Qualche giorno fa, navigando in rete, ci siamo imbattuti in un articolo
di Roma Today in cui si faceva riferimento ad una lettera aperta
inviata da alcune associazioni al prefetto in merito alle sorti della ex
Fabbrica Penicillina Leo, da tempo in cima alla lista degli stabili da
sgomberare. Visto che su questa questione stiamo lavorando da diverso tempo insieme ad altri compagni della Tiburtina (qui, qui, qui e qui),
e incuriositi dal fatto che tra i firmatari c’erano alcune associazioni
che almeno inizialmente avevano condiviso il nostro percorso, siamo
quindi andati a leggerci la versione integrale della lettera.
Si tratta di un appello giusto, nobile, umanamente più che
condivisibile in ogni sua riga e parola, in cui però manca completamente
un pezzo importante di ragionamento sul quartiere e su chi intorno alla
ex fabbrica ci vive, e che proprio per questo motivo corre il rischio
di risultare politicamente inefficace. Comprendiamo l'urgenza di
accendere i riflettori sulle condizioni di chi per necessità è costretto
a sopravvivere in quel rudere pericoloso, ma decontestualizzare
l’ex Penicillina dalle condizioni di abbandono, disoccupazione e
sofferenza sociale che vive quel territorio rischia di lasciare diviso
ciò che invece dovremmo provare ad unire. Dando l’impressione che ci si
interessi solo di chi sta dentro e non di chi sta fuori, degli “ultimi”,
ma non dei “penultimi”.
Sottolineiamo questo aspetto non per fare polemica con gli estensori
della lettera, anche perché sarebbe una cosa stupida oltre che inutile.
Ci interessa di più, invece, provare a ragionare su una forma mentis che
sta diventando maggioritaria tra i compagni e che, nonostante la
buonafede di chi poi la traduce in una pratica politica, rischia di
produrre danni permanenti.
L’impressione, lo diciamo senza troppi giri di parole, è che spesso
tra le nostre fila ci si dimentichi che “le guerre tra poveri” vengono
combattute da almeno due eserciti di poveri, e che se davvero le
vogliamo disinnescare, provando magari a rivolgere la rabbia contro i
veri nemici, dobbiamo recuperare la capacità di saper parlare ad
entrambi gli schieramenti. La capacità di farci carico dei bisogni e
delle richieste di “protezione sociale” anche di chi in quelle periferie
non c’è immigrato, però c’è nato. Senza negare le contraddizioni, che
ci sono, ma provando a superarle in avanti.
Nel dibattito politico statunitense spesso si usa il termine
classista e dispregiativo di “white trash” (spazzatura bianca) per
indicare quella quota di subalterni in precario equilibrio tra
proletariato e sottoproletariato e che spesso rappresentano, soprattutto
negli stati del sud, la base di massa del razzismo e del suprematismo
bianco. Non vorremmo eccedere nei parallelismi, sappiamo bene che la
storia sociale e politica di ogni paese è peculiare, però non vorremmo
nemmeno rimuovere il fatto che nella ridefinizione della divisione del
lavoro internazionale quote sempre più consistenti di proletariato
italiano vengono spinte in una condizione sociale e culturale che, se
non è uguale a quella dei “white trash”, poco ci manca. Se non troviamo
in fretta la quadra, in un paese con cinque milioni di poveri assoluti e
col 12% di lavoratori con salari inferiori alla soglia di povertà,
rischiamo di regalare in maniera permanente pezzi di quello che dovrebbe
essere il nostro blocco sociale a chi su queste contrapposizioni ci
specula e ci costruisce fortune elettorali.
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