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05/02/2019

Fine di un’epoca

di Vladimiro Giacché*

La crisi del 2007 ha dimostrato che la crescita e gli utili nel capitalismo non possono più essere garantiti dalla speculazione finanziaria. È necessario un cambio di sistema.

Per capire la prossima crisi, dovremmo guardare alle origini e all’evoluzione delle precedenti: dal 2000 al 2005, a causa dei bassi tassi di interesse, negli Stati Uniti emerse una consistente bolla finanziaria. Sul mercato immobiliare locale, i prezzi e il numero di contratti di mutuo raddoppiarono. A partire dal 2006, i prezzi iniziarono a scendere. Iniziò a sussistere un problema di eccesso di offerta, ovvero un problema di sovrapproduzione nel settore delle costruzioni. Nel 2007 si evidenziarono i primi problemi con i prodotti finanziari, che avevano a che fare con alcuni prestiti ipotecari statunitensi rischiosi (i cosiddetti mutui subprime).

Quello che segue è noto: massiccia insolvenza dei mutuatari, problemi nei mercati finanziari. Alcuni fondi speculativi e banche specializzate stavano andando in rovina. La crisi si stava diffondendo in tutto il mondo, e sarà la peggiore dagli anni ’30.

Ma perché la crisi è andata così male?

In primo luogo, i mutui subprime erano solo uno degli elementi costitutivi di un enorme edificio finanziario costruito in 30 anni. Nel 1980, la somma di tutte le attività finanziarie globali equivaleva approssimativamente al prodotto interno lordo (PIL) globale. Alla fine del 2007, il rapporto tra queste attività e il PIL (eufemisticamente chiamato anche “profondità finanziaria”) era del 356%.

In secondo luogo, questa ipertrofia finanziaria non era una malattia in sé, ma un “rimedio” (e alquanto intossicante) contro la rivalutazione di un capitale “inadeguato” e contro la massiccia sovrapproduzione del capitale stesso, attraverso le materie prime, nel triangolo del capitalismo maturo (USA, UE e Giappone).

A questo punto dobbiamo fare un passo indietro. A partire dagli anni ’70, abbiamo registrato una crescita sempre più bassa e tassi di investimento in calo, in particolare in Giappone e nell’Europa occidentale. Ciò ha comportato un calo globale dei tassi di investimento rispetto al PIL mondiale, nonostante l’enorme aumento degli investimenti in molti paesi in via di sviluppo, specialmente in Cina. È interessante notare che l’ipertrofia della finanza e del credito, cioè del “capitale produttivo d’interesse” (Karl Marx), si sviluppa parallelamente al caso dell’investimento.

Funzioni di finanziamento

Questa finanziarizzazione ha avuto una triplice ed importante funzione:

1) innanzitutto, ha attenuato le conseguenze del taglio dei redditi da lavoro;

2) in secondo luogo, ha accelerato lo scoppio della crisi di sovrapproduzione nel settore industriale;

3) in terzo luogo, ha offerto diverse opportunità di investimento per il capitale industriale, che ha però registrato una crisi di ripresa proprio nel settore dell’industria, con maggiori prospettive di profitto nel settore finanziario.

In primis trattiamo la riduzione dell’impatto del calo dei salari sul consumo. Cosa significa “sprofondamento dei salari”? In poche parole, dagli anni ’70 in avanti, i salari hanno cessato di beneficiare di una maggiore produttività del lavoro. Ciò significa che la quota di lavoro nel PIL è stata sempre più bassa. Il giornalista finanziario britannico John Plender ha descritto la questione sul Financial Times nell’aprile 2008, nel bel mezzo della crisi: “La caratteristica più evidente della disuguaglianza e del libero mercato negli anni ’80 sono state le poche risposte alla stagnazione del reddito medio, in gran parte delle economie dei paesi altamente sviluppati“.

Secondo Plender, la ragione della mancanza di risposta è che il tenore di vita delle persone con un reddito basso o moderato non è stato più collegato, almeno in parte, a quella che era la crescita salariale. Negli Stati Uniti, la politica monetaria espansiva e i bassi tassi di interesse della Fed hanno causato il credito al consumo e varie bolle finanziarie (l’ultima era la bolla immobiliare). Il risultato fu la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore vede la sua paga scendere, ma continua a consumare ancora quanto o anche più di prima.

Per quanto riguarda la seconda funzione, il rinvio della crisi di sovrapproduzione: la ripresa del credito e della finanza è stata molto utile per le aziende, specialmente per quelle che lavorano nelle cosiddette industrie mature. Grazie al crescente flusso di denaro nei mercati dei capitali, hanno fatto un uso massiccio del credito al consumo, beneficiando di prestiti a tassi molto favorevoli e persino ricavando profitti dalle transazioni finanziarie.

