A circa sei mesi dai fatti, la detenzione di Pablo Hasél suggerisce una più ampia riflessione sulle caratteristiche degli apparati repressivi e del nucleo duro del potere dello stato spagnolo, non foss’altro perché sono queste le strutture che, all’ombra e con il beneplacito dei differenti governi, si occupano della repressione dei movimenti di emancipazione nazionale e di classe al fine di mantenere inalterati gli equilibri del cosiddetto regime del ’78 (unità dello stato, difesa degli interessi dell’Ibex 35 e rispetto dei dettami della UE).
Una breve panoramica su alcuni significativi episodi degli ultimi due anni sarà sufficiente per dimostrare quanto sia forte ancora oggi nel ventre profondo dello stato la tentazione di indossare la camicia nera.
Tra le differenti condanne la cui somma ha portato all’ingresso in carcere del rapper di Lleida, merita soffermarsi su quella comminata dall’Audiencia Nacional nel marzo 2018: due anni di prigione e una multa di circa 24.000 euro per apologia del terrorismo e ingiurie alla corona.
Uno degli alti magistrati che hanno redatto la sentenza in questione è Nicolás Proveda Peñas, un ex-militante della Falange, un partito fascista per il quale il giudice si presentò come candidato al Senato spagnolo alle elezioni del 1979. Precedentemente Proveda Peñas era stato anche membro dell’organizzazione studentesca dell’ultra-destra Frente de Estudiantes Sindicalistas (FES), attiva negli anni ’60.
Dietro l’anonima toga del magistrato si cela dunque un antico sostenitore del regime, il cui curriculum è arricchito da alcuni processi contro la sinistra abertzale saliti alle cronache per il discutibile atteggiamento di disprezzo del giudice. Ma che democrazia è quella che consente a un ex falangista di presiedere uno dei più alti tribunali dello stato?
Il fatto è che nella costituzione materiale della Spagna odierna, così plasmata dal processo di autoriforma del fascismo, pratiche e soggetti precostituzionali hanno continuato a godere di piena legittimità politica.
La cronaca degli ultimi mesi ne fornisce varie prove, a cominciare dalla recente e definitiva archiviazione del caso di Carlos Rey, l’ex-giudice militare che nel 1974 ordinò la condanna a morte del giovane anarchico Salvador Puig Antich, giustiziato con il metodo della garrota.
La parabola di Rey è esemplare. In seguito alla morte di Franco, il militare e boia del regime si ricicla come avvocato penalista e torna alla ribalta della cronaca nel 2013 quando assume la difesa della leader del Partido Popular catalano dell’epoca, Alicia Sanchez Camacho, implicata in uno scandalo di spionaggio.
Intervistato sul proprio passato e riferendosi all’esecuzione di Puig Antich, Rey aveva dichiarato: “è un tema superato, un caso che non mi ha segnato più di altri. Non mi pento di niente perché tutto quello che ho fatto è stato applicare la legge vigente. Probabilmente 40 anni fa tutto ciò era giusto, un’altra cosa è se lo guardiamo nella prospettiva attuale. Io ho fatto il mio dovere e né il Tribunale Costituzionale né il Tribunale Supremo hanno trovato niente da ridire”.
Una vera e propria rivendicazione del passato fascista, di cui nessuna delle istituzioni democratiche gli ha mai chiesto conto. Al contrario, l’ex-militare ha fatto carriera e ha insegnato all’Università Internazionale della Catalunya (una istituzione legata all’Opus Dei) come si trattasse di un normale penalista.
Indignate dalle dichiarazioni dell’ex-funzionario del regime, le sorelle di Puig Antich (affiancate dal Comune di Barcellona) l’avevano denunciato nel 2018, accusandolo di violazione dei diritti umani. Ma con la sentenza dello scorso agosto i giudici dell’Audiencia di Barcellona hanno disposto l’archiviazione della causa.
Non solo il boia di Puig Antich non ha pagato per i suoi crimini ma è stato ancora una volta legittimato dalle istituzioni. Un esito possibile grazie alla legge d’amnistia del 1977 che, se da un lato benefició gli antifascisti (a patto di non essersi macchiati di reati di sangue) dall’altro azzerò le responsabilità dei funzionari del regime riguardo ai crimini commessi (torture comprese), traducendosi in un vero e proprio scudo protettivo per i protagonisti dei lunghi decenni della dittatura. Uno scudo che gli apparati repressivi dello stato non accennano a deporre.
Quello di Carlos Rey non è infatti un caso isolato: nel maggio scorso è morto nel suo letto (falciato dal coronavirus) il commissario della famigerata brigata politico-sociale Juan Antonio González Pacheco, detto Billy el Niño, una carriera costellata dalle torture e protetta da una assoluta impunità.
