La settimana passata ha chiarito il livello delle contraddizioni che gli USA stanno affrontando al proprio interno. L’assalto a Capitol Hill ne è stata la rappresentazione plastica, quella che squarcia il velo di ipocrisia sul livello di implosione cui è giunta l’american way of life.
Perdura e si amplia, in sostanza, quell’inedito clima da guerra civile che aveva caratterizzato il processo elettorale in autunno e che ha proiettato il Paese in una instabilità permanente.
Basterebbero due dati – uno sulla crisi sanitaria e su quella sociale – per capire l’abisso in cui sono precipitati gli Stati Uniti.
Giovedì 7 febbraio sono morte a causa del Covid 4.033 persone, un nuovo record dopo i 3.903 decessi del 30 dicembre scorso.
Due giorni dopo i nuovi contagi in una sola giornata superavano i 250.000, con almeno 3.261 morti, e più di 130.000 ricoverati.
In dicembre si sono persi altri 140.000 posti di lavoro netti, ma le varie figure della disoccupazione (“in cerca di occupazione” o “inattivi”) sono oltre 110 milioni.
Si possono fare tutte le congetture sul perché gli eventi del 6 febbraio abbiano preso quella piega – ipotesi che spaziano da un colpo di stato abortito di Trump ad un operazione “false flag” per defenestrarlo in fretta dalla stanza dei bottoni – ma l’utilizzo delle milizie dell’alt-right da parte del presidente uscente è un fatto che ha caratterizzato l’ultimo periodo della sua amministrazione, in particolare dallo scoppio della pandemia.
Queste non sono che lo zoccolo duro di una parte consistente dell’elettorato statunitense, solo sette milioni in meno di quelli che hanno votato contro Trump, più che per Biden.
La minoranza attiva di una porzione ben più ampia, considerato che secondo numerosi sondaggi – come riporta l’articolo di Edward Luce, che abbiamo qui tradotto – “tra il 70 e l’80 percento degli elettori repubblicani crede che le elezioni siano state truccate”.
Il fatto nuovo è l’aver cercato di colpire con “mezzi di fortuna” il centro del potere politico, una tappa importante in un processo di trasformazione della galassia della destra radicale statunitense, che da “scheggia impazzita” di un sistema in crisi si è trasformata in “scheggia appuntita”, organica ad uno scontro tra porzioni dell’establishment che – anche obtorto collo – non sembrano aver ancora raggiunto quel compromesso cui erano approdate dalla fine della guerra civile (nel 1865) in poi.
A volere fare “i raffinati”, quella tra Confederati ed Unionisti sarebbe stata in realtà la “seconda guerra civile”, tenendo contro che la guerra di indipendenza dalla Gran Bretagna di fine Settecento fu innanzitutto uno scontro fratricida tra nordamericani.
La sostanza della violenza simbolica degli eventi del 6 gennaio è certamente un “salto di qualità”, ma ben poca cosa rispetto a quella delle continue stragi commesse dai suprematisti bianchi, a cominciare dal maggiore attentato terroristico sul suolo statunitense (prima dell’attacco alle Torri Gemelle, 11/09/2001), e cioè la strage di Oklahoma City dell’Aprile del 1995, in cui perirono 168 persone e ne vennero ferite quasi 700.
Circa un ventennio fa, con Raccolti di rabbia, Joel Dyer scrisse un libro quasi profetico.
Partendo dalla storia dei “Patriots” responsabili di vari attacchi terroristi, tra cui quello di Oklahoma, Dyer indagava sulla serpe in seno che stava crescendo sullo sfondo di un crescente disperazione nelle zone maggiormente colpite dalle deindustrializzazione – la rust belt – e dalla crisi dell’America rurale.
Dieci anni dopo circa Alessandro Portelli, con America Profonda, ripercorrendo due secoli di quello che era stato spesso uno dei bastioni del movimento operaio americano nei Monti Appalachi, ci mostrava la disperazione che animava allora quella stessa comunità.
Ora una parte del Partito Repubblicano è il rappresentante di quella rabbia, cui ha dato “una speranza”, facendo apparire come un relitto politico l’ex candidato presidente e senatore dello Utah, Mitt Romney, che guida da tempo l’opposizione repubblicana a Trump.
E la censura delle Big Tech nei confronti del presidente uscente, certo un handicap evidente per la sua possibilità di comunicare, bypassando i media mainstream, non fa che rafforzare tra i suoi supporter l’immagine di uomo “inviso al sistema”, e potrebbe dunque dimostrarsi un caso da manuale di eterogenesi dei fini.
