Nei corridoi del potere a Bruxelles, un leader europeo ha definito “enorme” l’impatto dell’accordo UE sul (quasi) embargo delle importazioni di petrolio dalla Russia. In effetti, il provvedimento centrale del sesto pacchetto di sanzioni partorito dall’inizio delle operazioni militari di Mosca in Ucraina sembra essere apparentemente di un altro livello rispetto ai precedenti, ma, come questi ultimi, il peso delle conseguenze – siano esse “enormi” o anche un po’ meno gravose – non toccherà tanto al destinatario delle misure punitive (la Russia) ma in grandissima parte a coloro che le hanno imposte (l’Europa).
Di conseguenza, le nuove sanzioni non saranno di nessuna utilità nemmeno per il raggiungimento dello scopo ufficiale di esse, ovvero convincere Putin a mettere fine alla guerra. Un’intesa tra Mosca e Kiev che porti a una soluzione diplomatica “equa e ragionevole”, come ha spiegato questa settimana il cancelliere tedesco Olaf Scholz, continuerà quindi a dipendere da quanti danni alle proprie economie i paesi europei saranno disposti a mettere in conto, assieme ai danni materiali e in termini di vite umane che il regime di Kiev accetterà per farsi carico degli interessi di Bruxelles e, soprattutto, di Washington.
Al netto della propaganda, anche i commenti della stampa ufficiale ammettono spesso che il (quasi) embargo concordato dall’Europa farà poco o nulla per modificare i piani di Mosca in Ucraina. Le divisioni stesse che erano emerse dentro all’UE nelle scorse settimane dimostrano che in gioco c’è la questione delle esigenze energetiche dei paesi membri più che la teorica penalizzazione dei profitti russi derivanti da questo settore.
L’analista dell’ISPI, Matteo Villa, citato dalla Associated Press, è stato quasi commovente nel riassumere l’umore di un’Europa intenta a suicidarsi economicamente e a cercare allo stesso tempo di sostenere una facciata di forza e compattezza sempre meno credibile. Villa ha assicurato che “la Russia incasserà un colpo piuttosto importante” con l’introduzione del (quasi) embargo sul petrolio, per poi avvertire però che la mossa europea potrebbe alla fine diventare un boomerang. Insomma, non solo Mosca non dovrà sopportare conseguenze troppo pesanti, ma ci guadagnerà pure. Ancora l’analista dell’ISPI: “Il rischio è che le quotazioni del petrolio in generale salgano per via delle sanzioni dell’Europa. E, se il prezzo sale, il rischio è che la Russia inizi a incassare di più”. Risultato: la scommessa europea sarà perdente.
La necessità di concedere deroghe all’embargo porterà dei vantaggi, ad esempio in termini di competitività, a quei paesi come Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, che si approvvigionano di petrolio russo attraverso oleodotti. Per questi casi non ci saranno cambiamenti fino a che non verranno individuate soluzioni alternative. Solo le forniture via mare saranno azzerate entro i prossimi sei mesi. Secondo Bruxelles, una volta implementato, il piano appena concordato ridurrà del 90% le importazioni UE di greggio russo.
Nella realtà, il percorso potrebbe essere molto più complicato delle stesse trattative che hanno portato all’intesa tra i paesi membri. Le ragioni sono molteplici e già spiegate da molti analisti. In primo luogo, le fonti alternative al greggio russo non saranno così facilmente reperibili, soprattutto se si vorranno stipulare nuovi contratti a lungo termine. In aggiunta, vanno considerate le carenze infrastrutturali nei terminal portuali e nelle raffinerie europee per accogliere e gestire gli eventuali arrivi di petrolio con una composizioni diversa, nonché al momento sconosciuta, rispetto a quella del greggio russo.
