Continuano gli scontri armati tra azeri e armeni nel Nagorno-Karabakh; nelle ultime ore si segnalano almeno 13 morti tra i militari di entrambe le parti. Fino a ieri, dalla ripresa delle ostilità il primo aprile scorso, i violenti scontri avevano causato già 40 vittime militari e sei civili, oltre a più di 200 feriti. Erevan (capitale dell’Armenia) accusa Baku (capitale dell’Azerbaigian) di continuare a martellare le posizioni avversarie con i razzi Smerč e i droni da bombardamento. Da parte sua Baku ha ordinato la mobilitazione generale di tutte le sue armi pesanti per un possibile attacco verso Khandenki, nome con cui ancor oggi gli azeri identificano la capitale ‘separatista’ Stepanakert (così denominata nel 1923 in onore del leader della Comune di Baku Stepan Šaumjan).
L’Iran aveva lanciato ieri un appello alla moderazione sia all’Armenia sia all’Azerbaigian offrendo una sua mediazione. “La Repubblica islamica dell’Iran farà di tutto per smorzare la crisi” fra i due Paesi, ha dichiarato il ministro della Difesa iraniano Hossein Dehghan nel corso di un colloquio telefonico con il suo omologo azero Zakir Hasanov.
Vienna accoglie oggi un incontro sul Nagorno-Karabakh con la partecipazione dei rappresentanti delle grandi potenze. Presieduto da Francia, Stati Uniti e Russia, il gruppo di Minsk sull’Alto Karabakh in seno all’Osce, creato nel 1992 ed incaricato di trovare una soluzione a questo “conflitto congelato” da oltre 20 anni e riesploso improvvisamente alcuni giorni fa, tenterà di trovare una mediazione tra le parti che allo stato appare assai difficile.
Intanto la crisi sulla repubblica indipendentista armena in territorio azero è stata al centro di un colloquio telefonico avvenuto ieri tra il segretario di Stato Usa John Kerry e il suo omologo russo Sergey Lavrov. “Esortiamo le due parti a cessare immediatamente l’uso della forza e ad evitare ogni forma di escalation” ha affermato il portavoce del dipartimento di Stato Usa, Mark Toner, citando la posizione emersa durante il colloquio. I due ministri “hanno condannato i tentativi di parti esterne al conflitto di aggravare lo scontro”, ha riferito da parte sua il ministero della Difesa russo che ha denunciato con forza le dichiarazioni incendiarie proferite dal presidente turco Recep Tayyp Erdogan. “Ho espresso tutta la mia partecipazione al mio amico Il’kham Aliev per il riaccendersi del conflitto. Continuo a esprimere condoglianze ai soldati e al popolo azero. La Turchia è sempre stata dalla parte dell’Azerbaigian sulla questione del Karabakh e continua a prestargli aiuto. Il nostro cuore soffre per l’occupazione del Karabakh e la morte delle persone e voglio dire che un giorno il Nagorno-Karabakh sarà senz’altro azerbaigiano” ha detto Erdogan nel corso di un discorso televisivo in cui ha ribadito platealmente il proprio sostegno a Baku.
L’improvvisa e inattesa escalation militare, non a caso, giunge in un momento delicatissimo in cui la Russia, che vanta storici legami con l’Armenia, e la Turchia, tradizionale alleata dell’Azerbaigian abitato da popolazioni turcofone, sono protagoniste di un duro scontro economico e politico a partire dagli opposti interessi sullo scenario siriano.
“La politica di Erdogan getta olio sul fuoco e spinge una delle parti a continuare il conflitto. Partendo esclusivamente dai propri interessi e non da quelli collettivi, Ankara agisce così anche riguardo la Siria e ora comincia a farlo con l’Ucraina” ha tuonato senza mezze parole Konstantin Kosacev, presidente del Comitato Esteri del Consiglio Federale Russo.
