Hanno definito questi anni come la “golden age” della serialità televisiva, con decine e decine di serie tv prodotte ogni anno quasi a getto continuo che, assecondate dalle trasformazioni tecnologiche, hanno finito per stravolgere i palinsesti, modificandone profondamente perfino le modalità di fruizione e facendo nascere canali e piattaforme ad esse completamente dedicati. Si pensi ad esempio al binge watching (o “effetto netflix”) e a come questo per certi versi arrivi ad alterare la percezione che lo spettatore ha di un stesso prodotto televisivo.
Per spiegarci: un conto è assistere alla discesa all’inferno del Walter White di Breaking Bad spalmata su cinque stagioni in altrettanti anni di puntate settimanali, un altro paio di maniche è immergervisi attraverso una visione compulsiva che si esaurisce in poche ore. La storia è quella, ma l’effetto narrativo è assolutamente diverso. Per non parlare poi della costruzione di immaginario che alle serie è associato e che, inevitabilmente, finisce per influenzare anche il nostro mondo politico e culturale.
Nei mesi scorsi la maschera di Salvador Dalì usata da una banda di rapinatori ne “La casa de papel” ha soppiantato quella di Guy Fawkes (V per vendetta) sui volantini e i manifesti delle iniziative politiche, le tute arancioni sono entrate nel dress code delle azioni dei collettivi, e il “noi siamo la resistenza” del Professore e di Berlino è stato il trend topic della primavera 2018.
Un fenomeno, quello del successo delle serie tv, che è stato ovviamente stimolato e cavalcato dalle major del settore e a cui ha corrisposto una crescita vertiginosa dei budget a disposizione delle produzioni (un episodio del Trono di spade arriva a costare circa 10 milioni di dollari), nonché un progressivo trasferimento di registi ed attori provenienti dai piani più nobili del cinema. Alcune volte questo ha significato tempi meno contingentati e libero spazio per la creatività e la ricerca espressiva degli autori (cosa che ha portato alla realizzazione di alcuni piccoli gioiellini), molto più spesso ha invece portato alla “supefetazione” di oggetti di consumo culturale di livello discutibile, buoni solo per l’intrattenimento e vendere abbonamenti e pubblicità.
In questo mare magnum si trova dunque un po’ di tutto, ed è proprio durante una di queste “navigazioni” che ci siamo imbattuti in una serie per certi aspetti anomala. Parliamo di “Deep State”, una serie televisiva inglese in 8 puntate prodotta stranamente dalla Fox, una major dalla fama non propriamente liberal.
+++ attenzione, di qui in poi ci sono degli spoiler +++
Ciò che colpisce di Deep State non è la fattura stilistica o la regia, si tratta di una serie sicuramente godibile, ma non certo annoverabile tra i capolavori del piccolo schermo. Quello che lascia un po’ stupiti è invece la storia e come viene sviluppata dai suoi due autori, Simon Maxwell e Matthew Parkhill.
Il genere è quello strabusato della spy story internazionale e i cliché, almeno all’inizio, sembrerebbero esserci tutti: l’ex agente disilluso richiamato in servizio, il dramma familiare a cui fa da sfondo l’intrigo internazionale, la cospirazione interna alle agenzie di intelligence, ecc. ecc. Insomma un canovaccio arcinoto con cui tante volte in questo tipo di produzioni è stato fatto passare il messaggio (nemmeno troppo subliminale) su quale sia sempre e comunque il campo del bene e quale sia invece quello del male.
Questa volta invece ciò che lascia spiazzato chi guarda è che ad essere indicata come marcia è l’intera struttura dell’intelligence occidentale, completamente asservita al complesso militare-industriale statunitense e impegnata a convincere il mondo che l’Iran stia proseguendo col suo (inesistente) programma nucleare. Senza rinunciare ad alcun mezzo pur di riuscirci: come la falsificazione delle prove, la manomissione dei rapporti scientifici, l’organizzazione di attentati e di esecuzioni extragiudiziarie, fino al terrorismo contro i propri cittadini. La ragione è semplice, perfino banale, con le guerre si fanno i soldi e, come spiega uno dei capitani d’industria coinvolti: si fanno quadrare i bilanci trimestrali.
La scena dell’ultima puntata in cui due banalissimi contabili provano a quantificare i possibili guadagni di una guerra all’Iran vale quasi un testo sul keynesismo di guerra e l’imperialismo e merita perciò d’essere trascritta:
Primo contabile: ...seicentomila per gli stivali, quattro milioni per i calzini, due milioni per le t-shirts, un milione e quattrocentomila per le divise mimetiche, tre milioni e seicentomila...
Manager: A che punto siamo?
Secondo contabile: Novecento milioni duecentottantaduemila dollari e sessantacinque centesimi
Manager: E il carburante?
Primo contabile: Non lo sappiamo ancora signore
Manager: Eravamo arrivati a più di seicento dollari a gallone per inviarlo in Afghanistan, vediamo se possiamo superarli stavolta
Primo contabile: Aggiungi un 10% agli stivali...
Secondo Contabile: Possiamo farlo?
Primo Contabile: In Gibuti abbiamo messo in conto alla Difesa venticinque milioni di dollari per una palestra, fidati, possiamo rincarare gli stivali...
Ecco dunque che in Deep State non esistono mele bacate da eliminare e vertici ignari delle macchinazioni dei piani intermedi, che pure è un leit motiv dei film e delle serie annoverabili in questo genere. Non esiste un controstato che manovra alle spalle del potere legittimo, né dei servizi segreti deviati che tramano nell’ombra, ma, appunto, soltanto uno “stato profondo” di cui, magari anche un po’ ingenuamente, gli autori provano a descrivere la reale natura. Non rientrerà fra le serie “imperdibili”, ma fra quelle non omologate sicuramente si.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento