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07/04/2025

Bagno di sangue nelle borse, la crisi ora si vede...

“In borsa si sale con le scale, si scende con l’ascensore”. La vecchia massima dei broker più esperti descrive con buona precisione gli andamenti classici delle quotazioni azionarie, anche se questa volta – bisogna ammettere – “si scende anche dalla finestra”. A grande velocità, insomma...

Il “terremoto Trump” è ovviamente stato il segnale del “si salvi chi può”, perché dazi di quelle dimensioni, quasi sempre aggiuntivi a quelli giù applicati dagli Stati Uniti, tagliano le gambe a molte aziende esportatrici costringendole in una “alternativa del diavolo”: spostare parte della produzione negli Usa oppure assorbire i dazi rinunciando a buona parte dei propri profitti.

La seconda scelta può esser fatta solo da chi applica “ricarichi” molto consistenti sui prodotti destinati agli Stati Uniti (buona parte del made in Italy, alimentare e vini su tutto), ma sotto la soglia del lusso i problemi si fanno pesanti.

La chiusura già disastrosa di Wall Street, venerdì sera (oltre 5% sia per i Dow Jones che per il Nasdaq), ha spinto sul precipizio le borse asiatiche, che normalmente “seguono” la direzione delle piazze statunitensi. Il botto speciale di Hong Kong (12,54%) è però dovuto al fatto che venerdì era un giorno festivo per la Cina, quindi la perdita odierna somma i cali di due giornate da incubo.

Stesso discorso per le europee, tutte sotto panico con crolli tra il -5 e il -6%. A Milano per parecchio tempo non riuscivano a “fare prezzo” quasi la metà dei titoli (le offerte di acquisto erano inferiori di oltre il 10% rispetto alla chiusura di venerdì, facendo così scattare la sospensione temporanea dalle contrattazioni).

Coinvolti titoli “insospettabili” di debolezza, come Leonardo – industria militare semi-pubblica che pure ha beneficiato fin qui alla grande del clima di corsa al riarmo benedetta dall’“Europa” – e quasi tutti i titoli bancari.

La spiegazione, anche in questo caso, è semplice: è vero che a soffrire i dazi sono le imprese manifatturiere, ma quelle imprese hanno sviluppato piani di produzione chiedendo prestiti alle banche. Le quali ora cominciano a temere che quei soldi “faranno fatica” a tornare indietro, alimentando l’infinita discarica dei “crediti deteriorati”, prima o poi destinati al macero della “cartolarizzazione” su cui vivono i “prodotti derivati” della finanza speculativa.

Naturalmente è facile “dare la colpa a Trump”, e certamente la brutale faciloneria con cui si sta muovendo il suo staff fatto di miliardari non aiuta a distinguere processi di lungo periodo e paccottiglia di breve momento. Il fatto certo è però che l’economia Usa – e quindi la tenuta sociale interna – era sotto stress da anni, per una lunga serie di ragioni.

La più nota si chiama “delocalizzazioni”, ossia il trasferimento di migliaia di industrie di proprietà Usa verso siti produttivi dei “paesi emergenti”, dove il costo del lavoro era infinitamente più basso. La salute delle imprese, però, non si è più tradotta – se mai lo è stata – in benessere del Paese. Anzi. La bilancia commerciale è andata progressivamente in una voragine da cui ogni tentativo di uscita – specie attraverso “dazi col trucco” – comporta squilibri mondiali paurosi.

Stesso discorso per il debito pubblico e privato (più preoccupante del primo), che implica per un verso la necessità di pagare interessi crescenti (se non in percentuale, vista la forza residua del dollaro, certamente in cifre assolute) bloccando non solo gli investimenti pubblici ma anche la spesa corrente, persino quella militare, strategicamente centrale da almeno 80 anni.

Un quadro così critico da costringere persino un vicedirettore del Corriere, iperliberista da sempre, a parlare della “lotta di classe negli Usa” come motivazione reale per il ritorno di Trump alla Casa Bianca e per le devastanti “ricette” che va applicando. Ma è chiaro che il sistema statunitense, così com’era strutturato, è arrivato a fine vita. Così come è chiaro che qualsiasi tentativo di “resuscitarlo”, per di più nelle forme quasi pre-moderne che stiamo vedendo, deve inevitabilmente provocare fortissime turbolenze.

L’era della “globalizzazione” neoliberista si chiude col solito disastro generale, evidenziando – tra l’altro – come la “finanziarizzazione dell’economia” non abbia “generato valore”. Al contrario, lo ha sottratto per parecchio tempo a quanti lo producevano davvero (i manifatturieri, in generale). Ed ora chi ne aveva tratto il massimo beneficio deve per forza pagare dazio.

Ops...

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