I prezzi, come già accennato, continueranno poi a salire, neutralizzando di fatto e quasi del tutto gli effetti sulle esportazioni della Russia, i cui produttori sono già in grado di operare con margini di profitto alla quotazione di circa 45 dollari il barile. Subito dopo l’annuncio dell’accordo trovato dall’UE sul (quasi) embargo, le quotazioni del “brent” hanno toccato il punto più alto da due mesi a questa parte, schizzando a 123 dollari. Nel frattempo, ad esempio, a maggio la Russia ha aumentato di 25 volte (+2.500%) la quantità di petrolio esportata verso l’India, paese che, assieme alla Cina e ad altri soprattutto in Asia, sta approfittando di prezzi scontati con tutto ciò che ne consegue sul fronte della competitività industriale e della lotta all’inflazione. Secondo un calcolo elaborato da Bloomberg News, il provvedimento appena deciso dall’Europa costerà a Putin fino a 10 miliardi di dollari all’anno, cioè poco più di una goccia in un mare di denaro che, in base alle previsioni del Cremlino, per il solo ambito energetico ammonterà per il 2022 a un totale di 270 miliardi di dollari di entrate.
Almeno altri due elementi vanno ricordati riguardo la questione del (quasi) embargo. Il primo è che, come ha ricordato la società di consulenza Energy Intelligence Group, a pagare le conseguenze più gravi sarà la Germania, come tutti sanno la “locomotiva” dell’economia europea, con riflessi quindi su tutto il sistema continentale e, per contro, con vantaggi economici e strategici per Washington. Il governo di Berlino, assieme a quello polacco, ha infatti già deciso di rinunciare alle importazioni di petrolio dalla Russia indipendentemente da quanto deciderà l’UE.
Il secondo è rappresentato da una serie di situazioni al limite dell’assurdo che il (quasi) embargo potrebbe scatenare. Una, come ha scritto il Financial Times, è l’imposizione di dazi o tasse in qualche forma non definita che Bruxelles potrebbe imporre a quei paesi come l’Ungheria che continueranno a ricevere greggio dalla Russia a condizioni più favorevoli del resto dell’Europa. Un’altra è invece l’ipotesi che il petrolio russo arrivi ugualmente in Europa dopo essere passato di mano più volte fino a occultarne l’origine. L’unica differenza è che verrà pagato in maniera molto più salata. Comunque sia, la decisione sul petrolio e le altre sanzioni più recenti sembrano aver fatto raggiungere all’Europa il fondo del barile. Più in là, come hanno fatto capire svariati governi UE, potrebbe esserci il baratro economico e l’esplosione delle tensioni interne, così che l’idea di affrontare lo stop del gas russo, inizialmente accarezzata da più parti, resterà per ora lontana dal tavolo delle trattative di Bruxelles.
Crisi alimentare: dall’Ucraina alla Siria
Uno degli altri fronti caldi del conflitto russo-ucraino è quello della crisi alimentare. La macchina della propaganda occidentale ha deciso che le responsabilità sono tutte di Putin, il quale starebbe affamando deliberatamente mezzo mondo per raggiungere i propri obiettivi. Non solo, le esportazioni di grano raccolto in Ucraina verrebbero bloccate allo stesso scopo. Questa versione dei fatti è stata smentita da tempo da osservatori e analisti indipendenti. Il governo di Mosca ha aperto un corridoio umanitario per il trasporto dei beni alimentari e il principale ostacolo al movimento delle navi che trasportano grano e altro sono le mine piazzate in mare dalle forze ucraine. Il vero problema restano le sanzioni che impediscono alle navi russe di attraccare nei porti occidentali.
L’Ucraina sta poi continuando a esportare grano soprattutto via terra, ma questo fatto non viene citato spesso in Occidente perché destinato appunto ai paesi occidentali, verosimilmente in cambio degli aiuti militari, compromettendo la tesi ufficiale che vuole la popolazione ucraina e “il sud del mondo” sull’orlo della carestia per colpa del Cremlino. Gli scrupoli di Europa e soprattutto Stati Uniti per i bisogni alimentari dei paesi più poveri sono smentiti clamorosamente, se mai fosse necessario, anche dagli eventi in corso in Siria.
Qui, un contingente militare americano occupa illegalmente da anni una porzione di territorio e, in collaborazione con le milizie curde alleate, controlla o, più precisamente, ruba le risorse alimentari ed energetiche di un paese sovrano, traendone profitti attraverso la vendita clandestina. Questa regione conserva le maggiori risorse di tutta la Siria, pari a cioè il 90% del petrolio che si trova nel sottosuolo e all’80 del grano che è potenzialmente in grado di produrre.
