di Chiara Cruciati – il Manifesto
È passato esattamente un
anno dall’ingresso militare della Russia nella crisi siriana. Il 30
settembre 2015 il governo di Damasco non navigava in buone acque con
Stato Islamico e l’allora al-Nusra che controllavano insieme più di un
terzo del paese. Sul piano diplomatico gli Stati Uniti si barcamenavano,
vedendo i propri “ribelli” perdere terreno sul campo di battaglia e su
quello politico.
Un anno dopo Assad è più forte, Mosca si erge come un gigante
nelle stanze della diplomazia, gli Usa si barcamenano ancora
riproponendo la misura del «più armi per le opposizioni». Ma
quelle opposizioni sono cambiate ancora: le moderate sono scomparse o si
sono trasformate in bracci destri dei jihadisti. La conseguenza diretta
della forza russa e della debolezza statunitense è la fine del
negoziato: ormai nessuno parla più di governo di transizione o soluzione
politica. La ragione sta nel doppiogiochismo dei due fronti, ognuno con
la sua agenda: il pro-Assad uccidere le poche opposizioni legittime
rimaste, l’anti-Assad impedire che la Siria resti un’entità unita.
Ieri è stata un’altra giornata di violenze ad Aleppo: i governativi premono verso i quartieri orientali con la tv al Manar,
vicina ad Hezbollah, che dà per caduto il campo profughi palestinese
Handarat. È stato bombardato, secondo fonti locali, l’impianto idrico di
Suliman Alhabi, duro colpo alla già scarsa distribuzione di acqua
potabile. Nei pochi ospedali ancora aperti, con soli 35 medici a
disposizione, i feriti si ammassano. Medici Senza Frontiere denuncia il collasso nella zona est:
«Abbiamo solo tre sale operatorie e ieri abbiamo dovuto compiere oltre
20 operazioni. Lo staff dell’ospedale lavora 20 ore al giorno».
A preoccupare sono i movimenti militari sul terreno: la Russia ha
inviato altri jet nella base di Hmeymim, mentre le milizie iraniane e
libanesi aumentano di numero fuori da Aleppo insieme a quelle delle
opposizioni islamiste. Gli Usa hanno dato il via libera alla consegna di
missili terra-aria a favore dei “ribelli”. La battaglia si farà
certamente più dura, massacrerà i civili e le fievoli speranze di un
negoziato politico.
La misura la danno le ennesime dichiarazioni degli attori
internazionali. Ieri la Casa Bianca ha emesso un comunicato dopo la
telefonata che il presidente Obama ha avuto con la cancelliera tedesca
Merkel, nella quale i due leader hanno definito «barbari» i raid russi. A
dare una mano al fronte anti-Assad è l’Osservatorio Siriano, ong che
dal 2011 si è schierata contro Damasco: i raid della Russia hanno ucciso
in un anno 9mila persone, di cui quasi 3.800 civili e 5.500 miliziani
dell’Isis e di diverse fazioni armate. Bilanci sui morti della
coalizione anti-Isis e delle opposizioni armate non ne sono stati dati.
Dall’altra parte è il ministro degli Esteri russo Lavrov a dire la sua: gli Stati Uniti, ha detto alla Bbc, stanno risparmiando Jabhat Fatah al-Sham
(l’ex al-Nusra che per ragioni meramente strategiche è uscita da al
Qaeda quest’estate pur continuando a condividerne l’ideologia) nel tentativo di rovesciare il presidente Assad.
«Gli Usa avevano solennemente promesso di avere come priorità la
separazione dell’opposizione da al-Nusra – ha detto Lavrov – Ma non sono
capaci o non vogliono farlo e risparmiano [dai raid] al-Nusra tenendola
come piano B nel caso di un cambio di regime».
Che Washington non abbia mai costretto le opposizioni alleate a dissociarsi dall’ex al-Nusra è incontestabile:
molti gruppi (anche ufficialmente moderati come l’Esercito Libero
Siriano, proxy statunitensi rivelatesi però dei fallimenti) hanno
definito illegittime le bombe sui qaedisti, facendosi da loro gestire
nella battaglia di Aleppo.
Tra i gruppi che negli ultimi giorni si sono uniti all’ex al-Nusra
c’è Nour al-Din al-Zinki, milizia fatta prosperare dalla Cia nell’ambito
del programma di addestramento e armamento dei “ribelli” tra Turchia e
Giordania.
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