Questa è in definitiva la terza funzione della finanziarizzazione: la speculazione come mezzo di utilizzazione del capitale. Infatti il mercato finanziario offriva alle aziende con problemi di reddito una soluzione estrema: il raggiungimento di profitti attraverso operazioni finanziarie, cioè attraverso attività speculative. Molte aziende hanno risolto così il problema della crisi di recupero del capitale nelle loro aree di business originali.

Prendendo in considerazione lo sviluppo della redditività nei paesi a capitalismo avanzato, si può vedere che dalla fine degli anni ’90, i profitti delle transazioni finanziarie hanno cominciato ad aumentare drasticamente rispetto al PIL e ad altri profitti. Negli Stati Uniti, la quota del settore finanziario sui profitti totali è passata dal 10% all’inizio degli anni ’80 al 40% nel 2007; nel Regno Unito, nel 2008, questa percentuale era addirittura pari all’80%.

Anche questa non è una novità, Marx aveva già affermato che “Tutte le nazioni inserite in un processo di produzione capitalistico sono (...) periodicamente tentate ad indulgere in un ragionamento al limite della truffa: vogliono fare soldi senza la mediazione del processo di produzione” (Karl Marx / Friedrich Engels: Werke [MEW], volume 24. Dietz Verlag, Berlino 1963, pagina 62). Solo una dimensione di grande entità – la dimensione della finanza di oggi – ossia la dimensione del capitale capitale produttivo d’interesse, non conosce confronti storici.

In questo contesto, non hanno affatto sorpreso l’ampiezza e la gravità della crisi scoppiata nel 2007. La crisi è infatti il risultato di oltre tre decenni in cui il saggio di profitto è stato gonfiato dall’estesa finanziarizzazione (vale a dire, un ruolo crescente del capitale produttivo d’interesse).

Dopo la crisi

Persino Lawrence Summers – ministro delle finanze sotto la presidenza Clinton negli anni ’90 e responsabile della deregolamentazione dei mercati finanziari a quel tempo – nel 2014 è stato costretto ad ammettere: “Per circa 20 anni, l’economia statunitense non si è sviluppata ad una velocità e con un tasso di finanziamento sano e conveniente.” In UE o nel resto d’Europa, la situazione non è fondamentalmente diversa.

Sempre secondo Summers: “Guardando retrospettivamente, è chiaro che gran parte della forza che le economie della periferia (UE) avevano prima del 2010 si basava sulla disponibilità di credito a basso costo, e che, allo stesso modo, gran parte della forza delle economie del nord Europa proveniva da un’esportazione incredibilmente finanziata, nel lungo periodo.“

La crescita economica prima della crisi è stata quindi pagata, negli Stati Uniti come nell’UE, con gli squilibri finanziari che hanno poi scatenato la crisi stessa. Per dirlo con le parole di Summers: “La difficoltà, sorta negli ultimi anni, di raggiungere una crescita adeguata esisteva già prima, ma purtroppo è stata offuscata da un’incontenibile finanziarizzazione”.

Dall’inizio della crisi, nel 2007, la situazione è indubbiamente caratterizzata da tassi di crescita e profitto insoddisfacenti. Ci sono, quindi, fondate ragioni per supporre che un’epoca sia giunta alla fine, l’epoca in cui il capitale produttivo d’interesse è stato in grado di sostenere in qualche modo la crescita e i profitti.

Se questa ipotesi è corretta, le conseguenze possono essere considerevoli:

1) in primo luogo, si deteriorano le condizioni di lavoro e di vita di ampie fasce della popolazione. Questo, fra l’altro, può avere un impatto molto negativo sulla domanda interna;

2) in secondo luogo, sarà necessaria ed inevitabile una radicale riorganizzazione di molte aree industriali interessate dalla sovrapproduzione. Ciò si traduce in null’altro che concorrenza agguerrita anche verso i capitali della UE, nelle guerre commerciali, ecc.;

3) terzo, si prevede che la redditività della speculazione diminuirà drasticamente. Nel gergo dei mercati finanziari, ciò significa: “aumento dei premi di rischio”.

Sfortunatamente, l’intero establishment occidentale aveva fatto una scommessa molto diversa durante la crisi: era possibile riparare e riavviare il modello di crescita che si era deteriorato.

A riguardo sono state adottate le seguenti misure:

1) in primo luogo, la socializzazione delle perdite in misura tale da non avere precedenti analoghi. In particolare, sebbene non esclusivamente, è stato sostenuto il sistema finanziario, così negli Stati Uniti come nell’UE. Soprattutto in quest’ultima area, anche se è poco noto, alle banche furono destinati molti più fondi che negli Stati Uniti;

2) in secondo luogo, è stata perseguita una politica monetaria estremamente blanda. Ciò significa che ufficialmente i tassi di interesse sono stati ridotti a zero, ma in realtà sono stati imposti dei limiti ancora più bassi;

3) in terzo luogo, è stata avviata una politica monetaria “non convenzionale”, ad esempio con l’acquisto di titoli da parte delle banche centrali per sostenere i mercati finanziari in difficoltà.