Le armi “difensive”
Il flusso di armi verso l’Ucraina sembra continuare senza sosta e sta anzi aumentando il livello di efficacia teorico del materiale bellico messo a disposizione delle forze armate di Kiev. Le decine di miliardi di dollari di equipaggiamenti forniti e promessi finora non hanno fatto tuttavia molto per rallentare l’avanzata russa e anche esponenti del regime ucraino e i media occidentali riconoscono sempre più che la situazione nel Donbass si sta facendo disperata. Un nuovo pesantissimo colpo potrebbe arrivare con l’imminente caduta della città di Severodonetsk, già in buona parte nelle mani dei militari russi. Un successo a spese delle forze ucraine in questa località, secondo il Cremlino, consegnerebbe praticamente alla Russia il controllo dell’intera autoproclamata repubblica di Lugansk.
Di fronte a questa realtà, stanno aumentando le pressioni per fare arrivare a Zelensky armi più potenti, ma allo stesso tempo emergono le resistenze di coloro che vedono una simile accelerazione come un elemento in grado di fare esplodere un conflitto più ampio, anche perché Mosca ha espresso avvertimenti molto chiari in proposito. Nei giorni scorsi, la discussione negli USA si è concentrata sulla possibile consegna all’Ucraina di sistemi missilistici di precisione a raggio variabile, come il cosiddetto HIMARS americano. Questi ordigni possono colpire bersagli fino a 300 km e un eventuale via libera della Casa Bianca all’esportazione verso l’Ucraina avrebbe permesso di penetrare in profondità il territorio russo. Alla fine, l’amministrazione Biden ha optato per sistemi che arriverebbero solo fino a circa 80 chilometri.
Fermo restando i soliti problemi di evitare che gli equipaggiamenti vengano distrutti dall’artiglieria russa prima che arrivino al fronte e di addestrare rapidamente personale ucraino in grado di manovrarli, la relativa cautela americana conferma il timore di provocare uno scontro diretto tra Mosca e la NATO. Ciò testimonia inoltre anche la natura doppiamente tragica del conflitto in corso, condotto sulla pelle di militari e civili ucraini nel tentativo di tenere la Russia coinvolta in un pantano il più a lungo possibile nonostante per Kiev non ci siano oggettivamente vie d’uscita diverse dalla resa.
I crimini immaginari
L’immagine totalmente fantasiosa dell’Ucraina come paradiso dei valori democratici sotto il feroce assedio della barbarie russa continua a cadere pezzo dopo pezzo grazie al trapelare di notizie, filmati e immagini che documentano il carattere autoritario e violento di un regime fortemente influenzato da elementi neo-nazisti. L’ultimo episodio in ordine di tempo a mostrare come lo sforzo sostenuto dall’Occidente si basi in grandissima parte sulla propaganda mediatica riguarda la commissaria per i diritti umani dell’Ucraina, Lyudmila Denisova.
Quest’ultima è stata rimossa dal suo incarico con un voto del parlamento di Kiev (Verkhovna Rada) perché accusata di essere venuta meno ai propri incarichi. La Denisova, oltre ad avere trascorso più tempo nelle “città calde e tranquille” dell’Europa che sul campo per adoperarsi a favore di civili e soldati ucraini, è responsabile di avere diffuso notizie false su atrocità mai commesse dai militari russi. In particolare, la commissaria aveva contribuito al propagarsi della notizia non provata della campagna di stupri di massa in Ucraina, che avrebbe incluso tra le vittime addirittura neonati.
Per gli stessi deputati ucraini che l’hanno sfiduciata, le prove di questi e altri crimini non sono state presentate dalla Denisova e il suo comportamento è stato ritenuto inaccettabile perché ha “macchiato la reputazione dell’Ucraina”. La vicenda ha se non altro evidenziato la contraddizione senza uscita in cui si trova il regime di Kiev. Per tenere vive le residue simpatie dell’opinione pubblica occidentale ha bisogno di macinare propaganda senza sosta, ma così facendo rischia di esporsi a clamorose smentite che, nonostante la copertura che continua a garantire la stampa ufficiale, finiscono inevitabilmente per produrre l’effetto contrario.
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