di Michele Giorgio – il Manifesto
Beirut allagata e
paralizzata dalla pioggia. Strade trasformate in fiumi nel centro così
come nei quartieri più degradati della capitale. Allagato in parte anche
l’aeroporto internazionale Rafiq Hariri. A ciò si sono aggiunti gli
abituali blackout dell’energia elettrica. Il maltempo ha messo a nudo la fragilità delle infrastrutture civili del paese,
uno dei disastri nazionali che lo scorso 17 ottobre e nelle settimane
successive hanno spinto centinaia di migliaia di libanesi a protestare
contro il governo, la corruzione, la disoccupazione, il carovita e il
settarismo politico che contribuisce a paralizzare l’economia e la
gestione dei servizi essenziali. Proteste che sino ad oggi non
hanno generato alcun cambiamento ma solo accresciuto la tensione tra le
forze politiche contrapposte. E ora i libanesi assisteranno al probabile ritorno sulla poltrona di primo ministro del leader sunnita Saad Hariri, sei settimane dopo le sue dimissioni sotto l’urto delle manifestazioni popolari.
Il nome di Hariri è riemerso domenica, quando l’imprenditore
Samir Khatib ha ritirato la sua candidatura a nuovo premier. Il Gran
Mufti, Sheikh Abdul Latif Derian, il più importante religioso sunnita in
Libano, si è espresso a sostegno di Hariri bruciando così il nome di
Khatib, un uomo d’affari che si era detto pronto a rimettere in
ordine i conti del Libano, un piccolo stato ma tra più indebitati al
mondo (83 miliardi di dollari) e con un deficit pubblico all’150% del
Pil. Domenica sera Hariri ha incontrato Khatib per dirgli che l’unico
giocatore nel campo sunnita resta lui. Quindi sono state rinviate di una
settimana le consultazioni, previste ieri, tra il capo dello stato Aoun
e i partiti politici sulla designazione del nuovo primo ministro.
Non occorre essere degli esperti di politica libanese per
intuire che lo stop a Khatib, pronunciato dalla massima autorità
religiosa sunnita, è frutto anche di pressioni dall’estero, con ogni
probabilità dell’Arabia Saudita che pur avendo perduto in parte
la fiducia in Hariri – agli occhi di Riyadh troppo arrendevole nei
confronti del “nemico”, il movimento sciita Hezbollah alleato dell’Iran –
non ha ancora trovato un sostituto valido. E lo stesso vale per
la Francia, altro punto di riferimento di Hariri, che domani si
appresta ad aprire una nuova conferenza di donatori per il Libano.
L’anno scorso a Parigi furono decisi aiuti al paese dei cedri per 11
miliardi, condizionati però all’attuazione di un piano di riforme
economiche radicali. Riforme non realizzate o solo abbozzate con
riflessi negativi che si sono abbattuti sulle categorie sociali più
deboli gettandole nella disperazione alla base delle proteste di queste
settimane.
Hariri in nome dell’efficienza e delle riforme insisterà per
la formazione di un governo di tecnici e non di politici, uno
stratagemma volto anche, se non soprattutto, a tenere fuori
dall’esecutivo i partiti sciiti Hezbollah e Amal che, ovviamente, non
sono d’accordo. Nel frattempo il paese sprofonda: le banche
attuano rigidi controlli sui capitali, i dollari scarseggiano e la lira
libanese ha perso un terzo del suo valore al mercato nero. L’emorragia
di posti di lavoro è incessante. Solo nell’ultima settimana oltre 60
aziende hanno annunciato il licenziamento di tutti i dipendenti.
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