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01/01/2021

Riaprire la storia

Segnalare la conclusione di questo 2020 non può semplicemente significare un atto dovuto, di consuetudinaria “routine”.

Questa volta registrare “l’inedito” si è rivelata un’espressione concreta e definire il futuro “incerto” la sola possibilità che ci rimane.

Nell’improvvisa emergenzialità di questi giorni si stenta a trovare il bandolo della matassa di una riflessione che consenta di interpretare al meglio i comportamenti politici e quelli sociali.

Si sta rischiando di smarrire il senso delle proporzioni sul piano dell’assunzione di responsabilità in pubblico e nel privato.

Soprattutto è emersa con grande chiarezza la strutturalità di un peso sproporzionato della comunicazione di massa sugli orientamenti sociali: un frutto immediato questo del fenomeno dell’analfabetismo di ritorno e della chiusura soggettiva nel recinto della “paura”.

“Paura” tanto solleticata e accarezzata al fine di mortificare la democrazia.

Si sta presentando il conto dell’avere delegato alla comunicazione la tessitura necessariamente faticosa della trama di relazione tra istituzioni e società.

In questo modo si sono sovrapposte le esigenze di esprimere sottovalutazione o allarmismo e, ancora una volta, le volontà di propaganda del mercato (finanziario, della “reclame” politica, della vendita di illusione mediatica, del mantenimento dei livelli dettati dal consumismo in tutti i suoi aspetti) hanno finito con il prevalere sull’analisi possibile della ricerca di una “razionalità dell’essere”.

Ci troviamo davanti a una vera e propria “distorsione della conoscenza” collegata all’imposizione di mantenere un modello di società profondamente ingiusto e sbagliato.

La necessità più urgente è allora quella di riaprire il conflitto per una “riapertura della storia”.

Oggi viviamo in una società sfibrata dall’individualismo.

Una società in confusione nella conoscenza e anche nella morale, che non riconosce più i soggetti capaci di costruire il senso di comunità nell’insieme dei rapporti sociali.

A questo modo si determina una debolezza congenita nei livelli di decisionalità politica laddove il “popolo” tanto invocato non comprende più la differenza reale tra i diritti e i bisogni e si trasforma esso stesso nell’agente del caos: non è questione di decisionismo, ma di diffusione culturale e di visione del futuro.

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