Quando si parla di guerra siamo abituati a pensare a scontri fra eserciti regolari, battaglie in campo aperto, bombardamenti eccetera, mentre consideriamo altre forme di conflitto come di contorno o come metafore. Ad esempio, la guerra economica è percepita non come una vera e propria guerra, ma come un conflitto anche molto aspro, ma che non comporta di per sé l’uso di violenza armata e, quindi, è guerra solo come traslato stilistico.
In effetti, le cose sono state in questo modo sino al Novecento, dopo è iniziata una “rivoluzione militare” che ha partorito un concetto bel diverso di guerra come interazione strategica fra le più diverse forme di pressione.
Le prime manifestazioni di questa tendenza si ebbero nella prima guerra mondiale (risolta non tanto da battaglie campali quanto dal collasso interno di contendenti come la Russia prima e la Germania dopo) e si sviluppò ulteriormente nella seconda guerra mondiale (guerriglie partigiane, ruolo crescente dell’intelligence, assedio economico ecc.). Ma la svolta vera e propria venne negli anni sessanta con la categoria della “guerra rivoluzionaria” elaborata in particolare dallo stato maggiore francese. Il suo più qualificato esponente teorico, il gen. Beaufre produsse un nuovo concetto di strategia, intesa come convergenza dei più diversi mezzi di lotta, violenti e non violenti, armati e non armati, coperti e manifesti, tradizionali e non ortodossi. Per la verità, questo tipo di guerra era attribuito al blocco orientale che avrebbe scatenato l’attacco contro l’Occidente nelle forme più diverse (dalle agitazioni sindacali alle campagne scandalistiche, dalla penetrazione dei partiti comunisti all’appoggio alle guerriglie ecc.) destinate a sfociare nella spallata militare che sarebbe giunta solo all’ultimo momento, quando le capacità di resistenza dei paesi occidentali fosse stata debitamente logorata.
In realtà, questa teorizzazione fondeva elementi veri dell’azione sovietica (ad esempio l’appoggio anche in armi alle guerriglie del terzo mondo) ed in parte immaginari (come l’idea che i Pc fossero solo obbedienti tentacoli del Cremlino, idea poi smentita dall’evoluzione storica dei Pc europei). Comunque questa teorizzazione finì per rovesciarsi nella prassi dei servizi occidentali quale risposta all’immaginata offensiva sovietica. Nel tempo, questa concezione della strategia ha avuto ulteriori evoluzioni ed, in particolare il contributo più importante è venuto dalla Cina con il libro “guerra senza limiti” di due ufficiali superiori Liang Qiao, Xiangsui Wang (ma non giureremmo che si tratti di nomi autentici e non di nomi di copertura). Questo libro è stato il prodotto della situazione dei primi anni novanta, quando la supremazia militare americana appariva definitiva e non raggiungibile neppure in tempi lunghi.
Di qui l’idea di una guerra “asimmetrica”, che rispondesse su piani diversi da quello strettamente militare facendo abbondante uso di forme diverse di conflitto ed in primo luogo quello economico-sociale, che prevede forme aperte (campagne stampa, manovre finanziarie e sul cambio monetario, controllo delle reti distributive, guerre tariffarie e doganali, misure protezionistiche mirate, dumping, boicottaggio, embargo) e forme coperte (boicottaggio coperto, accordi internazionali discriminatori, disinformazione, dumping dissimulato, contrabbando, spionaggio industriale e finanziario, clonazione e falsificazione di merci, violazione di brevetti, manovre finanziarie e di borsa coperte, etero direzione di flussi migrativi clandestini, sabotaggio, falsificazione di moneta).
Ovviamente coperte sono forme di lotta più cruente come attentati ad impianti industriali a reti di trasporti e telecomunicazioni, guerra batteriologica con finalità economiche (ad. es. contro il patrimonio zootecnico), rapimenti ed attentati mirati contro finanzieri, imprenditori, tecnici di particolari competenze, pirateria marittima, aerea o informatica, bombardamento informatico.
Parallele sono le forme di conflitto politico coperto (manipolazione di campagne elettorali e risultati per via web, campagne scandalistiche, alimentare campagne stampa in paesi terzi, finanziamento a movimenti di opposizione anche terroristici, corruzione, disinformazione sia verso l’avversario che verso terzi) che possono evolvere anche verso forme più violente (appoggio alla criminalità organizzata dell’avversario, attentati indiscriminati, rapimenti, guerra batteriologica, rapimenti di esponenti politici, magistrati e giornalisti, pirateria aerea, bombardamento informatico, procurati disastri ferroviari, aeronautici, inondazioni sino ad ispirare un colpo di stato militare).