Le convulsioni del sistema politico statunitense e dei due tradizionali partiti che l’hanno guidato erano emerse con forza già nel corso delle elezioni precedenti, con la vittoria alle primarie repubblicane di Trump e la sfida, poi reiterata anche nella sconfitta, di Bernie Sanders all’establishment democratico.
I due “outsider” uguali e contrari rappresentavano, e tutt’ora rappresentano, gli esclusi dal sogno americano; un sogno che in fin dei conti entrambi vorrebbero ripristinare; uno più simile ad una pellicola di John Wayne, l’altro ad un documentario sul New Deal.
Quello che è certo, è che la scorsa settimana ha preso forma il peso e profilo della leadership politica che guiderà il Paese fino alle prossime elezioni di mid-term, con Biden che avrà la maggioranza al Congresso e al Senato, mentre si troverà in minoranza (3 giudici contro 6) nella Corte Suprema.
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Le elezioni in Georgia
Martedì 5 gennaio si è votato in Georgia per eleggere i due rappresentanti “mancanti” del Senato statunitense.
Negli Stati Uniti ogni Stato, al di là della sua composizione demografica, esprime due eletti che andranno al Senato, composto da 100 membri; mentre il numero di deputati eletti alla Camera per ogni Stato dell’Unione è proporzionale alla grandezza della sua popolazione.
Chi ottiene più voti in uno Stato vince secondo il principio di "chi vince prende tutto" mandando alla Camera Bassa o tutti i deputati repubblicani, o tutti quelli democratici.
Possono votare coloro che si sono precedentemente iscritti alle liste elettorali dello Stato, e lo scorso anno una porzione significativa dell’elettorato ha scelto di esprimere il proprio voto non recandosi direttamente alle urne durante l’election day, ma prima, o votando precedentemente per corrispondenza.
Un dato, quello del voto postale, che ha modalità differenti a seconda dei singoli stati in un quadro piuttosto frammentario, e che è stato confermato in Georgia dove più di tre milioni di elettori, cioè circa il 40% degli iscritti alle liste elettorali, ha votato “via lettera”.
Sono state le condizioni legate alla pandemia a consigliare questa modalità prediletta dagli elettori democratici, considerato che in Georgia ci sono Stati più di 680 mila contagi, e quasi 11 mila morti.
Solo il 5 gennaio, ci sono stati circa 10 mila nuovi casi al giorno di Covid-19 e 100 decessi, con più più di 5.600 persone ricoverate in ospedale. Dati in notevole aumento, riguardo ai contagiati e a ricoverati, rispetto a 14 giorni fa e che riflettono più o meno la tendenza complessiva degli Stati Uniti.
Un altro aspetto già rilevato in novembre è stata l’alta affluenza complessiva dei votanti.
In Georgia era stata preceduta da una campagna di iscrizione alle liste elettorali rivolta all’elettorato afro-americano, il New Georgia Project, creata da Stacey Abrams nella sua sfida fallita alla carica da governatore nel 2018.
Secondo il Center for Responsive Politics, nella campagna elettorale sono stati spesi 832 milioni di dollari, un dato che da solo certifica l’importanza dell’appuntamento e la sua rilevanza nazionale.
Chi ha votato in Georgia, secondo i sondaggi, l’ha fatto prevalentemente perché l’esito avrebbe determinato il controllo del Senato.
Proprio mercoledì, il Congresso statunitense si era riunito prima dell’irruzione a Capitol Hill per sancire formalmente il voto dei Grandi Elettori nei confronti di Joe Biden, che il 20 gennaio assumerà l’incarico ufficiale divenendo il 46° presidente degli Stati Uniti.
Già da lunedì i sostenitori di Trump si stavano radunando a Washington per protestare contro il “furto elettorale” e chiedono che il collegio elettorale rigetti la vittoria di Biden.
Nelle elezioni presidenziali di novembre Joe Biden aveva battuto “di un soffio” Trump in Georgia – uno degli swing state dove si giocavano le elezioni – ottenendo poco di più di 10 mila voti in più (11.779) dello sfidante, che ha continuato comunque a contestare l’esito elettorale e a bacchettare chi, all’interno delle file repubblicane, non lo segue in questa sua nuova crociata.