In sintesi, la politica del “tasso ad interesse zero” delle banche centrali ha spinto il debito mondiale a salire più velocemente rispetto alla crescita del PIL globale. Dal 2007, il debito è aumentato di 172 trilioni di dollari. Il volume di titoli emessi da società non finanziarie è all’incirca triplicato nell’ultimo decennio.

I titoli di stato USA non hanno subito una sorte diversa: sono in crescita dal 2008, indipendentemente da chi è il presidente. Ma attenzione, una sorpresa ci attende: la maggior parte delle obbligazioni USA viene ora acquistata da investitori statunitensi piuttosto che da quelli esteri.

La crisi scoppiata nel 2007 è diventata globale, causando una considerevole distruzione di capitali in tutto il mondo. Ma evidentemente ciò non è bastato a ripristinare la redditività soddisfacente del capitale impiegato e a dare nuovo impulso all’accumulazione di detto capitale. Ciò non è accaduto, nonostante l’enorme socializzazione delle perdite e la politica monetaria estremamente accomodante delle banche centrali. Ciò significa che i sintomi di una nuova crisi in arrivo, una bolla speculativa che scoppierà presto, sono reali, difficili da negare.

Alcuni di questi sintomi sono:

1) in primo luogo, la divergenza fra il valore di borsa di un titolo e il profitto reale della società corrispondente. A questo proposito, Marx ha parlato di “un intero sistema basato sulla frode e di frode in relazione allo scambio di azioni” (MEW 25, pag 454). Un esempio recente di questa condizione è la difformità tra le enormi perdite del produttore statunitense di auto elettriche Tesla e le attività dei dirigenti senior del gruppo, aumentate enormemente, a causa dell’aumento dei prezzi delle azioni in termini nominali;

2) in secondo luogo, il recupero di azioni proprie da parte delle società quotate, il cosiddetto riacquisto, per sostenere il prezzo delle azioni stesse. Questi riacquisti oggi sono più consistenti rispetto ai cicli economici passati;

3) in terzo luogo, le famiglie si sono fortemente indebitate, anche più di prima della crisi del 2007. A quel tempo, negli Stati Uniti ci si indebitava per comprare una casa, ora anche solo per pagarsi un corso di laurea.

Purtroppo si vedono nuovi segni di crisi all’orizzonte. Quale potrebbe essere la miccia che dà fuoco alle polveri questa volta?

1) in primo luogo, la fine della politica dei tassi ad interesse zero delle banche centrali;

2) secondariamente, una crisi del debito nelle economie emergenti dei cosiddetti paesi in via di sviluppo o in paesi già evoluti;

3) in terzo luogo, il fallimento attraverso il debito privato o titoli smarriti;

4) quarto, deludenti risultati trimestrali di grandi società con un effetto deprimente sui prezzi delle azioni.

Una cosa è certa: come nel 2007, il problema principale sarà l’improvviso prosciugarsi della liquidità anomala che è stata pompata nel sistema negli ultimi anni. E’ solo una questione di tempo, specialmente in un contesto internazionale in cui la minaccia delle guerre commerciali sta aumentando e l’Unione Europea neoliberale non è in grado di districarsi dalla sua trappola dei salari in declino e quindi dalla minaccia di deflazione.

Cosa fare? Ci sono vie d’uscita?

Possiamo considerare quattro diverse soluzioni. Le formulo per maggiore chiarezza nella lingua dell’informatica, nel gergo utilizzato quando si usano i computer:

1) Prima soluzione: restart o riavvio. Ciò significherebbe riavviare l’economia mondiale dopo l’errore di sistema del 2007; “riavviare” ma senza mettere in discussione la centralità del capitale produttivo d’interesse. Questo tentativo è già stato fatto, come abbiamo visto. E non ha funzionato.

2) Seconda soluzione: shift o trasferimento. Spostamento della redditività da interesse a capitale produttivo. L’unico approccio in politica economica di questo genere nel mondo, vale a dire rivitalizzare l’economia globale attraverso gli investimenti, è il progetto cinese noto anche come One Belt, One Road. Si tratta di investimenti infrastrutturali che hanno un duplice obiettivo: la risoluzione degli strozzamenti nello sviluppo economico dei paesi sottosviluppati e la promozione degli scambi commerciali tra l’Asia e l’UE. Questa proposta presuppone, tra le altre cose, la possibilità di riportare in primo piano la produzione e di assegnare solo una funzione subordinata al capitale produttivo d’interesse. Tuttavia, questo richiede un enorme quantità di capitale produttivo d’interesse.

