Gli USA sono uno “Stato castrense”, dove il complesso militare-industriale è uno dei principali blocchi di potere che governano il Paese, qualsiasi presidente venga eletto.
I grandi gruppi nord-americani del settore delle armi sviluppano una potente opera di lobbismo tesa ad orientare le decisioni politiche complessive e a forgiare – attraverso i media – un’opinione pubblica che promuova la difesa dei propri obbiettivi economici, camuffandoli da necessità difensive generali.
Non sorprende che il lavoro di lobbismo del complesso militare-industriale venga camuffato da giornalismo d’inchiesta indipendente, come è ben descritto nell’articolo che di seguito abbiamo tradotto.
È chiaro che per fare questo bisogna identificare un nemico che costituisca una minaccia vitale all’american way of life, e far sì che questa minaccia venga percepita come “comune” da numerosi Paesi – in primis i propri alleati – verso cui si possano indirizzare i flussi d’esportazioni delle armi della propria industria bellica.
Senza capire la filiera produttiva bellica complessiva è difficile comprendere la catena di trasmissione della paura, che è il cuore della disinformazione strategica, leggermente più sofisticata della fake news che nutrono le differenti teorie “cospirazioniste”, bersaglio abituale della stampa sedicente liberal.
La politica estera statunitense è il risultato della sincronizzazione dell’agenda delle maggiori corporations – tra cui l’industria delle armi – gli orientamenti del Deep State e l’establishment politico al governo, all’interno di un orizzonte strategico comune. Il quale può avere variazioni tattiche a seconda dell’amministrazione, ma che deve riprodurre il dominio imperiale a stelle-e-strisce ed una adeguata governance delle contraddizioni sociali interne.
L’output sulle priorità geo-politiche è frutto del processo di allineamento nel bilanciamento degli interessi tra le differenti frazioni della borghesia USA.
In un contesto in cui gli USA non riescono più ad esercitare una leadership mondiale effettiva in grado di prolungare la propria egemonia – vista la disastrosa situazione sanitaria e la catastrofica situazione sociale – diventano aspetti imprescindibili la rendita di posizione del dollaro e gli interessi della grande finanza, la capacità di tenuta della propria macchina militare e della propria industria bellica, oltre che della lobby energetica.
Armi, dollaro e petrolio, prima di tutto. Poi, certo, ci sono alcune risorse strategiche come i “metalli rari” e settori di punta, come l’industria aerospaziale o l’alta tecnologia, che sono aspetti rilevanti della competizione globale in cui gli USA “non possono” essere secondi a nessuno, se vogliono restare egemoni.
Rispetto a Trump, Biden probabilmente avrà un approccio più classicamente “multilaterale”, rientrando nel consesso internazionale; promuoverà una politica di maggiore cooperazione tra le due sponde dell’Atlantico, ma sotto l’egida della NATO; userà toni meno rozzi e bellicosi, ma non cambierà il registro dei rapporti con la Repubblica Popolare, riarticolando la politica dell’era Obama – in cui è stato vice-presidente – del Pivot to Asia in una versione più aggressiva, considerando il livello di inasprimento dello scontro tra blocchi.
Lo scontro si inasprisce perché le contraddizioni si approfondiscono. Non è una questione ideologica, ma uno scontro di interessi che si veste anche di ideologia.
Nel contributo che abbiamo tradotto appare chiara l’attivazione di un consolidato circolo vizioso sistemico, in cui tutti gli attori concorrono alla legittimazione di un clima da nuova guerra fredda nei confronti della Cina.
«In primo luogo, esperti di sicurezza “indipendenti” come ASPI, finanziati dai governi occidentali e dalle loro industrie di armi, forniscono prove “inconfutabili” della cosiddetta minaccia cinese. In una seconda fase questi rapporti vengono raccolti, citati e amplificati dai media privati e poi assorbiti dal grande pubblico. Successivamente le nazioni occidentali e i loro alleati citano questi rapporti sulla “minaccia cinese” per giustificare le proprie ambizioni geopolitiche e l’aggressione militare nei confronti della Cina.