Nei mesi scorsi, dopo l’inizio del conflitto con Mosca, Ankara ha incrementato il suo sostegno alle forze nazionaliste e neonaziste ucraine, oltre che ad alcuni gruppi di Tatari turcofoni in funzione antirussa in Crimea, ed ora la dichiarazione di fuoco di Erdogan a sostegno ‘dei fratelli azeri’ esplicita la scesa in campo della Turchia a fianco di Baku contro l’Armenia. Com’era già accaduto prima in Siria e poi in Ucraina, il conflitto regionale nel Nagorno-Karabakh potrebbe assumere contorni assai più gravi con il coinvolgimento delle potenze che spalleggiano i due contendenti.
Un distaccamento azero di una sessantina di jihadisti inquadrati nello Stato Islamico, secondo alcune informazioni non verificate, avrebbe lasciato Raqqa per recarsi, attraverso la Turchia, a combattere a fianco delle truppe azere. Sembra che il fatto abbia creato “scandalo” nello stato maggiore dell’Isis scontento per l’abbandono delle loro posizioni da parte degli azeri. Anche la cosiddetta legione georgiana che dal 2014 combatte dalla parte dei nazionalisti ucraini contro le forze delle Repubbliche Popolari del Donbass e che è inquadrata nel 25° battaglione motorizzato “Rus kievliana”, si starebbe apprestando a dar man forte agli azeri. Almeno è quanto ha dichiarato il comandante della legione, il georgiano Mamuka Mamulašvili, che denuncia “la mano del Cremlino” nel conflitto a distanza tra Erevan e Baku.
Nel 1988, quando esisteva ancora l’Unione Sovietica, l’enclave armena del Nagorno-Karabakh si ribellò contro il governo azero proclamando l’indipendenza e chiedendo l’annessione all’Armenia; ne seguì una breve ma intensa guerra vinta sostanzialmente dall’Armenia che, seppur senza ottenere l’annessione vera e propria e il riconoscimento internazionale, riuscì nel 1994 (dopo 30 mila morti e una pulizia etnica reciproca che ha causato centinaia di migliaia di profughi) a stabilire il controllo del contiguo territorio sottratto all’Azerbaigian, ben sette province.
L’ex repubblica sovietica, entrata poi nell’orbita turca e avvicinatasi alla Nato, ha dovuto allora subire la sconfitta, ma non ha mai rinunciato alla vendetta. E ora sembra che il regime islamo-nazionalista di Erdogan, nel tentativo di uscire dall’isolamento e dalla crisi in cui la sua irresponsabile politica estera ha cacciato Ankara, stia spingendo Baku contro l’Armenia per danneggiare Mosca e i suoi interessi nel Caucaso. Una rivalsa rispetto alla frustrazione dei piani egemonici di Erdogan in Siria che però rischia di incendiare tutto il Caucaso, regione già al centro di innumerevoli conflitti e contese, e di sfociare in una crisi di enormi dimensioni. Il Nagorno-Karabakh è infatti incastonato tra Turchia, Iran, Georgia e Cecenia, e la destabilizzazione della Siria e dell’Iraq ha già prodotto l’insediamento in Azerbaigian di alcuni gruppi jihadisti collegati allo Stato Islamico ed al Qaeda. D’altronde è proprio dai vari territori russi nel Caucaso che vengono migliaia di combattenti jihadisti impegnati da anni nel conflitto siro-iracheno (finora sarebbero un centinaio gli azeri dell’Isis uccisi nei combattimenti in Siria); ed ora che le cose da quelle parti non vanno troppo bene in molti stanno tornando a casa.
Il problema non è solo che per il Caucaso passano le faglie che oppongono, a volte da decenni, in certi casi da secoli, potenze grandi e piccole, per motivi geo-strategici, culturali e religiosi (popolazioni cristiane contro territori a maggioranza musulmana). Un elemento di complicazione ulteriore, e non certo indifferente, è rappresentato dal fatto che l’Azerbaigian è un produttore di petrolio e di gas, il che ha garantito a Baku qualche anno di vacche grasse mentre ora il crollo dei prezzi sui mercati internazionali ha gettato il paese nella crisi. Ad opporre, anche in questo caso, Mosca e Ankara, c’è il Southern Gas Corridor, un gasdotto da ben 45 miliardi di dollari che dal 2019 dovrebbe portare il gas azero dal Mar Caspio all’Europa, passando per ben sette Paesi, con l’obiettivo di aggirare la Russia e rendere l’UE meno dipendente dalle esportazioni da Mosca.