Un risultato inaspettato, quello di novembre, considerato che era dal 1992 che lo Stato – un tradizionale bastione del Gran Old Party – non votava per un presidente democratico,
I risultati del voto di martedì sembrano confermare il fatto che la Georgia sia diventata uno stato “viola”, cioè una miscellanea tra democratici e repubblicani, come ha affermato la senatrice democratica Claire McCaskill, conseguenza di un cambiamento demografico che sta mutando gli equilibri elettorali, rilevabile anche in altri Stati.
Nelle prime ore di mercoledì – alle 2:15 del mattino – 6 gennaio infatti l’agenzia Associated Press annuncia che il candidato democratico – il pastore afro-americano di Atlanta dell’ala progressista del Partito – Raphael Warnock aveva vinto contro la sfidante repubblicana Kerry Loeffler, con un margine di 46.500 voti, destinato a crescere nel successivo conteggio dei voti, considerato che sia i voti per corrispondenza sia quelli nelle urne, da conteggiare, riguardavano contee a maggioranza democratica.
Alla stessa ora, l’altro sfidante democratico Ossoff era in testa con un margine dello 0,2%, cioè 9.527 voti su 4 milioni e 400 mila, non ancora sufficienti per assicurargli la vittoria che verrà poi dichiarata nel pomeriggio.
Una situazione in parte quindi simile, per il giovane esponente dell’ala moderata dei democratici Ossoff, a quel pastore afro-americano eletto – l’11simo senatore “di colore” eletto nella Storia degli Stati Uniti ed il secondo del Sud – considerato che le schede da sfogliare provengono prevalentemente dal voto postale (modalità prediletta dai democratici) e da contee tradizionalmente “blu”.
Così con il 98% dei voti scrutinati, Warnock risultava vincitore con il 50,6% e Loeffler sconfitta con il 49,4%, mentre con la stessa proporzione di schede sfogliate Ossof è in testa di stretta misura con il 50,19% con circa 16 mila voti in più, a quanto riportava il New York Times.
Un dato da tenere in mente, quando si pensa a ciò che è successo a Capitol Hill quando Trump, arringando migliaia di supporter radunati fuori dalla Casa Bianca ha sostenuto: “Non molleremo mai, non ci arrenderemo mai”, per poi affermare che dovrebbero “scendere a Capitol”, osservando che “non ci si può riprendere il proprio paese con la debolezza”.
Ciò che appare chiaro dalla prime analisi è la contrazione del voto repubblicano nei suburbs e probabilmente una narrazione repubblicana che ha in parte mollato la presa sui temi che ne avevano assicurato la vittoria nello Stato della Georgia quattro anni fa.
In un tweet Josh Holmes, stratega elettorale repubblicano ed ex capo dello staff del senatore capo repubblicano McCornell, è esplicito: “Periferia, amici miei, periferia. (...) Siamo passati dal parlare di lavoro e di economia alle cospirazioni elettorali di Qanon in 4 anni e, a quanto pare, stavano ascoltando!”
Un giudizio espresso a caldo su una sconfitta che contiene elementi di verità anche se bisogna ricordare – come fa il giornalista del Financial Times – che “a novembre Trump ha vinto in 2.547 contee. Le 509 in cui ha vinto Biden, però, rappresentano il 71% del PIL americano”, sottolieando la profonda spaccatura che abbiamo più volte messo in luce.
Trump non uscirà che momentaneamente di scena dopo il 20 gennaio, per ritornare probabilmente più forte di prima.
Il trumpismo è una corrente più longeva e profonda, che ha messo radici nel corpo del Grand Old Party e della sua ampliata base elettorale.
Il futuro dei conservatori statunitensi rimane quello di essere i più coerenti rappresentanti di quel risentimento anti-establishment che anima la working class bianca declinandolo in senso orgogliosamente anti-socialista, fatalmente destinato ad accrescersi se l’operato di Biden non porterà risposte efficaci alla catastrofe sanitaria e alla vulnerabilità sociale prodotti dal sistema statunitense, annichilendo così anche quelle aspettative riposte nella capacità dell’ala progressista – la cosiddetta squad – di influenzarne le scelte di fondo.
Poi, certamente, qualche transfugo repubblicano tra quelli che Timothy Snyder ha definito i “gamers” dei conservatori, potrà anche esserci nei giochi di cooptazione di chi sale sul carro del vincitore, ma difficilmente costituiranno un’alternativa politica a Trump e verranno trattati da “traditori” dalla loro base elettorale.
Per tornare alla citazione del film di Carpenter, Romero può continuare con il suo conto alla rovescia.
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Il Trumpismo sopravviverà a Trump?
Il Trumpismo sopravviverà a Trump?