Eppure abbondano le testimonianze che lo inchiodano alle proprie responsabilità, a cominciare da quella rilasciata da José Serrano (antifranchista della Liga Comunista Revolucionaria) al giudice argentino Maria Servini, che nel 2013 aveva richiesto l’estradizione di Billy el Niño accusandolo di crimini contro l’umanità.
Nella petizione del giudice si legge che dopo l’arresto, avvenuto a Madrid nel 1971, “lo sottomettono a brutali pestaggi nel corso dei quali perde conoscenza diverse volte...; che tra le varie torture ricorda di essere stato appeso, legato per i polsi, per servire (come dicevano i suoi aguzzini) da sacco per i loro allenamenti di karate; che lo sottoposero alla bañera, una pratica che consisteva nel mettergli la testa in un secchio d’acqua putrida fino quasi ad affogarlo, permettergli di respirare un momento e ripetere l’operazione e così di seguito finché perdeva conoscenza; che patì anche la barra (ammanettato lo appesero a una sbarra in modo che le natiche, i genitali e le piante dei piedi rimanessero scoperte per essere colpite, la tortura che più di tutte le altre richiese una lunga convalescenza dato che per mesi orinò sangue e coaguli e che da allora non poté più correre né muoversi come prima…; che in questa pratica ricorda per la sua particolare ferocia Juan Antonio González Pacheco, alias Billy el Niño”.
Per i servizi resi, Billy viene decorato dal ministro Rodolfo Martín Villa e successivamente amnistiato nel 1977. Grazie alle decorazioni assegnategli, il commissario continua a riscuotere fino alla morte una pensione statale maggiorata da un cospicuo bonus, mai messo in discussione dai vari governi, sia socialisti che popolari, succedutisi nei decenni successivi alla morte del caudillo.
Non solo: nell’aprile 2014 l’Audiencia Nacional si rifiuta di concederne l’estradizione. Una protezione a tutto tondo, che gli ha consentito di non dover mai rendere conto a nessuno del proprio operato.
La pervicacia con la quale le cosiddette istituzioni democratiche assicurano ancora oggi l’impunità dei fascisti è testimoniata anche dalla sorprendente lettera con la quale nel settembre scorso quattro ex presidenti del consiglio spagnolo hanno preso le difese di Rodolfo Martín Villa, autorevole rappresentante del regime e ministro della transizione, indagato dalla giudice Maria Servini per la strage di Vitoria del 3 marzo 1976 (quando la polizia uccise cinque giovani operai e ne ferí diverse decine durante uno sciopero) e per altri crimini commessi durante la dittatura.
Accanto ai popolari Mariano Rajoy e José Maria Aznar, anche i socialisti Felipe Gonzalez e José Luís Rodríguez Zapatero hanno chiesto al magistrato di riconsiderare la propria indagine, sottolineando la supposta statura politica dell’ex gerarca.
Zapatero ha sostenuto addirittura che Martin Villa sarà ricordato per l’impronta nella storia della Spagna lasciata durante la transizione, ossia per il suo contributo alla riforma del franchismo (e non per i crimini commessi).
La lettera bipartisan rappresenta alla perfezione il regime del ’78: le sinistre dello Stato rinunciano alla trasformazione della società e accettano la riforma che il regime si cuce su misura; le elites franchiste ottengono la garanzia dell’impunità perpetua e il mantenimento dei propri privilegi economici. La lettera dimostra che questo patto, benedetto dalla monarchia, dall’esercito e dall’apparato repressivo statale, è ancora pienamente in vigore.
Il regime di impunità previsto per i funzionari del vecchio regime si estende anche ai fascisti protagonisti dell’attualità: i giudici della Giunta Elettorale madrilena hanno permesso a Manuel Andrino Lobo e a Jesús Fernando Fernández-Gil, entrambi militanti della Falange Spagnola, di partecipare alle recenti elezioni della Comunità Autonoma di Madrid nonostante fossero già stati condannati per disordini e incitamento all’odio dal Tribunale Supremo.
La legge esclude la possibilità di presentarsi ad una elezione per coloro che abbiano riportato una condanna non ancora scontata. Proprio in una situazione simile si era trovato l’ex presidente della Generalitat Quim Torra, interdetto dai pubblici uffici e costretto a rinunciare a partecipare alle ultime elezioni per il rinnovo della camera catalana.
Ma nel caso dei due esponenti della Falange Spagnola, una controversa interpretazione della norma ha portato a un esito opposto.
A capo del Ministero dell’Interno, il governo del PSOE e Unidas Podemos ha piazzato Fernando Grande-Marlaska, un altro garante dei patti non scritti della transizione: alla fine di aprile il ministro si è rifiutato di accettare la proposta di trasformare la prefettura della Policia Nacional della Via Laietana di Barcellona (tristemente nota per essere stata uno dei più temuti luoghi di tortura durante il franchismo) in uno spazio di ricostruzione della memoria storica.
