Nuovi dazi imposti a prodotti cinesi, per un valore di circa 200 miliardi di dollari. Nuovo attacco nei confronti dell’Europa. Minaccia di ritirare gli Stati Uniti dal WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Negli ultimi quattro giorni Trump ha decisamente riacceso la miccia di un enorme candelotto di dinamite: siamo in guerra, d’altronde. Una guerra commerciale feroce che – come tutte le guerre commerciali – potrebbe portare alla creazione di scenari pericolosi.
Il nemico numero uno, al momento, è la Cina, il principale competitor in ambito commerciale. E’ contro il colosso asiatico che si concentra l’attacco dell’amministrazione Usa, attraverso inedite e clamorose misure protezionistiche.
Secondo alcune fonti citate da Bloomberg, il governo degli Stati Uniti sarebbe sul punto (questione di giorni, pare) di varare nuovi dazi su un totale di 200 miliardi di dollari di prodotti provenienti dalla Cina, che andrebbero ad aggiungersi ai 50 miliardi già sanzionati da tariffe protezionistiche.
Una misura clamorosa, che va a quadruplicare la portata dell’attacco nei confronti di Pechino, da cui ovviamente ci si attenderà una risposta, che potrebbe essere l’imposizione di altrettanti dazi su prodotti americani.
Questo è avvenuto, almeno, nel caso della prima tornata di imposizioni tariffarie da parte di Trump.
Il secondo avversario sembra essere l’Europa: “L’UE è quasi cattiva come la Cina, è soltanto più piccola”. Queste le parole del presidente degli Stati Uniti nel definire le politiche commerciali del Vecchio Continente.
La distensione che sembrava essere stata raggiunta con “l’accordo di principio” di fine luglio sembra quindi molto più virtuale che reale. La battuta è una risposta netta alla proposta di Cecilia Malstrom, commissario al Commercio UE, che aveva proposto l’abbattimento di tutti i dazi sulle auto se gli Stati Uniti avessero fatto lo stesso.
“L’idea non è abbastanza buona”, secondo Trump.
Dulcis in fundo, a connotare ancora meglio – se ce ne fosse bisogno – l’aggressività di questa amministrazione in ambito di politica economica internazionale, l’idea di ritirare gli Stati Uniti dal WTO.
Una provocazione, una delle tante a cui Trump ci sta abituando. Ma la storia di questi quasi due anni di presidenza ci sta mostrando come il personaggio, espressione estrema e senza limiti della classe dirigente statunitense di per sé aggressiva e predatoria, non è tipo da porsi limiti di natura politica, etica, addirittura razionale. Per cui anche una ipotesi simile, l’uscita unilaterale degli Usa dal complesso sistema del commercio mondiale, merita di essere quantomeno tenuta a mente.
Sia chiaro: non stiamo parlando di guerre, aggressioni missilistiche, invasioni, bombardamenti, morti e tutto quello a cui la politica estera statunitense ci ha abituato ormai da un secolo, ma quello a cui stiamo assistendo è molto pericoloso. E’ in atto un confronto violento tra chi ha dettato legge in ambito commerciale e quindi economico e finanziario negli ultimi 70 anni, e chi è in grado di farlo ormai da un decennio. In mezzo, c’è chi prova a tenere botta, e a mantenere in vita le proprie “rendite di posizione”: la vecchia Europa, con tutto il portato di contraddizioni e profonde ingiustizie che porta con sé.
Non stiamo considerando gli altri protagonisti di questa competizione globale multipolare (Russia, India, Brasile, le petromonarchie arabe e via dicendo) a cui è necessario prendere le misure per affrontarne le conseguenze.
L’aggressività di Trump, d’altronde, era chiara ed annunciata, e non solo nell’ambito delle politiche econimiche.
La voglia di risolvere in maniera unilaterale i problemi si esprime in tutte le scelte di questa amministrazione, che tutela i propri interessi e quelli dei propri alleati in maniera netta e priva di qualsiasi sfumatura diplomatica. Non che le passate amministrazioni facessero cose diverse, e forse il fatto che ora anche la maschera del “politically correct” sia caduta è un bene.
E’ notizia recente la decisione dello stesso Trump di tagliare tutti i fondi all’UNRWA, l’agenzia Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi. Fondi già dimezzati in gennaio, e che ora spariscono del tutto.
Il che significa l’azzeramento di servizi sanitari, istruzione, sostentamento e sicurezza alimentare per 5 milioni circa di palestinesi che vivono tra Cisgiordania, Gaza, Giordania, Siria e Libano.
Secondo quanto riferito dai vertici di UNRWA, al momento la prospettiva di poter proseguire nelle attività, al netto di quanto deciso dagli Stati Uniti, è di 30 giorni.
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