Infine i dipartimenti della difesa assegnano contratti da miliardi di dollari ai produttori di armi per equipaggiare il cosiddetto “Pivot to Asia”; completano così il ciclo, riempiendo le tasche delle stesse corporazioni che finanziano i think tank con cui abbiamo iniziato».
Questo circolo può, anzi deve, essere interrotto con la puntuale decostruzione dell’informazione che contribuisce a creare un clima da nuova guerra fredda, e ci obbliga ad essere impietosi con chi se ne fa complice.
In questo particolare contesto, questa vera e propria propaganda di guerra ha una doppio finalità. Infatti, oltre a ciò che abbiamo preso in considerazione, la propaganda è una potente arma di distrazione di massa contro le contraddizioni reali che stanno investendo l’occidente capitalista e le pesanti responsabilità della classe politica. Una propaganda complementare allo “scontro di civiltà”, fomentato da alcune cancellerie europee contro il mondo mussulmano dopo gli omicidi a sfondo religioso avvenuti in Francia e in Austria.
I grandi gruppi nord-americani del settore delle armi sviluppano una potente opera di lobbismo tesa ad orientare le decisioni politiche complessive e a forgiare – attraverso i media – un’opinione pubblica che promuova la difesa dei propri obbiettivi economici, camuffandoli da necessità difensive generali.
Non sorprende che il lavoro di lobbismo del complesso militare-industriale venga camuffato da giornalismo d’inchiesta indipendente, come è ben descritto nell’articolo che di seguito abbiamo tradotto.
È chiaro che per fare questo bisogna identificare un nemico che costituisca una minaccia vitale all’american way of life, e far sì che questa minaccia venga percepita come “comune” da numerosi Paesi – in primis i propri alleati – verso cui si possano indirizzare i flussi d’esportazioni delle armi della propria industria bellica.
Senza capire la filiera produttiva bellica complessiva è difficile comprendere la catena di trasmissione della paura, che è il cuore della disinformazione strategica, leggermente più sofisticata della fake news che nutrono le differenti teorie “cospirazioniste”, bersaglio abituale della stampa sedicente liberal.
La politica estera statunitense è il risultato della sincronizzazione dell’agenda delle maggiori corporations – tra cui l’industria delle armi – gli orientamenti del Deep State e l’establishment politico al governo, all’interno di un orizzonte strategico comune. Il quale può avere variazioni tattiche a seconda dell’amministrazione, ma che deve riprodurre il dominio imperiale a stelle-e-strisce ed una adeguata governance delle contraddizioni sociali interne.
L’output sulle priorità geo-politiche è frutto del processo di allineamento nel bilanciamento degli interessi tra le differenti frazioni della borghesia USA.
In un contesto in cui gli USA non riescono più ad esercitare una leadership mondiale effettiva in grado di prolungare la propria egemonia – vista la disastrosa situazione sanitaria e la catastrofica situazione sociale – diventano aspetti imprescindibili la rendita di posizione del dollaro e gli interessi della grande finanza, la capacità di tenuta della propria macchina militare e della propria industria bellica, oltre che della lobby energetica.
Armi, dollaro e petrolio, prima di tutto. Poi, certo, ci sono alcune risorse strategiche come i “metalli rari” e settori di punta, come l’industria aerospaziale o l’alta tecnologia, che sono aspetti rilevanti della competizione globale in cui gli USA “non possono” essere secondi a nessuno, se vogliono restare egemoni.
Rispetto a Trump, Biden probabilmente avrà un approccio più classicamente “multilaterale”, rientrando nel consesso internazionale; promuoverà una politica di maggiore cooperazione tra le due sponde dell’Atlantico, ma sotto l’egida della NATO; userà toni meno rozzi e bellicosi, ma non cambierà il registro dei rapporti con la Repubblica Popolare, riarticolando la politica dell’era Obama – in cui è stato vice-presidente – del Pivot to Asia in una versione più aggressiva, considerando il livello di inasprimento dello scontro tra blocchi.
Lo scontro si inasprisce perché le contraddizioni si approfondiscono. Non è una questione ideologica, ma uno scontro di interessi che si veste anche di ideologia.
