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02/05/2013

Letta sbatte contro il muro di Berlino


Come previsto, Enrico Letta esce a mani vuote dall'incontro con Angela Merkel. Del resto la sua credibilità internazionale - personale e del suo governo, handicappato dal ruolo concesso a Berlusconi - è minima.

Tutti vanno a Berlino a chiedere la stessa cosa: un allentamento del "rigore", in forme sempre fantasiose per non far adirare l'"alleato" tedesco. E tutti tornano con un risultato quasi identico: nulla o ben poco (un riscadenzamento degli impegni europei sottoscritti, ma soltanto nei casi più disperati).
Fin dopo le elezioni d'autunno, cui Merkel lega ogni parola pronunciata in pubblico, nessuno può sperare che la Germania cambi linea.
Enrico Letta ha provato a suonare la canzone delle "politiche della crescita", da spingere con lo stesso vigore mostrato nella fase del "rigore". Ma si presentava con alle spalle un discorso programmatico che - se effettivamente realizzato - comporta vistosi aumenti di spesa (la cifra levita a seconda degli analisti, ma supera ormai stabilmente i 20 miliardi), per i quali non ha indicato copertura finanziaria. Non proprio il massimo della serietà, secondo i criteri contabili in vigore non solo a Berlino, ma in qualsiasi condominio.
Se dovesse ulteriormente cedere al ricatto berlusconiano - via l'Imu e restituzione della tassa, il primo petardo messo sulla sua strada - questo governo si farebbe subito notare in Europa per essere in "discontinuità" forte con Monti, subendone immediatamente le conseguenze in termini di "affidabilità percepita" da parte dei "mercati internazionali". E proprio qui si gioca la difficoltà pressoché irrisolvibile del "compromesso" euro-statunitense che vigila sull'esperimento del governo Letta. Forte sulla carta e nei numeri parlamentari, fragilissimo fino all'inconsistenza su quello strategico.
Compromesso che avrebbe avuto una logica "alta", dal punto di vista strettamente capitalistico, se non dovesse passare attraverso gli interessi di un blocco sociale che invece - proprio dal punto di vista capitalistico - è una palla al piede sulla strada del "risanamento". Per di più, questa oggettiva contraddizione tra interessi divergenti è "mediata" da un soggetto che non ha corrispettivi in altri paesi né europei né americani, e che non mantiene nessun patto, con chiunque l'abbia sottoscritto.
A pensarci bene, dopo venti anni di berlusconismo, pensare di poterci fare un "accordo stabile", per gestire una fase economicamente durissima, che obbligherà qualunque governo voglia restare in questa Unione Europea a mettere in atto politiche crudelmente antipopolari, è una manifestazione di idiozia assoluta. Altro che il "riconoscimento della realtà" invocato da Letta (e Napolitano) all'atto della presentazione del nuovo governo. Come si fa a fare accordi stabili con chi da sempre ne firma uno la mattina per rovesciarne il senso nel pomeriggio? Come si fa a fare accordi con chi li usa solo per migliorare le proprie posizioni sul terreno di una "guerra civile interna" perenne?
Un'idiozia "obbligata", direbbero i piddini in servizio permanente effettivo, perché altre maggioranze non sono praticabili (l'Aventino di Grillo, ecc). Ma è falso. Un altro presidente della republica - già Prodi sarebbe stato sufficiente - avrebbe governato in altro modo il passaggio. E questo "obbligo derivante dal realismo" non si sarebbe presentato in questa formula che consegna al Caimano le chiavi della "governabilità". Ma di chi è la responsabilità principale della "riconferma" (anch'essa presuntamente "obbligata") di Napolitano? Del Pd, in primo luogo, incapace di trovare al suo interno una sintesi reale.
Qui si verifica con mano l'oggettiva inadeguatezza della "classe politica" italiana rispetto ai compiti assegnati dalla Troika. La parte "affidabile" di questo ceto dirigente non ha e non avrà mai i consensi elettorali necessari a governare; e le altre parti sono bande che si riuniscono o sciolgono a seconda del bottino da spartire.

Preoccupazioni inutili, per dei comunisti? No. Abbiamo detto mille volte, e non smetteremo, che la configurazione del campo in cui si produce il conflitto è uno degli elementi di cui va tenuto scientificamente conto. E il campo dello Stato - del potere politico esistente, per come esso è in questo momento, davanti a noi - è strategico. Pensarsi indifferenti al mutare delle configurazioni del potere capitalistico, insomma, è pensarsi ininfluenti ed inutili rispetto alla trasformazione del mondo. E anche di questo paese.


Provo sempre un infinito senso d'insoddisfazione quando giungo al termine di questi articoli.
Le analisi strategiche a me garbano non poco, però ultimamente non si arriva mai ad un sintesi che si possa considerare finale in merito ad un qualsiasi percorso da intraprendere.
Insomma non ci si scolla dalla fase di somatizzazione del problema.

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