Edward Luce
Con il presidente che ancora rivendica la non legittimità dell’elezione, il campo repubblicano del 2024 è ricco di contendenti pronti a raccogliere la sua eredità.
Appena dopo aver dichiarato che avrebbe contestato la vittoria di Joe Biden durante la certificazione del collegio elettorale, in Congresso, il prossimo mercoledì, il senatore repubblicano Josh Hawley ha avuto un bizzarro scambio di battute con Walmart.
Un dipendente del gigante della distribuzione ha commentato, dal profilo Twitter della compagnia, che Hawley – e di conseguenza Donald Trump – è un “pessimo perdente”. Il senatore del Missouri, il cui tentativo riuscirà al massimo a ritardare la certificazione di Biden di appena poche ore, ha risposto: “Grazie @Walmart per la tua boria oltraggiosa. Ora che hai insultato 75 milioni di americani, almeno ti scuserai per lo schiavismo che applichi?“
Solo un anno fa sarebbe stato difficile immaginare che un senatore repubblicano con esperienza, a parte Trump, potesse scagliarsi ferocemente contro una delle più grandi aziende americane – men che meno un brand mondiale posseduto da una famiglia dichiaratamente conservatrice. Ora dichiarazioni di questo genere sono quasi routine.
Subito dopo le elezioni presidenziali di novembre, Hawley ha dichiarato: “Siamo il partito della classe lavoratrice ora. È questo il futuro“. La prossima settimana proverà a reclamare il ruolo di erede politico di Trump contestando un’elezione che funzionari federali hanno definito la più giusta e libera della storia americana.
Non è chiaro quanti dei colleghi di Hawley lo seguiranno in questo gesto stravagante. Quella che dovrebbe essere una normalissima certificazione formale porrà un dilemma non da poco per altri pretendenti alle presidenziali, come Tom Cotton dell’Arkansas, Marco Rubio della Florida, e il texano Ted Cruz.
Anche il vice-presidente Mike Pence, che ambisce alle presidenziali del 2024, sarà combattuto. In quanto presidente del Senato, certificare la vittoria di Biden è suo compito costituzionale – compito che, ironia della sorte, quattro anni fa è stato adempiuto proprio dall’allora vice-presidente Biden.
Trump, che insiste che gli sia stata negata la vittoria da una vasta cospirazione globale, ha reso evidente che chiunque devierà dalla linea #NotMyPresident sarà considerato un traditore.
La domanda che dobbiamo porci è se il trumpismo riuscirà a sopravvivere a Trump, una volta che questo avrà lasciato la Casa Bianca e non sarà più al centro dell’attenzione.
“Allinearsi alla narrativa della 'elezione rubata’ nel prossimo futuro rappresenterà probabilmente la cartina tornasole per riconoscere i repubblicani più ambiziosi”, dice Mike Gallagher, deputato repubblicano del Wisconsin. “Ma col tempo potrebbe sbiadire“.
Pronto alla battaglia
Molto dipenderà da come si muoverà Trump, dopo che Biden avrà prestato giuramento il 20 di gennaio. Dopo che il Senato ha votato per esonerarlo, lo scorso febbraio, in seguito all’impeachment della Camera dei Deputati, Trump ha twittato: “Trump 2024!”.
Sembra convinto ad essere il primo presidente, da più di un secolo, a rifiutare di presentarsi all’inaugurazione del suo successore. Ci sono anche sospetti che annuncerà la sua candidatura durante un evento previsto per lo stesso giorno nel suo club di Mar-a-Lago in Florida.
La maggioranza del suo partito lo vuole ancora in politica. In un sondaggio di Morning Consult/Politico del mese scorso, il 53% degli elettori repubblicani ha selezionato Trump come prima scelta. Il secondo in classifica è Mike Pence, col 12%. Donald Trump Junior, figlio maggiore del presidente, è terzo. “Se Trump dovesse annunciare la candidatura per il 2024, sarebbe di gran lunga il favorito“, dice Gallagher.
Con ogni probabilità Trump sceglierà di rimanere pronto alla battaglia. “Uno dei tratti più distintivi di Trump è la sua tendenza a lasciar fantasticare la gente”, dice James Pinkerton, ex agente repubblicano che oggi scrive per Breitbart, sito di estrema destra. “Non ho idea di cosa farà Trump dopo il giuramento di Biden. Forse neanche lui lo sa. Lasciare la gente sulle spine è il modo migliore per massimizzare il suo vantaggio“.
È improbabile che Trump semplicemente esca di scena. Rimanere in ballo gli darebbe molti vantaggi collaterali, anche se non dovesse più ricandidarsi.