Nel contributo che abbiamo tradotto appare chiara l’attivazione di un consolidato circolo vizioso sistemico, in cui tutti gli attori concorrono alla legittimazione di un clima da nuova guerra fredda nei confronti della Cina.
«In primo luogo, esperti di sicurezza “indipendenti” come ASPI, finanziati dai governi occidentali e dalle loro industrie di armi, forniscono prove “inconfutabili” della cosiddetta minaccia cinese. In una seconda fase questi rapporti vengono raccolti, citati e amplificati dai media privati e poi assorbiti dal grande pubblico. Successivamente le nazioni occidentali e i loro alleati citano questi rapporti sulla “minaccia cinese” per giustificare le proprie ambizioni geopolitiche e l’aggressione militare nei confronti della Cina.
Infine i dipartimenti della difesa assegnano contratti da miliardi di dollari ai produttori di armi per equipaggiare il cosiddetto “Pivot to Asia”; completano così il ciclo, riempiendo le tasche delle stesse corporazioni che finanziano i think tank con cui abbiamo iniziato».
Questo circolo può, anzi deve, essere interrotto con la puntuale decostruzione dell’informazione che contribuisce a creare un clima da nuova guerra fredda, e ci obbliga ad essere impietosi con chi se ne fa complice.
In questo particolare contesto, questa vera e propria propaganda di guerra ha una doppio finalità. Infatti, oltre a ciò che abbiamo preso in considerazione, la propaganda è una potente arma di distrazione di massa contro le contraddizioni reali che stanno investendo l’occidente capitalista e le pesanti responsabilità della classe politica. Una propaganda complementare allo “scontro di civiltà”, fomentato da alcune cancellerie europee contro il mondo mussulmano dopo gli omicidi a sfondo religioso avvenuti in Francia e in Austria.
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Sinofobia Inc. Capire il complesso industriale anti-Cinese
Sinofobia Inc. Capire il complesso industriale anti-Cinese
L’alleanza tra gli Stati Uniti e la Cina è arrivata ad un punto critico e sta venendo messa in seria discussione. Negli ultimi mesi il governo Trump ha intrapreso misure senza precedenti che hanno portato allo stravolgimento delle relazioni con la Cina: ha sanzionato i funzionari del Partito Comunista Cinese, imposto divieti alle società tecnologiche cinesi TikTok e Huawei, sottoposto a interrogatori e posto sotto sorveglianza studenti e scienziati cinesi, arrivando persino alla chiusura del consolato cinese di Houston.
Il segretario di Stato Mike Pompeo definisce questa fase storica come “la fine di un impegno acritico” con uno Stato che ritiene essere una minaccia esistenziale per il “mondo libero”.
Gli altri membri dell’alleanza di intelligence denominata “Five Eyes”, Canada, Nuova Zelanda e Regno Unito, stanno gradualmente cedendo alle pressioni degli Stati Uniti per adottare misure simili alle loro per isolare la Cina. Anche se poi Australia e Nuova Zelanda contraddicono questo impegno firmando – come hanno appena fatto – il più grande trattato economica tra i principali paesi dell’Asia. E senza gli Usa.
La dottrina politica occidentale dello “scontro tra poteri in competizione” non è stata accompagnata da un dibattito pubblico all’altezza. Al contrario, la retorica spaccona di Stato arriva insieme al crollo dell’opinione pubblica sulla Cina, oggi ai minimi storici grazie anche al martellamento mediatico di stampo razzista che ha incolpato la Cina per la diffusione del Coronavirus.
Per gli Stati Uniti e le altre nazioni occidentali, alle prese con un’enorme crisi economica e sanitaria causata dall’emergenza Covid, con la disoccupazione, con la stagnazione salariale e con il razzismo sistemico, la cosiddetta “minaccia cinese” dovrebbe essere l’ultima delle preoccupazioni. Dopotutto, la Cina ha ripetutamente chiarito che vuole instaurare e consolidare relazioni pacifiche con gli Stati Uniti e il principio di “una comunità al lavoro per un futuro migliore per l’umanità” è sancito nello Statuto del Partito Comunista.