La cyber war, in questo senso, ha dischiuso orizzonti sin qui insperati tanto in direzione economico-finanziaria, quanto in quella politica.
Accanto a queste due principali forme di conflitto occorre considerarne altre parzialmente intrecciate come il conflitto cognitivo, o quello del cosiddetto soft power. Per quanto riguarda il piano militare assistiamo ad una forte graduazione delle forme di lotta che in parte riprendono e sviluppano forme classiche come l’uso di forme di guerra non ortodossa (appoggio a guerriglie e terrorismi), in parte sviluppano nuove forme come la “guerra catalitica” cioè tesa a sviluppare uno scontro fra un determinato paese ed un terzo, simulando attacchi come provenienti da esso.
Come si vede, in ciascuna delle dimensioni considerate (economica, politica, cognitiva e militare) si manifestano tanto forme aperte quanto coperte, che sono quelle più proprie dell’attuale fase storica e se ne comprende facilmente il motivo: l’uso di forme di aggressione cruenta si configura di per sè come un atto di guerra al quale l’aggredito potrà rispondere in modo più o meno flessibile ma sarà difficilmente evitabile il confronto militare, ma anche una aggressione economica o un attacco cyber potrebbero indurre l’avversario ad una risposta di eguale intensità, anche al limite dello scontro militare.
Dunque, ci sono forme di lotta aperte ed incruente, che collochiamo senza problemi nello stato di pace e quelle cruente che iscriviamo altrettanto tranquillamente nello stato di guerra. I problemi sorgono con le due fasi intermedie di conflitto coperto. La fase incruenta mostra delle forti tensioni che, se venissero allo scoperto, spingerebbero verso un confronto di tipo militare che, però, l’azione diplomatica potrebbe evitare. In ogni caso, ci sembra che questa fase si ponga a cavallo fra stato di pace e stato di guerra, in particolare nelle sue forme più radicali (falsificazione di moneta, sabotaggio di reti e stabilimenti di interesse economico, o, addirittura, di insediamenti militari) che rientrano nello stato di guerra.
Ovviamente le forme coperte cruente non possono essere considerate ancora stato di pace. Poniamoci qualche domanda: l’attentato dell’11 settembre 2001 va considerato come un atto di guerra? E’ evidente che una strage indiscriminata, procurare disastri o inondazioni, ecc. sono atti che vanno al di là dello stato di pace. Ma neppure possiamo, per questo stesso, parlare di stato di guerra vero e proprio perché si pone un problema: atto di guerra da parte di chi? La guerra vera e propria sottintende lo scontro fra due soggetti che esercitino la sovranità su un territorio, ma, se l’attacco viene da una organizzazione terroristica che, per definizione, non ha un territorio su cui esercitare sovranità, si può parlare di guerra? Nel caso dell’11 settembre la reazione è stata quella di una guerra aperta, perché si è identificato l’Afghanistan come territorio di uno stato sovrano responsabile dell’attentato, e questo per il rifiuto di consegnare Osama Bin Ladin agli americani. Ma, in altri casi, questo rapporto è meno evidente e spesso assai ambiguo (si pensi ai rapporti fra Sauditi, Quatarioti e la galassia jhiadista). Peggio ancora quando si parla di forme di criminalità organizzata (ad esempio la pirateria) o di attacchi cyber riconducibili ad anonimi hacker di cui si può subdorare l’appartenenza ad un qualche servizio segreto statale, ma si cui non c’è prova.
E’ possibile che la parte colpita, una volta identificato l’aggressore, possa reagire con una dichiarazione di guerra, come anche è possibile che scelga d portare la questione all’attenzione della comunità internazionale. Ma, nel complesso, l’ipotesi più probabile è che risponda con altre forme di guerra coperta. In questo caso saremmo di fronte a qualcosa che va al di là della pace, ma non comporta ancora lo stato di guerra, quantomeno sotto un profilo giuridico. Ma anche sotto il profilo sostanziale si tratterebbe di una sorta di “guerra imperfetta”. Lo stato di guerra coperta, peraltro, obbligherebbe alla dissimulazione i due contendenti e non solo per i colpi inferti, ma anche per quelli ricevuti. Infatti, se uno dei due rendesse pubblica la responsabilità dell’altro, ad esempio, in un disastro ferroviario, una strage o una inondazione, da un lato potrebbe difficilmente evitare di giungere alle estreme conseguenze (anche per le pressioni della propria opinione pubblica), dall’altro si esporrebbe ad analoghe accuse da parte dell’avversario. Dopo di che la gestione del conflitto diventerebbe assai problematica ed i margini di azione della stessa comunità internazionale sarebbero assai angusti. Dunque, tutto fa pensare che una simile denuncia verrebbe solo quando uno dei due contendenti avesse deciso di andare allo scontro aperto. Ma prima di questo stadio finale, saremmo in una classica situazione da “guerra fredda”, nella quale il conflitto procede consensualmente in forme coperte. E questo implica la dissimulazione, almeno parziale, delle responsabilità avversarie. D’altro canto, in una situazione del genere occorrerebbe anche valutare attentamente l’ipotesi di una “guerra catalitica” per l’inserirsi coperto di un terzo contendente. Se questa ipotesi, negli anni sessanta, venne ritenuta residuale, oggi, in considerazione della forte pluralità di attori sulla scena internazionale e della più ampia gamma di forme di guerra coperta, non appare più così facilmente accantonabile.
