Autostrade torna allo Stato dopo 22 anni. Ma il passaggio avviene con le modalità di un crimine ai danni del paese e un regalo mostruoso a degli imprenditori privati che hanno lasciato andare in malora migliaia di chilometri di infrastrutture strategiche.
Il crollo del Ponte Morandi a Genova, ormai tre anni fa, ha certificato quel che ognuno già sapeva: i privati pensano solo a far soldi, nel modo più facile possibile, senza altri “inutili problemi” come la manutenzione di un bene che, nella proprietà, era rimasto pubblico.
È anche la dimostrazione del fallimento delle “privatizzazioni all’italiana”, più macabre e sguaiate delle media. Fatte, sembra assurdo ma è così, persino in contrasto con lo “spirito del capitalismo”.
Che senso ha, infatti, privatizzare la gestione di un monopolio naturale come le autostrade? Nessuno farà mai concorrenza costruendone un’altra su un percorso grosso modo parallelo. È solo un modo per garantire un business comodissimo a dei “prenditori” che si siedono al casello a riscuotere i pedaggi (cresciuti mostruosamente nel corso del tempo, fino a fare delle autostrade italiane le più costose d’Europa).
I ventidue anni trascorsi, insomma, hanno solo dimostrato quel che logica e storia avevano già anticipato.
Il crollo del Ponte Morandi e i 43 morti lì registrati hanno costretto tutti – la immonda classe politica e gli stessi Benetton – a “fare qualcosa” per mostrare di aver registrato l’indignazione del Paese.
A quel punto c’erano due sole strade possibili: a) la revoca della concessione pubblica ad Atlantia (la società dei Benetton che controlla Aspi), b) l’acquisto di Aspi da altri imprenditori famelici o dallo Stato.
La prima soluzione – di gran lunga preferibile, perché sembra più che evidente che il “concessionario” non abbia tutelato il bene pubblico che gli era stato affidato – era formalmente ostacolata da un contratto di concessione apparentemente scritto per “blindare” la posizione dei Benetton, garantendoli da qualsiasi contenzioso con una penale insensata (22 miliardi).
Ma uno Stato che mostra spesso tutta la sua forza contro chi non ha alcun potere (prendiamo il caso degli esuli di Parigi e qualsiasi movimento di resistenza popolare o territoriale) aveva ed ha mille possibilità di imporre la propria decisione anche a termine di contratto (per esempio addebitando al “concessionario” i danni provocati dalle mancate manutenzioni, i costi di ricostruzione del Ponte, e cento altre voci ipotizzabili), fino ad azzerare l’esborso della penale.
La seconda soluzione, comunque “difettosa” (riconosce ai Benetton un titolo di proprietà che andava messo in discussione), avrebbe potuto essere gestita minimizzando i costi per lo Stato (nelle vesti di Cassa Depositi e Prestiti) e il guadagno immorale per i Benetton. Anche in quel caso, addebitando loro – e dunque scalando dal prezzo – i danni provocati con la pessima gestione degli ultimi 22 anni.
E invece no.
L’operazione di vendita è stata gestita come una “normale operazione di mercato”, come se Atlantia fosse un’impresa seria e non una macchina distruttiva di beni e di vite. Fino a considerare “congrua” una valutazione pari a 9,3 miliardi di euro.
Atlantia, dunque, incasserà circa 8 miliardi per l’88,06% dalla controllata.
Ieri l’assemblea dei soci di Atlantia ha dato il via libera alla cessione al consorzio guidato da Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) assieme a Blackstone e Macquarie.
Ora tocca a Cassa Depositi e Prestiti, che da pochi giorni ha come nuova guida Dario Scannapieco (ex vicepresidente della Banca Europea degli Investimenti, uomo di Draghi al 1.000%), che dovrà trovare “una configurazione di mercato” per la nuova gestione.
Invece che la galera ai Benetton è stata garantita una ricca dote per lanciarsi in altri investimenti (in Patagonia, per esempio, dove hanno fama di Dracula).
Allo Stato, invece, un’infrastruttura da rimettere in piedi, sommando i costi di nuovi investimenti al prezzo assurdo pagato per riaverla dopo averla costruita con i soldi delle tasse di tutti i cittadini.
Non è una nazionalizzazione. È un crimine.
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