Dire che a Kabul ci sia un luogo di perdizione, sembra una battuta, anche di cattivo gusto. Tanto è drammatica la vita in ogni angolo di quella capitale. Eppure il ponte di Pul-e Sukhta da tempo è diventato un luogo sempre più frequentato. Da un’umanità dannata – oltre che dalla guerra e dall’occupazione occidentale che prosegue anche coi nostri nuclei di bravi alpini e parà – e consumata dalla tossicodipendenza. Che è in crescita, anno dopo anno. Stime degli organismi internazionali impegnati a studiare il fenomeno (Unodoc) pongono l’Afghanistan in testa alla produzione dell’oppio, alla sua lavorazione e diffusione. Tutto ciò avviene con la splendida collaborazione fra trafficanti locali e occidentali, clan politici: la storia della famiglia Karzai e della sanguinaria fine di uno dei fratelli dell’ex presidente sono note, ma per vari parlamentari la festa continua, il più recente caso della chiacchierata Fawzia Koofi lo dimostra. Coinvolti gli stessi militari e graduati della Nato come fu scoperto anni addietro nella base della Royal Air Force. La situazione, già drammatica nel 2010, diventa sempre più inquietante ora che vengono alla luce documenti del pur disastrato ministero della Salute afghano.
Impossibilitato a celare angosciosi dati sulla diffusione dell’Hiv e di altre infezioni a diffusione rapida come l’epatite. Si cerca di assistere e curare la crescente massa di persone infette in una struttura organizzata alla meglio nell’ex base militare statunitense di Camp Phoenix, differentemente da altre abbandonata dalle truppe e riconvertita in luogo di riabilitazione. L’impresa è immensa. I mezzi messi a disposizione dal governo Ghani, che pure blatera per il sostegno della salute e dell’istruzione, sono scarsi. Sul versante organizzativo un po’ sopperiscono la disperazione e la necessità, ma ciò non toglie che farmaci e fondi servono. La comunità internazionale, regina di chiacchiere e promesse oltreché di falsi progetti di democratizzazione della società, è sempre più orfana di idee; assiste e in vari casi accetta la collaborazione fra i clan dei politici corrotti e i ras locali che minacciano, proteggono o attaccano la popolazione, secondo i vantaggi conseguiti. Visti gli inconsistenti risultati dell’uso della forza, il flop del vestitino democratico cucito su misura alla diarchia del compromesso Ghani-Abdullah che ha evitato solo il proprio scontro fra fazioni.
Però controlla a malapena pezzi d’una decina di province su trentaquattro, si riparla di accordo coi Taliban. A esso puntano Stati Uniti, Cina, Pakistan e governo di Kabul, riuniti di recente nell’ennesimo summit, che hanno invitato lo staff del mullah Mansour a un tavolo di trattative per discorrere di pace e transizione governativa. Anche i turbanti neri non puntano al conflitto eterno; certo una loro fazione cavalca la ‘guerra santa’ in sintonia con Al-Baghdadi ma i più pragmatici pensano ad affari e potere. Questi hanno fatto rima con eroina, che non sparirà certo dietro un accordo fra le parti. Come già avvenuto in altre occasioni il patto, se verrà, stimerà le proporzioni degli affari. Ai cinesi il sottosuolo, ma anche le aziende americane non vogliono privarsi dei derivati delle ‘terre rare’; la Nato, dunque, il Pentagono, continuerà a controllare lo spazio aereo. Ai talebani interni può restare la giurisdizione dei territori che, peraltro, vanno conquistandosi da mesi armi alla mano, al governo fantoccio la sceneggiata della rappresentanza internazionale. A piangere e morire restano milioni di afghani, ridotti all’impotenza dal cinismo politico e dall’eroina.
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