Al di là delle pressioni turche il presidente azero Aliyev sta tentando di utilizzare la fiammata sciovinista sulla riconquista dei “territori irredenti” per cercare di sviare l’opinione pubblica interna dai gravi problemi economici e sociali che interessano il paese, eccessivamente dipendente dalle esportazioni di greggio. Anche il presidente armeno Serzh Sargsian, alle prese nei mesi scorsi con una ribellione popolare (in parte spontanea, in parte ispirata dagli ambienti filo Nato) provocata dall’aumento del prezzo della bolletta elettrica, alza i toni della contesa con Baku e minaccia di annettere unilateralmente il Nagorno-Karabakh se l’Azerbaigian continuerà ad attaccare le forze di Stepanakert.
Mosca, che pure sostiene l’Armenia, teme l’escalation e tenterà di disinnescare un conflitto che potrebbe sfociare in una guerra diretta tra Armenia e Azerbaigian coinvolgendo, volente o nolente, sia Mosca sia la Turchia; lo stesso timore è avvertito da Teheran, che parteggia per Erevan ma non vede di buon occhio una nuova crisi ai suoi confini, considerando anche il fatto che i territori di frontiera sono abitati da milioni di abitanti di etnia e lingua azera.
D’altronde negli ultimi 20 anni i rapporti di forza tra Armenia e Azerbaigian si sono ribaltati; dalla sconfitta del 1994 Baku ha investito molta parte dei proventi delle esportazioni di petrolio in armi – spesso acquistate da Mosca – ed ora il potenziale del suo esercito è assai superiore a quello di Erevan. Attualmente il regime azero spende in armamenti una cifra che eguaglia l’intero Pil armeno ed è attivamente sostenuto da Tel Aviv, che non a caso, dopo anni di relativo gelo, ha recentemente riattivato le tradizionali buone relazioni con Ankara in nome del “comune nemico”.
Come ricorda Michele Giorgio su Il Manifesto di questa mattina “Tel Aviv ha addestrato le truppe speciali azere e fornito, con un accordo da 1,6 miliardi di dollari, armamenti dell’ultima generazione, inclusi i droni che Baku usa in questi giorni. Qualche anno fa la nota rivista Foreign Policy rivelò che l’Azerbaijan aveva messo a disposizione di Israele alcune basi aeree abbandonate, offrendo così a Tel Aviv la possibilità di attaccare con facilità le centrali atomiche iraniane”.
Sul fronte opposto gli interessi e gli investimenti, non solo economici, russi in Armenia sono molto consistenti. Ricorda Alberto Negri su Il Sole 24 Ore: “Nel 2013 Erevan si è impegnata a trasferire il 20% delle azioni di ArmRosGazprom (società che regola la distribuzione di gas) alla russa Gazprom per coprire un debito di 300 milioni di dollari, consegnando la gestione del gas nel Paese a Mosca. (…) La presenza russa in Armenia non è giustificata soltanto come un appoggio a un Paese cristiano ma anche da questi interessi contrastanti e concorrenti sulle vie del gas. Putin ha quindi ottenuto dal governo di Erevan l’installazione di due basi militari russe, nella città di Erebuni (a nord della capitale) e a Gyumri (al confine con la Turchia)”.
La Russia non può proprio permettersi di perdere altre posizioni e non può lasciare che un proprio alleato e protetto soccomba di fronte all’aggressione di un paese della Nato. Difficilmente Mosca potrà evitare di intervenire a difesa di Erevan nel caso in cui la sua opera di mediazione dovesse fallire.
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