La Cina dispiegherà “poche migliaia” di truppe nella base di Gibuti, per cui pagherà alle autorità del Paese del Corno d’Africa 20 milioni di dollari l’anno. A rivelarlo è stato il ministro degli Esteri gibutino, Mahmoud Ali Youssouf, nel corso di un’intervista al Financial Times. Lo scorso maggio era stato il presidente del piccolo paese africano, Ismail Omar Guelleh, a riferire alla France presse di negoziati in corso con la Cina sull’apertura di una base militare cinese, il cui contratto di concessione è stato effettivamente firmato alla fine del 2015.
Come gli statunitensi, ha precisato il ministro al giornale finanziario Ft, anche i cinesi hanno firmato un contratto decennale, con l’opzione di prorogarne i termini per altri 10 anni. La prima base militare cinese all’estero sorgerà infatti accanto a quella dove sono già presenti in media 4.500 soldati Usa impegnati in cosiddette “operazioni anti-terrorismo” nella regione, per cui dal 2014 Washington paga 63 milioni di dollari l’anno.
Finora la Cina ha fatto trapelare ben poche notizie su questa base che sorgerà nel piccolo Paese africano situato in una posizione strategica – e per questo sede anche di una base militare francese – di fronte allo Stretto di Bab el-Mandeb che dall’Oceano Indiano porta al Canale di Suez. Secondo Youssouf, obiettivo principale di Pechino è tutelare i propri interessi nazionali, monitorando il transito delle navi commerciali, e garantendo il rifornimento e il carico dei cargo. Il ministro ha aggiunto che la Cina, che ha in programma di costruire nel Paese un secondo grande aeroporto, avrà anche il diritto di usare i droni come gli Stati Uniti: “Gli americani hanno qui tecnologia, caccia, droni per controllare tutti in questo territorio e oltre. Perché i cinesi non dovrebbero avere lo stesso diritto di ricorrere a tali mezzi? Per tutelare e proteggere i loro interessi nello Stretto di Bab el-Mandeb?”.
Interpellato dal Ft, l’ambasciatore Usa a Gibuti, Tom Kelly, ha ammesso che la coesistenza delle basi cinese e statunitense “rappresenterà una sfida per tutti”. Segno che Washington non è proprio entusiasta della decisione da parte di Pechino di stanziare un massiccio contingente militare in un continente dove è già aspra la sfida con i competitori internazionali – Francia, Gran Bretagna, recentemente anche Germania – e dove il governo e le imprese cinesi hanno già allargato enormemente la loro influenza nell’ultimo decennio togliendo spazio agli interessi statunitensi.
Nel piccolo Paese africano, che conta appena 830.000 abitanti, le esportazioni cinesi sono nove volte quelle di Washington e Pechino è già impegnata nella costruzione di un gran numero di infrastrutture. Guelleh non ha mai fatto mistero di voler trasformare il suo Paese in una sorta di Singapore, costruendo sei nuovi porti e due aeroporti, con l’ambizione di diventare l’hub commerciale dell’Africa Orientale. Complessivamente sono 14 i progetti previsti, per un valore stimato in 14,4 miliardi di dollari, perlopiù finanziati da banche cinesi.
E’ in questo contesto assai poco favorevole che gli Stati Uniti ieri sono tornati a colpire in Somalia. Alcuni funzionari del Pentagono protetti dall’anonimato hanno reso noto che un leader di punta degli al Shabaab somali sarebbe stato ucciso in un attacco condotto giovedì scorso con un drone. Si tratterebbe di Hassan Ali Dhoore, ucciso insieme con altri due presunti membri del gruppo terrorista islamista a circa 20 miglia da Jilib. Il leader del gruppo jhadista legato ad Al Qaeda avrebbe avuto un ruolo centrale nella preparazione di due attentati all’aeroporto e a un albergo di Mogadiscio, a Natale del 2014 e a marzo 2015, costati la vita anche ad alcuni cittadini statunitensi.
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