Pubblicata su «Il Manifesto» del 6 gennaio 2016
Nell’ultimo secolo il lavoro
salariato ha percorso un moto circolare che sembra averlo riportato alla
sua condizione iniziale di assoluta mancanza di potere sociale. Il volume di Graziano Merotto, La fabbrica rovesciata. Comunità e classi nei circuiti dell’elettrodomestico (DeriveApprodi,
euro 50) descrive questo lungo movimento, ricostruendo la vicenda
politica di una vasta porzione di classe operaia impiegata a produrre
elettrodomestici nel cuore del Nordest, ovvero dalla provincia di
Treviso fino a Pordenone. Come scrivono Ferruccio Gambino e Devi
Sacchetto in un’intensa postfazione, però, non siamo di fronte né a un
esercizio di sociologia del lavoro né alla storia sociale di un
distretto produttivo. Questa è la storia dell’altra Marghera, ovvero di un polo di insubordinazione operaia,
forse meno conosciuto ma che da molti decenni non si adegua alla
continue ristrutturazioni aziendali e alla deferenza che esse
pretendono.
L’era dei metalmezzadri
Il processo di autentica conricerca
emerge nella scrittura di Merotto e dalle molte voci operaie che
restituiscono il senso politico della vicenda collettiva. La fabbrica
non è però né il punto di partenza né quello di arrivo di questa storia,
che ha come protagonista la rivolta del lavoro salariato. La fabbrica
non istituisce lo scontro sociale, ma permette di continuarlo con altri
mezzi. Il moto circolare del potere sociale del lavoro salariato va infatti da una precarietà all’altra.
Il punto di partenza è la precarietà dei contadini che accettano il
regime di fabbrica per liberarsi dalla condizione di mezzadri, fittavoli
o coltivatori diretti. La fabbrica consente loro di scegliersi il
padrone, liberandosi dal peso di tradizioni secolari e dalla fame.
A lungo sono stati chiamati «metalmezzadri», per indicare il rapporto
con il lavoro agricolo che spesso conservavano. La fabbrica è stata però
ancora l’alternativa all’emigrazione, praticata in massa in tutti
questi decenni per sfuggire tanto alla povertà quanto allo stesso regime
di fabbrica.
Dal libro di Merotto emerge perciò con
forza che la storia di quegli operai non coincide con quella dei diversi
stabilimenti di una grande fabbrica che è inizialmente la Zoppas, per
divenire poi Zanussi e, infine, Electrolux. Essi sono parte di una comunità colta sempre nel momento della sua trasformazione:
è una comunità contadina che si disgrega, ma è anche la comunità che
durante il grande sciopero del 1968 va oltre se stessa mobilitando
energie collettive per sostenere un mese di fermo pressoché totale della
produzione. Questa comunità non è tanto il luogo delle sane tradizioni,
quanto l’insieme di relazioni che si mobilitano per confrontarsi con
ciò che è sorto al di fuori della comunità. Come tutti gli altri attori
in campo, essa deve registrare che la «comparsa di una classe operaia come soggetto collettivo era stato il fatto decisivo». Questa affermazione permette alcune considerazioni.
Gli «atomi» insubordinati
Sebbene oggi come allora esista il
lavoro salariato, non sempre esiste una classe operaia che mentre si
oppone al capitale ridetermina non solo i rapporti dentro la fabbrica,
ma configura e orienta anche quelli al suo esterno. In questo momento,
infatti, viene rotto il rapporto sociale che da sempre caratterizza il
capitalismo, producendo uno scarto tutto politico anche nei rapporti
comunitari che non trovano una loro ricomposizione quanto piuttosto una
riconfigurazione complessiva. In questo momento viene dunque
toccata quella «parte più alta del tempo» che rovescia la fabbrica
sovvertendo il rapporto di potere su cui essa si fonda.
Dilagano gli scioperi autonomi di reparto. I sindacati non riescono
a governare l’insubordinazione operaia. Nei confronti dei membri della
commissione interna vige una sorta di mandato imperativo con la clausola
che, se le indicazioni non vengono rispettate, «noi facciamo sciopero».
Lo sciopero è ingovernabilità e, contemporaneamente, creazione di differenti vincoli organizzativi e comunicativi.
«Il dispotismo tecnico e gerarchico non riesce più a contenere gli
“atomi” insubordinati; la massificazione stessa viene ribaltata in
contropotere». Essendo un rapporto sociale di potere la fabbrica non
esiste mai solo al proprio interno, ma investe costantemente il
territorio circostante e il sistema politico.
Fuori dai cancelli
Il cancello della fabbrica non è mai stato un confine statico in grado di racchiudere un mondo.
Gli anni Sessanta in fabbrica sono il momento di massima porosità di
quel confine, quando il potere operaio diviene potere sociale imponendo
la propria presenza politica contro gerarchie che tanto in fabbrica
quanto nella società si pretendevano indiscutibili.
Negli anni Settanta la reazione
a questo potere ridetermina i rapporti in fabbrica perché riesce
a modificare quelli al suo esterno. I rapporti di dominio
diventano globali relativizzando ogni forza accumulata in un solo punto.
