Chiara Cruciati – il Manifesto
Giulio come Khaled: il
doloroso parallelo tra i due 28enni, massacrati dalla brutalità del
regime egiziano, lo aveva ricordato la madre del giovane egiziano,
Layla. In un video messaggio alla madre di Regeni, Paola Deffendi, ha
fatto suo il dolore per il ricercatore italiano e ringraziato per
l’attenzione che la famiglia ha attirato sui casi di migliaia di
egiziani scomparsi nel silenzio.
Oggi quel parallelo lo vede anche la voce del governo egiziano, il quotidiano al-Ahram.
In un editoriale di domenica, il direttore Mohammed Abdel-Hadi Allam
avverte del pericolo che Il Cairo corre, molto simile a quello che sei
anni fa portò alla caduta di Mubarak: il caso Regeni ha le stesse
potenzialità distruttive per il governo egiziano del caso di Khaled
Said. Nel giugno 2010 il giovane era stato pestato a morte ad
Alessandria dalla polizia. La foto del suo corpo martoriato è stata resa
pubblica, visualizzazione fisica dell’atrocità del regime (esattamente
come la famiglia Regeni ha promesso di fare se la verità non verrà a
galla) ed è diventata il simbolo della rabbia del popolo egiziano, di
attivisti e giovani che hanno lanciato campagne online e per le strade.
Un’escalation che sei mesi dopo ha trovato il suo sbocco in Piazza
Tahrir.
Per questo Khaled è considerato il primo martire della rivoluzione,
il sasso che ha generato la valanga sotto cui è sparito Mubarak.
Abdel-Hadi Allam ne è convinto: il “sasso” Regeni, scomparso
proprio nell’anniversario della rivoluzione, può avere lo stesso effetto
sul presidente-golpista al-Sisi. Domenica ha avvertito i
vertici dello Stato, colpevoli di non aver afferrato la gravità della
situazione: «Il caso di Said non andò come molti all’epoca si
aspettavano – scrive il direttore di al-Ahram, nominato dall’esecutivo
come i predecessori – La storia naive sulla morte di Regeni ha
danneggiato l’Egitto all’esterno e all’interno e ha offerto la
giustificazione per paragonare quello che avviene oggi nel paese con
quello che avveniva prima del 25 gennaio 2011».
Un regime dittatoriale, uno Stato di polizia che al-Ahram –
il più diffuso quotidiano della regione – dalle sue colonne descrive con
prudenza: riporta notizie di sparizioni e torture (soprattutto
nel corso dell’ultimo anno, pubblicando reportage sulle condizioni
delle carceri e le campagne degli attivisti anti-governativi) ma le controbilancia con le voci governative che negano una repressione che è strutturale, istituzionalizzata.
Stavolta però si gioca fuori casa: annunciate i risultati dell’inchiesta
con trasparenza, scrive Abdel-Hadi Allam, o metterete in serio pericolo
le relazioni con l’Italia, il cui governo ha dimostrato dalla prima ora
l’apprezzamento per la piega presa dal Cairo di al-Sisi. Il fatto che
simili parole – ricerca della verità, storia naive – siano pronunciate
da un giornale di proprietà dello Stato lascia il re nudo: «Alcuni
funzionari che non capiscono il valore della verità pongono lo Stato
egiziano in una situazione imbarazzante ed estremamente grave. Chiediamo
allo Stato di affrontare il caso con la massima serietà e portare di
fronte alla giustizia i colpevoli. Quelli che non colgono il pericolo
per le relazioni tra Egitto e Italia stanno spingendo verso una rottura
dei rapporti diplomatici».
Il governo non pare avere il polso della situazione, con
un’opinione pubblica ormai ampiamente schierata contro le posizioni dei
vertici. Che continuano a rilasciare dichiarazioni per poi
rimangiarsele. La strategia del “avete capito male”, però, non dà i
risultati sperati. Dopo giorni di rimpalli tra Ministeri degli Esteri e
degli Interni, domenica a negare di aver mai attribuito la
responsabilità della morte di Giulio alla fantomatica banda criminale è
stato lo stesso dicastero responsabile della polizia. Quel Ministero
degli Interni che aveva pubblicato le foto di un vassoio d’argento con
su i documenti di Regeni, dicendo di averli trovati in casa della
sorella del capo banda, Tareq Abdel Fattah, domenica ha negato durante
la trasmissione tv al-Haya al Youm di aver mai detto che la gang avesse
ucciso il giovane.
La televisione resta il luogo preferito per esporre teorie e
opinioni. Come successo in passato, c’è chi torna sulla versione del
complotto internazionale ordito dai Fratelli Musulmani: Rifaat el-Said,
esponente del Partito dell’Unione di Sinistra, sul canale Al-Assema ha
“identificato” Regeni come «agente di un apparato italiano» e posto il
dubbio che la Fratellanza «possa essersi infiltrata negli apparati
egiziani per mettere l’Egitto in crisi». Resta ancora in silenzio il
parlamento, ora su indicazione del presidente della Camera dei
Rappresentanti: ieri Ali Abdel Aal ha ordinato ai parlamentari di non
trattare il caso Regeni durante le sedute pubbliche.
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