estrema
sinistra – scrive l’autrice belga – è sempre stato quello di evitare di
confrontarsi con ciò che le persone sono nella vita reale, preferendo
soffermarsi su come avrebbero dovuto essere secondo le loro teorie”.
Nel populismo, di destra come di sinistra, ci sarebbero caratteristiche
comuni che, per semplificare, si potrebbero sintetizzare in alcuni
punti: la costruzione di un “noi” identitario, l’appello al popolo,
l’ostilità all’establishment, la personalizzazione della politica, la
mobilitazione mediatica, la semplificazione del messaggio. Ma se il
populismo di destra si palesa per il suo autoritarismo e per la
declinazione in termini nazionalistici e xenofobi, secondo Mouffe il
populismo di sinistra desidera restaurare la democrazia per rafforzarla
ed estenderla. “Ciò – scrive – richiede l’instaurazione di una catena di
equivalenze tra le domande dei lavoratori, degli immigrati, nonché di
altre domande democratiche, per esempio quelle della comunità Lgbt.
L’obiettivo di questa catena è la creazione di una nuova egemonia che
permetta la radicalizzazione della democrazia”.
Per raggiungere
tale scopo, serve anche un leader carismatico che, per Mouffe, è cosa
ben diversa dal dispotismo autoritario. Qualsiasi esperienza
interessante in Europa è stata possibile anche per la figura di un
“potere carismatico” (per dirla alla Max Weber) capace di occupare gli
spazi mediatici e vincere una battaglia culturale. Far capire alle
persone chi sono i veri responsabili della propria crisi. Da questo
punto di vista il sistema informativo e comunicativo è fondamentale. E
non si può tralasciare. Poi la vera sfida per le forze di alternativa
consisterebbe nel ricostruire il legame tra democrazia e conflitto: una
mancanza di sbocchi politici adeguati avrebbe esiti alquanto pericolosi.
Ovunque, infatti, avanza il (peggior) populismo di destra.
Al
momento, le forze di opposizione socialdemocratiche contrastano i
“barbari” difendendo status quo ed austerity mentre movimenti e lotte
sociali sono orfani di una rappresentanza degna. Mouffe tifa, invece,
per il populismo di sinistra. Questo progetto avrà successo?
“Chiaramente non c’è garanzia – replica l’autrice – ma sarebbe un grave
errore non cogliere l’opportunità che la congiuntura attuale fornisce”.
Allora, dopo questa lettura, è lecito chiedersi: chi sarà, in Italia,
l’anti-Salvini?
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