3) Terza soluzione: reset o azzeramento. Lawrence Summers ha menzionato un’altra via d’uscita quando dichiarò: “Alvin Hansen (1887-1975, economista statunitense, jW ) ha sottolineato il pericolo di una stagnazione secolare alla fine degli anni ’30, giusto in tempo per sperimentare da li a poco il boom, da lui stesso osservato e seguito, che ha segnato l’avvento della seconda guerra mondiale. È del tutto possibile che si arriverà ad un evento esterno di grande portata così che (…) le preoccupazioni che ho citato (stagnazione secolare, VG) diventino prive di significato. A parte la guerra, però non è chiaro quali eventi possano accadere.” Possiamo considerare questa soluzione inquietante come un “reset” piuttosto drastico. Significa: distruzione fisica del capitale esistente come mezzo di recupero dell’accumulazione.

4) Quarta soluzione: installare un nuovo sistema operativo. Questa è l’unica soluzione logica. Deriva dall’interpretazione della crisi, scoppiata nel 2007, visto come “errore di sistema”.

Il semplice riavvio, oltre a non aver dato soluzione al problema, ha sostanzialmente rafforzato la disuguaglianza. L’estrema politica monetaria, che ha aiutato soprattutto la ripresa dei mercati finanziari, ha distribuito ricchezza secondo il motto “capitale, anziché lavoro”. Nel 2016, l’economista di Harvard David Lizoain ha descritto le conseguenze come segue: “Lo status quo non è più in grado di garantire ciò che prometteva”. Ecco perché non è più vero oggi ciò che John Plender osservò nel 2008: ora le “reazioni” sulla stagnazione del reddito medio” sono tutt’altro che insignificanti.

Le reazioni di queste popolazioni sono solitamente stigmatizzate come “proteste populiste”. E sono semplicemente dirette contro l’incontrollata “iperglobalizzazione”, contro l’integrazione dei mercati mondiali determinati dal capitale produttivo d’interesse. Ora queste proteste cercano un nuovo equilibrio di potere tra la globalizzazione e gli stati nazionali, ma soprattutto tra mercati finanziari e democrazia. Si tratta principalmente di restringere i flussi di capitali internazionali. Il potere illimitato dei mercati finanziari globali dovrebbe essere fermato.

In questo contesto, dovremmo evitare la pericolosa illusione nell’Europa dell’Unione: l’UE non può proteggerci da questa globalizzazione neoliberale. E’ vero il contrario: il Trattato di Maastricht è il miglior esempio di una quasi-costituzione neoliberale, con tutto ciò che ne consegue: deflazione forzata dei salari, negazione dei diritti sociali, ideologia della “non disponibilità”, egemonia del capitale produttivo d’interesse.

La questione della proprietà

Ciò ha sollevato seriamente la questione della contraddizione tra i trattati europei e alcune costituzioni nazionali negli ultimi anni. La lotta contro la globalizzazione neoliberale è anche una lotta contro l’UE neoliberale. Ma questa lotta deve essere arricchita nei contenuti. Deve diventare una lotta per il recupero della centralità della questione della proprietà. Come sapete, l’analisi marxista della crisi conduce esattamente a questa conclusione.

Secondo Marx, la crisi è, da un lato, parte integrante del normale funzionamento del modo di produzione capitalistico, ma dall’altro un sintomo: “La crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società si esprime, in termini di precedenti rapporti di produzione, con contraddizioni nitide, crisi e convulsioni” (Marx: Grundrisse Dietz-Verlag, Berlino 1983, pagina 642).

Le crisi sono sintomi di un “errore di sistema” e quindi della necessità, come dice Marx, di “uno stadio superiore della produzione sociale” (un nuovo “sistema operativo”) che non deve più basarsi sulla proprietà privata, ma sulla proprietà socializzata dei mezzi di produzione.

Negli ultimi decenni, specialmente dopo la fine dell’Unione Sovietica e del socialismo in Europa, anche la possibilità di uno “stadio superiore della produzione sociale” come utopismo astratto e generalmente totalitario è stata respinta. Ma è proprio la realtà del modo di produzione capitalistico e delle sue contraddizioni che – ancora e sempre di più – indicano la necessità di riorientarsi verso quell’obiettivo.

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* Vladimiro Giacché, nato nel 1963, è economista e presidente del Centro Europa Ricerche a Roma. Dal 1995 al 2006 ha lavorato per Mediocredito Centrale, l’ex banca di sviluppo statale italiana. Dalla fine del 2007 è socio del gruppo finanziario Sator.

** Vladimiro Giacché, da Rosa-Luxemburg-Konferenz, supplemento a “die junge Welt” del 30.1.2019, sezione “Capitale e lavoro. Traduzione di Francesco Spataro

https://www.jungewelt.de/beilage/art/347610

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