La giustificazione di Grande-Marlaska, che ha dichiarato “non vediamo motivi operativi per trasferirla”, ha suscitato un certo sconcerto dato che l’edificio è praticamente vuoto da anni e gli uffici operativi sono situati in un altro quartiere.
Ancora più sconcertante la reazione del sindacato di polizia, che ha interpretato la richiesta della trasformazione d’uso dell’edificio come un attacco diretto all’arma.
Il presidente della Commissione per la Dignità, Pep Cruanyes, impegnato nella conservazione della memoria storica, ha osservato che “quando reagiscono così, la prima cosa che viene in mente è che si sentono eredi dell’antica polizia. Se sono un giudice tedesco e criticano un giudice nazista non mi sento tirato in causa. Se il sindacato della polizia si sente tirato in causa è perché si considera successore del vecchio regime e gli dispiace che si parli di ciò che faceva quella gente”.
La denuncia della tortura è invece più che mai necessaria, anche perché non riguarda solo i decenni della dittatura, ma si allarga anche al periodo della transizione e a quello della supposta democrazia.
Naia Zuriarrain fa parte di un gruppo di avvocati che hanno difeso alcuni militanti di ETA. Attualmente si trova sotto processo insieme ai suoi colleghi, accusata dai giudici dell’Audiencia Nacional di appartenere all’organizzazione armata basca.
La sua testimonianza, risuonata in aula il mese scorso, si riferisce a fatti accaduti nel 2010, all’epoca della sua detenzione, quando al commissariato gli agenti cominciarono con lo spogliarla: “mi toccavano il seno e tutto il corpo, un guardia civil appoggiava i suoi genitali sul mio didietro... facevano commenti di natura sessuale tutto il tempo, umiliandomi e insultandomi”.
Dopodiché gli avvolsero tutto il corpo, tranne la testa, in un rotolo di gommapiuma stretto con del nastro adesivo e continuarono l'“interrogatorio”: “cominciarono a tirarmi acqua fredda in capo, mi misero delle borse di plastica che me lo coprivano completamente così che non potevo respirare..., cercavo di mordere la plastica per respirare. Sentivo che stavo morendo, che soffocavo. Non so quante volte mi misero la borsa. Cercavo di divincolarmi ma non potevo..., non so in che momento caddi o mi buttarono in terra, mi tolsero la borsa e cominciarono a tirarmi in faccia un getto d’acqua che mi entrava nel naso e mi soffocava. Mi dicevano continuamente – Parlerai? Parlerai? Parlerai? – e a un certo punto mentre ero in terra gli dissi di si, che avrei parlato”.
L’avvocata prosegue spiegando che gli fecero imparare a memoria tutto quello che doveva dire: “mi minacciarono di sottopormi un’altra volta allo stesso trattamento se non rispondevo come volevano... Mi misero contro una parete e cominciarono a farmi domande e a farmi imparare quello che dovevo dire nella mia dichiarazione”.
Questa denuncia era arrivata a suo tempo davanti al giudice istruttore, che non la ritenne degna di giustificare l’apertura di una indagine e la cestinò. Ebbene quel giudice era Fernando Grande-Marlaska, l’attuale ministro dell’interno del governo in carica, lo stesso governo che ama definirsi “il più a sinistra della storia di Spagna”.
Un ministro che vanta un inquietante primato: il Tribunale Europeo per i Diritti Umani ha condannato lo stato spagnolo per non aver indagato casi di supposta tortura in ben sette circostanze nelle quali il giudice istruttore era Grande-Marlaska.
Nonostante l’ultima testimonianza di Naia Zuriarrain situi la tortura ben oltre il noto periodo dei GAL (i sicari della guerra sporca dello stato contro ETA) e ne denunci la persistenza nella pratica della Guardia Civil addirittura nel 2010, tirando in ballo l’attuale ministro dell’interno, le reazioni della Spagna presuntamente democratica sono state pressoché inesistenti, a testimonianza del grado di condiscendenza di cui godono le strutture repressive dello stato quando si tratta di difenderne l’unità.
È perciò che le parole gridate da Pablo Hasél al momento della sua detenzione all’Università di Lleida, “morte allo stato fascista”, risuonano non tanto come un vecchio slogan quanto come un vero e proprio programma politico che invoca la fine della continuità del franchismo nelle strutture politiche, repressive e giudiziarie dello stato.
Parole che suggeriscono implicitamente anche un monito per le sinistre statali: rifiutare il sostegno all’indipendentismo catalano, basco o galiziano significa legare il proprio destino politico a uno stato le cui radici affondano ancora nel fascismo spagnolo.
Il video della testimonianza in aula di Naia Zurriarrain si trova a questa pagina.
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