Siamo passati, nell’arco di pochi giorni, da una dinamica politica faticosa e caotica – una serie di inutili tentativi di accordo tra varie formazioni e finanche con singoli senatori o deputati, per arrivare ad indicare un presidente del consiglio e uno straccio di programma – all’esatto opposto: c’è un presidente del consiglio, che ha un programma – indicato dall’Unione Europea, e dunque anche da lui stesso da almeno dieci anni – e tutti corrono a baciargli i piedi.
Più precisamente, siamo passati da una dinamica di tipo parlamentare a una decisione extraparlamentare (per quanto prevista dalla Costituzione), fondata soprattutto sulla forza (il “prestigio” del nome è il modo che rende la forza meno “inaccettabile”; in fondo non è un generale, forse qualcosa di peggio).
Dall’anarchia alla monarchia il passo è stato brevissimo.
Qui non ci occuperemo né del programma, né del capitale finanziario multinazionale che ha preso in mano la situazione e farà carne di porco di quel che resta del “sistema paese”. Ne abbiamo già cominciato a parlare e non mancherà occasione nei prossimi giorni.
Ci limitiamo all’aspetto politico.
Il passaggio dall’anarchia alla monarchia infatti cambia le regole del gioco per tutti. Non si combattono le stesse battaglie, né si combatte nello stesso modo. Ma cambia anche l’identità di ogni soggetto in campo, che deve ridefinirsi per potersi poi “presentare” sullo scaffale del supermercato politico.
Chi lo appoggerà non se ne potrà distinguere, se non lavorando di fantasia “narrativa”; chi si opporrà farà vita dura, ma avrà una chance. Forse.
Il ventaglio dei gruppi presenti in Parlamento si va rapidamente allineando nell’anticamera del monarca, e l’unica battaglia che fanno è dichiararsi subito più realisti del re.
Qualcuno sembra esitare, nelle dichiarazioni pubbliche. Ma sappiamo bene che nella politica borghese è “normale” dire una cosa, pensarne un’altra e farne una terza. Dunque teniamo quelle dichiarazioni presenti solo come segnali di uno slittamento progressivo nell’asservimento.
Lo “zoccolo moscio” che non ha esitato nemmeno un attimo nel gridare “viva il re” è stato ovviamente l’“europeismo” di lungo corso, ossia i camerieri italici del capitale multinazionale: Pd, renziani, le Bonino e i Della Vedova, i Calenda e via scendendo.
Primo dato politico: in questo mazzo c’è ora anche Berlusconi. E qui sparisce uno degli spauracchi agitato per quasi 30 anni davanti al naso degli idioti “di sinistra”. Il Caimano è un socio “ottimo e abbondante”, un onore averlo accanto a corte. E chissenefrega della P2 o della nipote di Mubarak, del lodo Mondadori e della corruzione dei magistrati... mica riterrete ancora imbarazzanti quei “pidocchi” nella criniera del Cavaliere, no?
Alla lunga lista dei “mai più con...” si aggiungono i grillini. O perlomeno la parte maggioritaria dei gruppi parlamentari, tranne qualche maldipancia più o meno isolato. Altra cosa accadrà probabilmente nei pochi meetup ancora attivi e, soprattutto, nell’elettorato, che si vede sbattere in faccia l’ultimo mattone di quello che solo tre anni fa sembrava un edificio valoriale robusto e “vincente”.
Ma lo shock deve essere stato forte, se il blog del fondatore, a tre giorni dall’”evento”, ancora non riesce a darne notizia...
Dei “gruppi minori” non serve parlare. Ovviamente fanno la fila come gli altri per baciare la scarpa regale...
E veniamo all’area indicata dal “campo progressista” come il nemico assoluto (fino a 48 ore fa ne faceva parte anche Berlusconi, ma si dimentica in fretta): i “sovranisti”, “le destre”, “il pericolo fascista” e via esagerando.
Gente che fa schifo, è vero, ma che in questa nuova circostanza si dimostra grandemente “malleabile”. Dunque utilizzabile e persino “meno repellente” del solito. Quasi “democratica”...
Il massimo dell’ostilità è stato annunciato dall’ex missina Giorgia Meloni: prima “astensione”, ossia non mi pronuncio, aspetto di capire, vedremo...
Poi, col passare delle ore, toccando con mano lo smottamento nella presunta “alleanza di ferro” del centrodestra, ha cominciato a intuire lo spazio “di comodo” che potrebbe esserle lasciato a disposizione: l’opposizione della corona, quella verbale e compatibile con la finzione della democrazia. Un ruolo sulla scena, nulla di più.