Da novembre, Trump ha raccolto oltre 200 milioni di dollari per il suo “fondo per la difesa elettorale“. Le clausole mostrano che i fondi raccolti possono essere usati per pagare spese non correlate, come le spese legali di Trump, i salari per i consiglieri, familiari inclusi, e costi dell’operazione politica. Può anche assicurarsi che Ronna McDaniel, sua fedelissima, rimanga alla presidenza del Republican National Committee.
“Trump ha più soldi del partito”, dice William Kristol, fondatore di Elettori Repubblicani Contro Trump, un gruppo di oppositori di Trump che ha supportato Biden. “Può ancora dettar legge“.
Trump si appresta anche ad affrontare una massa di battaglie legali, soprattutto a New York, che potrebbero comportare responsabilità sia civili che penali su tasse, frode bancaria e molestie sessuali. Se anche dovesse decidere di emettere preventivamente perdoni presidenziali per sè e la sua famiglia, nei suoi ultimi 20 giorni, questi coprirebbero solo reati federali.
Letitia James, procuratrice generale dello stato di New York, e Cyrus Vance Jr., procuratore distrettuale di Manhattan, sarebbero comunque in grado di sporgere denuncia contro Trump. Tutto ciò gli costerebbe un patrimonio in spese legali. Inoltre Trump dovrà affrontare altri debiti per più di 300 milioni di dollari nei prossimi quattro anni, secondo una inchiesta delle sue finanze da parte del New York Times.
Anche se vendesse alcuni dei suoi campi da golf – ipotesi discutibile visto il suo attaccamento allo status che rappresentano – la maggior parte di essi non sarebbero redditizi. Il clima pandemico non è ideale per il mercato immobiliare. La Trump Organization non è ancora riuscita a trovare acquirenti per il Trump International Hotel a Washington DC, messa in vendita l’anno scorso.
Si dice anche che Trump voglia condurre un programma televisivo, o anche che voglia lanciare un suo canale, in competizione con Fox News, che Trump ha inserito nella lista dei traditori – assieme a Mitt Romney, il senatore dello Utah, Chris Christie, ex governatore del New Jersey, e altri che hanno riconosciuto la vittoria di Biden. Tutto ciò suggerisce che voglia restare in politica.
“Il modo migliore per Trump di arricchirsi è restare in politica – è questo il suo business ora”, dice John Pitney, professore di politica del Claremont McKenna College, e esperto di campagne repubblicane. “Può anche chiedere soldi per assistere ai suoi comizi, il ché gli garantirebbe i fondi e il sollievo psicologico di cui necessita“.
Trumpiani fino al midollo
Esiste un partito repubblicano non trumpiano che lotta per affrancarsi? Le prove della sua esistenza sono vaghe. Un paio di governatori, Larry Hogan del Maryland, e Charlie Baker del Massachusetts, stanno provando a spingere per un conservatorismo più tradizionale, che stringa accordi bipartisan e onori il senso civico in politica. Entrambi, però, vengono da Stati democratici e hanno poca risonanza altrove.
La maggioranza dei pretendenti alla presidenza del 2024 stanno cercando di emulare Trump. In quanto pretendente accanitamente ambizioso, Marco Rubio rappresenta perfettamente la direzione del partito. Nel 2016 ha corso come “reformicon” – un conservatore riformista. È stato anche neoconservatore. Trump lo ha stracciato nelle elezioni del 2016, e da allora ha tentato di imitare il presidente.
La scorsa settimana ha attaccato Anthony Fauci, il principale esperto americano di malattie infettive, per aver consigliato l’uso delle mascherine. “A marzo Fauci ha mentito riguardo le mascherine”, ha twittato Rubio – riferendosi alle preoccupazioni di Fauci sulla scarsa distribuzione di mascherine ospedaliere al grande pubblico. “Molti nelle bolle delle élite credono che il pubblico americano non sappia cosa sia meglio per loro, e che quindi debba essere raggirato affinché faccia ‘la cosa giusta’“.
Altri pretendenti, incluso Hawley, Cotton, e Mike Pompeo, l’uscente segretario di stato, competono a chi imita meglio Trump nella propria retorica. Un indicatore importante è il loro uso della parola “élite”. Il fatto che Hawley abbia frequentato Stanford e Yale – dopo aver ricevuto un’educazione privata e aver insegnato alla scuola privata St Paul di Londra – non è un ostacolo.