Non prendiamoci in giro: la tanto paventata “Nuova Guerra Fredda” è un’escalation unilaterale verso il conflitto guidata dagli Stati Uniti e dai loro alleati.
Dietro le spacconate del Dipartimento di Stato americano e il “Pivot to Asia” militaristico c’è una macchina ben oliata che lavora per produrre il consenso verso la guerra alla Cina. Troppo spesso le posizioni politiche vengono prese come verità oggettive piuttosto che come propaganda a favore della guerra; propaganda che opera nell’interesse della lobby delle armi e delle élite politiche.
La chiameremo Sinophobia Inc., una fabbrica della (dis)informazione in cui gli stati occidentali, i produttori di armi miliardari e i think tank di destra si uniscono e operano in sincronia per inondare i media con messaggi che mirano a orientare l’opinione pubblica verso l’idea che la Cina sia il nemico pubblico numero uno. Lo stesso ecosistema mediatico che ha oliato gli ingranaggi del consenso della guerra in favore di un disastroso intervento in Medio Oriente è ora impegnato a creare una opinione pubblica favorevole al conflitto con la Cina.
Riempiendo i feed di notizie con messaggi apertamente anti-cinesi, questa macchina mediatica sta cercando di convincere le persone comuni che una Nuova Guerra Fredda sia nel loro interesse. In realtà, il clamore di una immaginaria “minaccia cinese” serve solo a ingrassare le élite politiche e i pezzi grossi dell’industria della difesa che trarrebbero grande profitto da una disastrosa escalation geopolitica.
Chi è chi in Sinophobia Inc.
Per scongiurare una Nuova Guerra Fredda in Cina è necessario sviluppare un approccio critico alla cultura mediatica, con cui guardare alla macchina mediatica imperialista. Uno sguardo attento noterà che i think tank, opinionisti ed “esperti di sicurezza” che compaiono nei media quando si parla di Cina sono sempre gli stessi. Inoltre, questi esperti “indipendenti” hanno legami espliciti con l’industria delle armi e i dipartimenti statali degli Stati Uniti e dei suoi alleati.
Uno degli attori in gioco è l’Australian Strategic Policy (ASPI), ritenuto il think tank responsabile della percezione ambigua della Cina che si ha in Australia e denunciato dai politici australiani progressisti. Pur avendo una visione dichiaratamente di destra, ASPI riempie di fake news i media occidentali di tutto lo spettro politico, da Breitbart a Fox News alla CNN al New York Times. L’ampia legittimazione di think tank come ASPI è uno dei fattori alla base dell’attuale propensione bipartisan all’aggressione imperialista alla Cina.
Tra gli argomenti che ASPI utilizza a sostegno della richiesta di rafforzamento militare nei confronti della Cina, figurano la difesa nazionale, la sicurezza informatica e le accuse di violazione dei diritti umani. ASPI e il suo staff sono arrivati a chiedere restrizioni sui visti per studenti e scienziati cinesi, affermando che questi scambi sarebbero parte di un programma segreto cinese per la costruzione di armi biologiche e hanno affermato che la Cina starebbe sfruttando l’Antartide per scopi militari.
Non importa quanto oltraggiose siano le accuse, le illazioni di ASPI trovano sempre terreno fertile in un ecosistema mediatico affamato di polemiche e un clima geopolitico che si avvicina di giorno in giorno all’aggressione militare contro la Cina.
Che è esattamente ciò per cui sta spingendo ASPI, il cui direttore esecutivo Peter Jennings parla baldanzosamente di sé come un “cowboy della sicurezza nazionale”, dicendo che “l’Australia ha bisogno di più cowboy e meno kowtow (forma di riverenza tipica del popolo cinese. NDT)”.
In un momento storico in cui il premier australiano Scott Morrison ha alzato i fondi per la difesa ad un livello inedito, Jennings alza il tiro chiedendo investimenti ancora più alti, scrivendo “se stiamo andando verso una guerra, il denaro va fatto fluire”.