Nella Lega – come avevamo provato a spiegare per un anno e mezzo – i giochi si vanno ridefinendo ma sembrano ormai fatti: “ci vogliamo stare anche noi”. Detto quasi chiaro e tondo da Giorgetti, Zaia, e persino da presunti pasdaran no-euro come Claudio Borghi e Alberto Bagnai.
A quel punto anche Matteo “mohito” Salvini ha dovuto tirare le somme, pur lasciandosi l’uscio socchiuso dietro la cadrega: “Se ci siamo, non facciamo le cose a metà”.
La sostanza – le cose che verranno fatte – è chiara: anche la Lega voterà il governo più europeo che si possa immaginare, guidato da un leader della Troika, colui che nel 2015 aveva bloccato i bancomat della Grecia fin quando Tsipras non ha alzato bandiera bianca.
Poi ci sono le chiacchiere per i taccuini dei giornalisti, le finte alternative (“o noi o Grillo”), la guazza per rassicurare una base elettorale che deve essere un po’ più che perplessa. Ma ci penserà “la Bestia” – il team social ai suoi ordini – a cercare di recuperare smalto dopo quello che non può che apparire come un “tradimento”.
Dunque? Lo scenario non lascia molti dubbi. A sostenere Draghi in Parlamento ci saranno tutti. L’unica possibile autoesclusione – non ancora sicura, ma per un puro calcolo elettorale – potrebbe essere appunto la squadretta di Giorgia Meloni. Anche se il “tono” è tutt’altro che barricadiero. Basti pensare a Crosetto che, indicato per scherzo come possibile ministro o sottosegretario all’economia, non si è affatto offeso; anzi si è schermito dicendo “non sarei all’altezza”.
Che è poi la realtà più vera della “pericolosissima” destra italiana attuale: abbaiare scompostamente fin quando c’è da catturare qualche attenzione e voto sparso, ma sapendo che – quando il gioco si fa serio e vengono avanti i padroni del vapore – il proprio posto è “a cuccia”.
Facendo finta che ci sia qualcuno “a sinistra”, in Parlamento, bisogna riferire addirittura di LeU, che sarà della partita in modo speculare a quello della Lega: a parole “mai con i sovranisti”, in pratica “ci stiamo subito”.
Tra l’altro, ma non del tutto secondario, il fatto che staranno “tutti dentro” distrugge anche quel minimo potere di ricatto di qualsiasi gruppo parlamentare. La grande ammucchiata rende tutti “responsabili” alla Scilipoti...
Tutti uniti, tutti insieme... ma quello non è il padrone? (cit.)
Fuori dal divertissement, dalle battaglie tra nani da giardino che tanto appassionato i conduttori da talk show, è evidente che le “identità” fissate negli ultimi anni vengono piuttosto scarabocchiate. E che le varie “narrazioni” debbono essere riscritte.
Tutti quelli che da destra volevano abbattere “i governi di sinistra” (il Conte-bis!) e/o “uscire dall’euro” vanno a sostenere – insieme alle “sinistre” – l’esecutivo della Troika, che dovrà realizzare in pochi mesi proprio il programma di “riforme” cui dicevano di opporsi.
Tutti quelli che “da sinistra” (non ridete troppo, per favore...) invitavano a prepararsi all’ennesimo “grande mischione elettorale per non far vincere le destre” vanno ora a spingere il tasto, insieme alle peggiori destre, per far passare le “riforme” volute dal capitale finanziario multinazionale (contro cui magari erano scesi in piazza a Genova, nel 2001).
Dal bipolarismo obbligato (Berlusconi-Pd) al tripolarismo pasticciato (la breve stagione iniziata nel 2018), e ora al monopolio del potere che si è preso in prima persona anche il governo.
Gli analisti politici di regime, colti di sorpresa dal proprio stesso successo, fanno ancora fatica ad uscire dal pettegolezzo quotidiano tra nani da giardino cui s’erano abituati. Fantasticano di possibile “veti” – rigorosamente incrociati – tra una “sinistra” che non potrebbe accettare di stare al governo con Salvini e una destra che, viceversa, ha lo stesso problema. O addirittura di “pretese” circa poltrone da ministro, come ai bei tempi dell’anarchia para-parlamentare.
Eppure Sergio Mattarella è stato chiarissimo: “Avverto pertanto il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica”.
Traduzione simultanea: “io vi do un presidente del consiglio che non può essere sfiduciato, che farà il governo che ritiene opportuno e voi lo dovete soltanto votare senza nulla a pretendere“. È un azzeramento della classe politica emersa nel dopo-Monti, la quale – dunque – non ha più alcun potere contrattuale reale. Né alternative da offrire.