Pompeo ha studiato legge ad Harvard, così come Cotton e Cruz, laureato a Princeton. Anche Ron De Santis, governatore della Florida e altro pretendente alle elezioni del 2024, è andato ad Harvard dopo la laurea a Yale. E così via.
Il campo del 2024 è già colmo di pretendenti che sperano di raccogliere l’eredità di Trump, ma non è chiaro quanto sarà apprezzato il trumpismo in assenza del protagonista.
“Questi tentativi di innestare una facciata intellettualoide al trumpismo sono troppo nevrotici per i miei gusti”, dice Gallagher. “Per la gente del mio distretto, il trumpismo è Trump – un dito medio allo status quo. Non credo si possa separare l’atto dall’autore“.
Eppure cambiando il nome in populismo nazionalista, o conservatorismo da classe operaia, si possono tracciare le radici del trumpismo a molto prima di Trump. Nel 1992 e 1996, Pat Buchanan, ex autore dei discorsi di Richard Nixon, ha brevemente riscontrato successo con i cosiddetti repubblicani “forcaioli” nelle primarie presidenziali. Nonostante abbia perso, stava anticipando i tempi.
Nel 2008, Sarah Palin, la candidata vice-presidente di John McCain, ha puntato sulla crescente base working class bianca, che in larga parte aveva votato per Bill Clinton durante la decade precedente. Trump ha solo spinto più a fondo in questa direzione. Più della metà degli elettori repubblicani, oggi, sono bianchi senza educazione universitaria. A novembre Trump ha vinto in 2547 contee. Le 509 in cui ha vinto Biden, però, rappresentano il 71% del PIL americano.
“Penso che sia corretto dire che questo trend non è iniziato con Trump e probabilmente non finirà con lui”, dice Russ Schriefer, un consulente repubblicano che ha lavorato per la campagna elettorale di Romney nel 2012 e per Geroge Bush senior e junior. “È improbabile che il partito repubblicano torni a come era una generazione fa“.
Ne consegue quindi che i repubblicani che vogliono superare Trump dovranno agire con astuzia e forse anche con l’inganno. Un po’ come Charles de Gaulle ha finto di essere dalla parte dei colonialisti francesi mentre si preparava a ritirarsi dall’Algeria, un repubblicano post Trump dovrà presentarsi come trumpiano per mantenere la base dalla propria.
Un paio di figure, Nikki Haley, ex governatrice del Sud Carolina e ambasciatrice di Trump alle Nazioni Unite, e Chris Christie, hanno suggerito che proveranno a muoversi in questo modo. Ma necessiteranno di grande acume politico per riuscire a rimanere al fianco di Trump. Secondo numerosi sondaggi, tra il 70 e l’80 percento degli elettori repubblicani crede che le elezioni siano state truccate. Contraddire la narrativa di Trump sarebbe un suicidio politico per qualsiasi aspirante alle elezioni del 2024.
“Se guardi a quanti personaggi stanno sgomitando – nella mia contea ce ne sono già 15 – il terreno sembra fertile”, dice Pinkerton. “Ma quasi nessuno di loro si candiderebbe apertamente se Trump dovesse essere ancora nella scena“.
Attenzione alla Georgia
Tutto ciò è un cattivo presagio per la speranza di Biden di ricreare un’atmosfera bipartisan a Washington. Il prossimo martedì, Biden scoprirà se i democratici riusciranno a ottenere il controllo del Senato, dopo il ballottaggio in Georgia per due posti da senatore. Di solito ci si aspetterebbe che rimangano ai repubblicani, ma avendo vinto con lieve distacco – il primo democratico a riuscirci dal 1992 – Biden può sperare in questa ulteriore vittoria.
Entrambi i candidati repubblicani, David Purdue e Kelly Loeffler, seguono la linea di Trump delle presidenziali truccate. La loro posizione rischia di confondere gli elettori repubblicani. Se il sistema è corrotto, perché disturbarsi a votare? Se non lo è, Trump ha quindi perso regolarmente? Che entrambi i candidati seguano lealmente una linea che potrebbe portarli a perdere è un indicatore della presa di Trump sul partito. Eppure l’alternativa – contraddire Trump e provocare la sua ira – sarebbe fatale.
Qualsiasi destino aspetti la Georgia il prossimo martedì, o in Congresso il prossimo mercoledì, Trump dovrà lasciare la Casa Bianca il 20 gennaio. Ma è improbabile che sarà anche il giorno in cui si ritirerà dalla politica. Mar-a-Lago potrebbe diventare il suo esilio presidenziale.
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