Questo atteggiamento belligerante di ASPI si spiega facilmente dando un’occhiata ai dati finanziari della società: nonostante venga citato come un “esperto apartitico” su tutto ciò che riguarda la Cina, quando si parla di conflitti militari, ASPI ha più di un interesse in ballo.
Come molti dei più grandi attori di Sinophobia Inc, ASPI riceve infatti importanti sovvenzioni dalle forze armate australiane e dai produttori di armi statunitensi come Lockheed Martin e Raytheon.
Nell’anno fiscale 2019-2020, ASPI ha ricevuto il 69% dei suoi finanziamenti, oltre 7 milioni di dollari australiani, dal dipartimento della difesa australiano e dal governo federale. Altri 1,89 milioni di dollari australiani provenivano da agenzie governative d’oltremare, comprese le ambasciate di Israele e Giappone, il Dipartimento della difesa degli Stati Uniti e il Centro comunicazioni strategiche della NATO.
Un altro milione di dollari australiani proveniva appunto dal settore privato della vendita di armi, tra cui figurano Lockheed Martin ($ 25.000 per una “sponsorizzazione strategica”) e Northrop Grumman ($ 67.500 per una “sponsorizzazione ASPI”). Gli stessi governi che spingono l’aggressione geopolitica alla Cina sono quindi tra i principali finanziatori di ASPI, che tutto è fuorché un contrappeso apartitico alle agende politiche imperialiste.
E c’è di più. Nel 2016 il dipartimento della difesa australiano ha assegnato a Lockheed Martin un contratto di “integrazione di sistemi di combattimento” da 1,4 miliardi di dollari australiani come parte del suo programma Future Submarines per “resistere” all’aggressione cinese.
Nell’ambito dello stesso programma, l’appaltatore della difesa Naval Group, che ha contribuito con una “sponsorizzazione ASPI” di 16.666,68 dollari nel 2019-2020, si è aggiudicato un contratto da 605 milioni di dollari per la progettazione di sottomarini.
Per questi soggetti il potenziale profitto derivante dall’alimentazione del conflitto militare con la Cina è enorme. Sotto l’ombrello del “Pivot to Asia”, gli Stati Uniti hanno aumentato le esportazioni di armi ad alleati come Giappone e Australia, facendole passare come parte di una nuova dottrina di contenimento anti-cinese.
Dalle esportazioni di armi per un totale di 7,8 miliardi di dollari in Australia e 6,28 miliardi di dollari in Corea del Sud solo tra il 2014 e il 2018, all’allentamento delle normative che regolano le esportazioni di droni militari in India, questi accordi gonfiati sono una vera fortuna per i produttori di armi statunitensi.
Ogni rapporto allarmistico circa un’ipotetica “minaccia cinese” contribuisce al raggiungimento di un obiettivo non più dissimulabile: più navi da guerra nel Mar Cinese Meridionale, più aerei da ricognizione inviati nello spazio aereo cinese e più stazioni missilistiche nei territori degli alleati degli Stati Uniti e in Asia.
Una nuova guerra fredda in Cina significherebbe miliardi di profitti per i produttori di armi statunitensi, che infatti finanziano silenziosamente la “ricerca” di ASPI, atta a fornire argomenti a sostegno del rafforzamento del contingente militare americano contro la Cina.
Uno stato di guerra perpetuo
Avendo bene in mente la convergenza di interessi dei media corporativi, dei produttori di armi e del Dipartimento di Stato nel produrre il consenso nei confronti delle disastrose guerre in Iraq e Afghanistan, dovremmo essere in grado oggi di riconoscerne il pattern: in primo luogo, esperti di sicurezza “indipendenti” come ASPI, finanziati dai governi occidentali e dalle loro industrie di armi, forniscono prove “inconfutabili” della cosiddetta minaccia cinese.
In una seconda fase questi rapporti vengono raccolti, citati e amplificati dai media privati e poi assorbiti dal grande pubblico. Successivamente le nazioni occidentali e i loro alleati citano questi rapporti sulla “minaccia cinese” per giustificare le proprie ambizioni geopolitiche e l’aggressione militare nei confronti della Cina.