Tutto questo ci porta ad identificare uno stadio intermedio fra stato di pace e stato di guerra da definire meglio. In questa sede non ci poniamo il problema da un punto di vista giuridico, quanto da un punto di vista sostanziale e di analisi politico-militare.
Negli anni cinquanta-ottanta (durante la prima “Guerra Fredda) questa situazione sarebbe stata definita “guerra a bassa intensità”, in quanto in essa non sarebbero entrati in ballo nè gli armamenti convenzionali nè, tanto meno, quelli nucleari. Ed in una certa misura, questa gradazione corrispondeva alla realtà: il grado di distruttività di simili interventi non era lontanamente paragonabile a quello di una guerra anche solo convenzionale. Oggi questa classificazione lascia meno convinti, soprattutto per l’accresciuta gravità delle forme di guerra coperta (si pensi all’11 settembre, ma anche alle conseguenze delegittimanti di un brutale intervento cyber che stravolga i risultati elettorali o provochi una grande crisi finanziaria). Certamente dal punto di vista economico i danni di forme di guerra coperta come quelle satellitare, informatica, batteriologica ecc. non sembrano molto lontani da quelli di una guerra convenzionale. Ma anche dal punto di vista del prezzo di sangue la comparazione non sembra più così impari. Ad esempio, l’ipotesi di guerre batteriologiche quasi subito venne accantonata dalle due superpotenze per l’incontrollabilità di attacchi di questo genere che potrebbero facilmente rivoltarsi contro lo stesso aggressore. Ma oggi la ricerca ha permesso di ottenere virus dall’azione molto più selettiva e, chi fosse preventivamente in grado di disporre dell’antidoto, potrebbe anche sperare di ripararsi da una eventuale pandemia. Peraltro, se difficilmente una grande potenza potrebbe indursi a far ricorso ad una simile arma, assai meno sicuro è che non vi ricorra qualche potenza minore (in fondo, a proposito delle armi batteriologiche, si è parlato di “atomica dei poveri”). D’altra parte, anche le armi chimiche oggi presentano una pericolosità maggiore del passato e l’attacco con il sarin alla metropolitana di Tokio ne è stata una avvisaglia.
D’altra parte, il grado di distruttività di una guerra coperta è proporzionale anche al numero di attacchi che esso comporta: un attacco con gas nervino o un attentato ferroviario di per sé comportano molte meno vittime di una battaglia campale di carri o di un bombardamento aereo strategico, ma una fitta serie di attentati del genere potrebbe anche superare questi numeri.
La Guerra Fredda implicò molte forme di guerra coperta, ma essa non ebbe un carattere massiccio e sistematico, nulla esclude oggi la possibilità di un uso molto più esteso e coordinato di azioni del genere.
Peraltro, un attacco sistematico alle reti informatiche di un paese potrebbe sortire effetti difficilmente calcolabili sia sul piano delle distruzioni materiali che delle vittime. E si pensi agli effetti di un attacco che blocchi una o più centrali elettriche.
Soprattutto, esiste ormai la possibilità (anche se non una particolare probabilità) di un attacco nucleare coperto con minibombe. Si potrebbe parlare ancora, in questo caso, di “bassa intensità”?
Infine, non è da accantonare del tutto l’ipotesi di un massiccio ricorso a forme di guerra coperta come preparazione di un attacco convenzionale che costituirebbe solo la “spallata finale” del conflitto. In questo caso, non avrebbe senso parlare di guerra solo per la fase finale.
Dunque, la definizione di “guerra a bassa intensità” non appare più calzante rispetto alla situazione attuale: nell’era della globalizzazione non esiste più una distinzione netta fra pace e guerra e dobbiamo pensare in termini di uno stadio intermedio che può rapidamente progredire o regredire in una direzione o nell’altra.
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