Gli anni successivi sono perciò quelli della lotta contro la crisi
e soprattutto del mutamento di rapporto con il sindacato. Questo è un
altro moto circolare che contraddistingue la parabola storica del lavoro
salariato in Italia. All’inizio c’è la lotta per il sindacato, poi
l’uso operaio del sindacato, ora il «confronto era che facevano passare
sempre la loro linea». L’iniziativa operaia arretra e gli accordi
sbandierati come modelli nazionali da seguire mostrano ben presto la
loro inconsistenza pratica, soprattutto per quanto riguarda il numero
degli occupati e le scelte produttive. La cassa integrazione e le
fermate prendono il posto degli scioperi. La strategia dell’Eur ha
ridotto i salari senza ottenere le promesse modifiche del quadro
normativo.
Con il passaggio all’Electrolux viene
aperto a Susegana un reparto confino grazie al quale i delegati non
allineati e i lavoratori indisciplinati non hanno più contatti con il
resto dei lavoratori. Il sindacato su questo non dice nulla, come si era
d’altronde adeguato ai mutati rapporti di potere, finendo per garantire
solo la propria posizione di mediatore. Il collettivo operaio è stato
ormai spezzato: pochi al confino, ma molti se ne sono andati o hanno
accettato gli incentivi al prepensionamento.
La grande ristrutturazione
Nonostante la riduzione del numero degli
addetti la produttività cresce rapidamente. L’informatizzazione
consente di risparmiare lavoro e di recuperare controllo sul ciclo
produttivo. Cambiano i ritmi e cambia il tempo di lavoro. Per essere
assunti, diviene usuale passare per il purgatorio delle aziende
dell’indotto e per i contratti a tempo determinato. La fabbrica sembra
relegata nel passato della produzione capitalistica, identificata con il
posto fisso, con la garanzia del salario, contrapposta alla precarietà
lavorativa ed esistenziale. Già negli anni Ottanta la fabbrica come posto fisso però non esiste più, non solo per i licenziamenti, le ristrutturazioni e le delocalizzazioni, ma soprattutto perché una generazione di giovani operai a tutto pensa fuorché a passare tutta la vita in fabbrica.
La fabbrica nei decenni successivi è una
prigione a ore i cui ritmi sono codeterminati da sindacato e direzione
aziendale, il cui obiettivo comune è la competitività del sistema
manifatturiero. La fabbrica diviene così indifferente, mentre aumentano
l’individualismo e le forme di autotutela personale. «La sfera della
comunicazione sociale e delle relazioni di potere della fabbrica vengono
occupate dall’apparato, nel tentativo di assorbire l’intera esperienza
del singolo». L’egemonia aziendale sulla forza-lavoro non si presenta
come dominio sul collettivo operaio, ma su una massa di individui
identificati dalla postazione che occupano e dai codici che maneggiano.
Il salario viene predeterminato e si presenta in maniera esemplare come
salario d’ingresso, quasi un pegno da pagare per poter lavorare. Così il
moto circolare sembra davvero tornare al suo punto di partenza e la
precarietà del lavoro salariato torna sovrana, mentre la perdita di
potere sociale comporta anche l’erosione di ciò che era stato
conquistato in termini di servizi e di tempo sottratto al lavoro.
La fabbrica torna a consumare prima di tutto gli operai, perché in essa il tempo comanda il fare. Il governo dello spazio al suo interno è funzionale al dominio su un tempo che non è però quello della fabbrica, ma il ritmo della società nel suo complesso. Trasferimenti e delocalizzazioni stabiliscono le condizioni di possibilità per intensificare globalmente i tempi di lavoro.
Il vicino Oriente
Nonostante i risultati di una recente
ricerca dell’università di Padova, finanziata da Finmeccanica,
rassicurino i committenti affermando che i lavoratori sono ormai «fuori
classe» e si identificano con l’azienda, all’interno delle fabbriche si
continuano a combattere conflitti di lavoro come conflitti sociali,
scontri su pratiche diverse di società, come lotta di classe. La ricerca
di Merotto mostra l’indisponibilità tutt’altro che residuale ad
assumere l’ideologia del merito individuale come unica ideologia
legittima. Piaccia o non piaccia, quella che a molti è sembrata la
scomparsa della fabbrica, con la conseguente eclissi della lotta di
classe dei salariati, deve fare i conti nella maniera più dirompente con
un’esperienza che non si esaurisce nel nordest, ma continua nell’Europa orientale e nel lontano Oriente,
ovvero in quelle zone economiche speciali dove la fabbrica e il lavoro
operaio sono stati nascosti, per sottrarli al calcolo pratico dei
rapporti di forza.
Le lotte di questi operai sono il sintomo più profondo della provincializzazione dell’Europa.
La lotta globale per il potere sociale riapre la possibilità di rompere
il cerchio dell’insicurezza e della precarizzazione collettiva dei
lavoratori, rifiutando l’indecenza dello sfruttamento. Oltre ogni
archeologia, e anche oltre qualsiasi nostalgia, il volto positivo di
questo rifiuto risuona nelle parole di uno degli operai della Fabbrica rovesciata: «Si chiedeva l’aumento uguale per tutti: era una coesione a livello di base, sentirsi tutti compagni», che in dialetto veneto sta per uguali.
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