Infine i dipartimenti della difesa assegnano contratti da miliardi di dollari ai produttori di armi per equipaggiare il cosiddetto “Pivot to Asia”, completando così il ciclo riempiendo le tasche delle stesse corporazioni che finanziano i think tank con cui abbiamo iniziato.
Ovviamente, l’ASPI è solo uno dei tanti pezzi grossi di questa catena di produzione dl sentimento anti-cinese. Enti come il Center for Strategic & International Studies e il Council and Foreign Relations sono ugualmente prezzolati dai succitati finanziatori dell’industria militare e statale.
Il Center for Strategic & International Studies è stato descritto come uno dei think tank più influenti al mondo. I drammatici rapporti diramati sulle operazioni militari cinesi e sulle campagne propagandistiche di “influenza straniera” ottengono titoli su Forbes, New York Times e persino su organi di stampa di sinistra come Politico.
Bonnie Glaser, direttrice del “China Power Project” del CSIS, è una commentatrice particolarmente quotata. Ha demonizzato i sussidi cinesi all’industria nazionale, ha definito la Belt and Road Initiative un “piano per portare i paesi nell’orbita cinese” e "rafforzarne l’autoritarismo” e ha definito “molte delle cose che l’amministrazione Trump ha fatto per evidenziare la minaccia cinese ... corrette”.
Chiaramente in nessuno di questi articoli, interviste e citazioni sui media si menziona il fatto che CSIS conti tra i suoi finanziatori Northrop Grumman (contributo annuale di $ 500.000), Boeing, General Atomics, Lockheed Martin ($ 200.000- $ 499.999 contributo annuale) e Raytheon (contributo annuale da $ 100.000 a $ 199.999).
Oltre che accettare i copiosi finanziamenti dell’industria militare, il CSIS ha tenuto riunioni a porte chiuse con i lobbisti dell’industria delle armi e ha fatto pressioni per aumentare le esportazioni di droni da guerra prodotti dai colossi come General Atomics e Lockheed Martin.
Il grosso del danno tuttavia è fatto dai media generalisti, che invece di richiamare l’attenzione su questo conflitto di interessi, innalzano acriticamente questi think tank ad esperti di sicurezza apparentemente “imparziali”.
Solo alcune testate indipendenti si preoccupano di sottolineare questi interessi di “terze parti” nell’aprire la strada alla guerra perpetua; secondo i media mainstream, non c’è conflitto di interessi: solo un conflitto in sospeso con la Cina per cui raccogliere sostegno.
Una porta girevole bipartisan
Il rapporto incestuoso tra il Pentagono, i think tank sulla sicurezza e il settore privato delle armi va ben oltre la questione delle mazzette. Diplomatici di alto livello si spostano frequentemente avanti e indietro tra gli incarichi nel dipartimento della difesa e i consigli di amministrazione di società di armi e istituti politici, esercitando la loro influenza per aiutare le società di armi a rastrellare denaro federale.
La porta girevole tra i comparti militare e industriale oltrepassa i confini partitici. Prendiamo Randall Schriver, scelto da Steve Bannon per fare da assistente segretario alla difesa dell’amministrazione Trump per gli affari di sicurezza dell’Asia e del Pacifico.
Schriver è il presidente e fondatore del Project 2049 Institute, un think tank sulla sicurezza finanziato da giganti delle armi come Lockheed Martin e General Atomics ed entità governative tra cui il Ministero della Difesa Nazionale di Taiwan e il National Endowment for Democracy.
Com’era prevedibile, sotto la guida di Schriver, il Progetto 2049 ha richiesto un aumento delle vendite di armi a Giappone e Taiwan mentre lanciava l’allarme sulla presunta minaccia di una imminente ”invasione lampo” di Taiwan o di una guerra con il Giappone.
Per non essere da meno, i veterani della politica estera dell’amministrazione Obama si sono arricchiti formando “società di consulenza strategica” che sfruttano la loro condizione di insider per favorire le società di armi nelle gare per i contratti federali.