Le formule per camuffare un governo del presidente (o dell’Unione Europea) da “normale governo politico”, in cui ogni partito possa dire di essere in qualche modo rappresentato, sono praticamente infinite. Ogni “tecnico” può agevolmente essere accostato – solo accostato, senza alcuna dipendenza – a una qualche area politica.
Ma il nuovo governo nasce per segnare una discontinuità radicale con l’Italia degli ultimi 30 anni. Tanto a livello di sistema economico, quanto a livello istituzionale e politico.
Le future forze politiche del “nuovo arco costituente” si dovranno distinguere avanzando le proposte di legge più innocue (la “chiusura dei porticcioli” o gli sgomberi per il “decoro urbano”, la legalizzazione dei matrimoni tra dromedari alpini, la depenalizzazione dell’aperitivo, ecc.), ma tutte rigorosamente a costo zero. Le chiavi della cassaforte, da oggi in poi, stanno nelle mani di colui – e successori – che viene messo sul trono dai “mercati” e dalla Ue.
L’”era Draghi” non è insomma una “parentesi”, dopo la quale si potrà tornare alla “normalità” e dunque all’anarchia della politichetta tra complici rissosi. È un periodo costituente, in cui si crea l’architettura del futuro “modello sociale europeo”. Che non ha però più niente a che fare con il vecchio “compromesso keynesiano in funzione antisovietica” (salari alti e welfare, in cambio di coesione politica e bassa conflittualità sociale).
Non è più tempo di “debito cattivo”, spiegava lo stesso Draghi già la scorsa estate (non caso ai boss di Comunione e Liberazione, imprenditori istituzionali della “sussidiarietà” e del “terzo settore” più addentro alle amministrazioni).
Il “debito buono”, che merita d’esser fatto con investimenti pubblici (col Recovery Fund e altro), è quello che crea e innerva nuove filiere, buone per grandi profitti e ben poca occupazione.
Il resto – anche imprenditoria di lungo corso – può, anzi deve, morire. Far vivere le popolazioni non è affare del capitale, ormai...
Sul piano della rappresentanza politica degli interessi sociali, insomma, si allarga a dismisura lo spazio per chi si vuole porre come un’alternativa radicale. Ma gli spazi non si occupano a forza di chiacchiere.
Non si può combattere contro il governo della Troika avendo remore nel chiamare le cose col loro nome, tacendo o minimizzando il ruolo dell’Unione Europea nel governo effettivo – e di classe – del nostro Paese (oltre che degli altri con problemi simili ai nostri). Non si combatte efficacemente contro gli ologrammi dai contorni incerti.
E non si può affrontare un incrudimento delle politiche neoliberiste con la solita lista della spesa delle “parole d’ordine progressiste”, senza cominciare mai a delineare una robusta ipotesi sistemica socialista, con programmazione-pianificazione-pubblicizzazione dei settori strategici, sottraendoli alla speculazione dei privati.
Lo abbiamo visto con la pandemia e lo scandalo dei vaccini: un continente con mezzo miliardo di persone, ricco di risorse, talenti e know how, a ricatto di tre-quattro multinazionali Big Pharma, che decidono a chi dare i loro prodotti in base a una pura ragione commerciale, addirittura in barba ai contratti sottoscritti.
Non si può insomma condurre una resistenza popolare senza mettere in campo una visione “di alto profilo” – per parafrasare il livello della sfida e dell’avversario – senza delineare un altro sistema per vivere. D’altro canto dovrebbe essere scontato: se la prospettiva sistemica del “governo di tutti” è tener saldo il collante euro-atlantico, una alternativa vera può esistere solo fuori di quel vischioso insieme.
Il problema politico del nuovo scenario si pone concretamente subito: nel 2021 bisognerà votare nelle prime cinque città italiane – in teoria entro l’estate, ma con la pandemia... Un voto amministrativo che però, per la portata della popolazione coinvolta, è anche un primo test politico generale sul rapporto tra malessere sociale e rappresentanza politica in questa nuova situazione.
Le “alleanze” possibili non potranno essere i soliti “mischioni” per tenere insieme chi fa lo scendiletto alla corte del monarca e chi si pone come alternativa complessiva, socialista. Non si tratta più di dirsi “alternativi al Pd e alle destre”, ma di esserlo concretamente, nelle pratiche oltre che nella “narrazione” di sé.
Perché il Pd (e LeU, se resteranno ancora due sigle formalmente diverse), sostiene l’agire incontrastato del monarca finanziario.
Quindi stanno a corte con tutti gli altri. Ossia con quelle destre contro cui erano abituati a chiedere un voto turandosi il naso.
Altro ciclo, altro gioco...
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