08/08/2018
Da Marcinelle a Foggia. Depistano sui caporali per coprire gli imprenditori schiavisti
Dopo la strage di sedici di loro, domani 8 agosto i braccianti scioperano con la USB e manifestano dal ghetto di Rignano a Foggia.
Per una terribile coincidenza di date, domani è anche l’anniversario della strage di Marcinelle, in Belgio. L’8 agosto 1956, 136 migranti italiani morirono assieme a tanti altri minatori belgi e di tutta Europa, nell’incendio di una miniera. Fu contemporaneamente una tragedia del lavoro e della emigrazione, a cui tanti italiani erano costretti dalle spaventose condizioni di miseria e disoccupazione del nostro paese.
Oggi un pezzo di Marcinelle è a Foggia, mentre centinaia di migliaia di giovani hanno ripreso ad emigrare dal Mezzogiorno dove dilagano povertà e disoccupazione. È lo sfruttamento del lavoro che è tornato a governare il mondo come e più di sessant’anni fa. E il dominio dello sfruttamento colpisce sia chi per lavoro lascia il nostro paese, sia chi per lavoro viene qui a morire.
I 16 braccianti uccisi a Foggia sono vittime di un incidente sul lavoro “in itinere”. È questo il termine con cui formalmente si definiscono gli incidenti e le morti che colpiscono chi sta raggiungendo o lasciando il posto di lavoro. Per questa ragione i morti sul lavoro, che nelle statistiche immediate arrivano a 800 persone all’anno, poi raddoppiano nel conto ufficiale. Si aggiungono ai morti dentro i posti di lavoro coloro che vengono uccisi mentre ci arrivano o li stanno lasciando.
I 16 braccianti di Puglia dovrebbero essere considerati morti sul lavoro “in itinere”. Dovrebbero, ma non lo sono. Perché per essere riconosciuti come tali si dovrebbe essere assicurati all’Inail, fruire di trasporti concordati con l’impresa che ti assume e naturalmente avere un contratto regolare e rispettato. Se i braccianti avessero visti riconosciuti tutti questi loro diritti di legge, assieme anche a quello di una abitazione dignitosa, molto probabilmente sarebbero ancora tutti vivi. Ma anche se – per il disastro e la colpevole incuria pubblica nella quale sono lasciate le nostre strade come l’esplosione di Bologna contemporaneamente dimostra – se fossero stati egualmente vittime di un incidente stradale al ritorno dal lavoro, quei braccianti e loro famiglie si vedrebbero riconosciuto un risarcimento ora negato.
Che c’entra tutto questo con la denuncia ipocrita che oggi tutto il regime politico mediatico fa della piaga del caporalato? I caporali sono solo l’ultimo anello della lunga catena dello sfruttamento e possono operare solo perché all’altro capo di quella catena c’è chi li usa per aumentare i propri guadagni.
Se i braccianti lavorassero secondo le condizioni della legge e della dignità umana, i caporali non avrebbero nulla da fare. Ma siccome gli imprenditori, agricoli, dell’industria alimentare, della distribuzione commerciale ignorano legge e dignità, e spendono per i braccianti un quinto di ciò che dovrebbero, allora i caporali trovano il loro ruolo.
Il caporalato è un effetto, non una causa, se si vuole colpire lo sfruttamento e distruzione della vita nei campi di Puglia, come di tante parti d’Italia, bisogna guardare in alto, a ricchi imprenditori italiani che stanno in Confagricoltura, Confindustria e nelle associazioni della grande distribuzione. Altrimenti si fa depistaggio, gli schiavisti in doppiopetto restano impuniti e i loro profitti di sangue prosperano.
Ora le autorità parlano di rafforzare i controlli di polizia nelle strade, quando si dovrebbero mandare ispettori nei campi e guardia di finanza negli uffici. Così lo stato è complice del caporalato e protettore degli sfruttatori.
I pomodori che arrivano nelle nostre tavole sono intrisi di sudore e sangue, come il carbone che negli anni 50 giungeva dal Belgio per scaldare le nostre case. Ora come allora, solo la lotta contro gli sfruttatori che stanno in alto può cambiare le cose.
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