Michèle Flournoy, tra i papabili per il ruolo di segretario alla difesa di un’ipotetica amministrazione Biden, è stata sottosegretario alla difesa per le politiche dal 2009 al 2012 ed è stata fondatrice del gruppo di consulenti di geopolitica aziendale WestExec Advisors e co-fondatrice del Center for a New American Security, un think tank che diffonde notizie sulla cosiddetta “minaccia della Corea del Nord” con i finanziamenti dei soliti noti statali e dell’industria militare.
La presenza di un personaggio come Flournoy in una posizione istituzionale così importante lascia intendere chiaramente che un’amministrazione Biden non porterebbe nulla di nuovo nel panorama politico internazionale, con un ulteriore incremento di contratti sospetti con i vecchi amici nel settore della sicurezza.
Nemico pubblico numero uno
Gli ingranaggi di questa macchina della (dis)informazione hanno fatto sì che il dibattito sulla Cina fosse quasi inesistente: l’atteggiamento anti-cinese è diventato una questione non solo scontata ma determinante nelle elezioni presidenziali di novembre.
Non c’è effettivamente alcuna distinzione politica tra gli approcci adottati da Biden e Trump: solo una competizione retorica che si gioca in discorsi e grandi proclami per dimostrare chi sarà davvero “più duro con la Cina”.
La porta girevole di Sinophobia Inc. assicura che non importa chi tra repubblicani o democratici uscirà vincitore dalle elezioni di novembre, i contratti attorno all’industria delle armi continueranno a scendere a pioggia.
Nonostante il martellamento mediatico incessante circa l’incombente minaccia di aggressione cinese, la Cina ha chiarito esplicitamente che non vuole conflitti di nessun tipo con gli Stati Uniti, figuriamoci una guerra vera e propria.
Negli incontri di agosto con l’Unione Europea, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha chiesto una rinnovata cooperazione, proclamando che “una guerra fredda sarebbe un drammatico passo indietro”.
Laddove gli Stati Uniti perseguono unilateralmente con le sanzioni economiche e la minaccia di un intervento militare per raggiungere i loro scopi, la Cina ha investito in organizzazioni internazionali, ha finanziato l’Organizzazione mondiale della sanità abbandonata invece dagli Stati Uniti, ha promosso attivamente aiuti per la pandemia, come lo sviluppo di vaccini cooperativi, e ha aiutato le nazioni che soffrono per le sanzioni statunitensi a combattere il Covid.
Non c’è quindi nessuna escalation reciproca o rivalità interimperiale. L’aggressione nella forma dell’aumento dei contingenti militari, nella propaganda e nelle sanzioni economiche è una spinta unilaterale verso il conflitto, nonostante i ripetuti appelli della Cina al rispetto reciproco, alla cooperazione vantaggiosa per tutti e all’impegno continuo.
Le élite politiche statunitensi alimentano la sinofobia per distrarre dai fallimenti del capitalismo, del neoliberismo e di un imperialismo violento degli Stati Uniti che investe più nell’industria della guerra che nell’assistenza sanitaria di base o nelle infrastrutture per il popolo americano. Questo è ciò che rende Sinophobia Inc. così efficace: il malcontento di massa fomentato da una pandemia ancora all’apice, l’aumento della disoccupazione e l’ansia americana per il futuro possono essere messi in secondi piano dalla “vera” minaccia: la Cina.
Funziona: il 78% degli americani incolpa la Cina per la diffusione del Covid, anziché la stessa amministrazione Trump per la gestione della pandemia. E dunque il Congresso ha stanziato un budget record per la difesa per il 2021 mentre rifiuta di approvare aiuti per pandemia, moratorie di sfratto o altre protezioni per i lavoratori americani.
Mentre Sinophobia Inc. ci avvicina ogni giorno alla guerra con la Cina, spetta a tutti noi bloccare gli ingranaggi di questa macchina. Ciò significa che è necessario guardare con occhio critico e attento verso l’apparato dell’informazione, impegnato a produrre il consenso verso una guerra che servirà solo ai profitti dell’impero americano e alle corporazioni ad esso affiliate.
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