Ci siamo già occupati, diffusamente, nei mesi scorsi della crescente contrapposizione tra due vecchi alleati, Stati Uniti ed Arabia Saudita, i cui interessi e la cui agenda divergono sempre più. Quella che è stata a lungo una tensione latente – alla quale Obama ha tentato di rimediare cercando di venire incontro ad una petromonarchia che aspira però al ruolo di superpotenza e soffre le pretese egemoniche di Washington – sembra ormai emersa in uno scontro frontale tra i due paesi.
I segnali di questa contrapposizione sono molti. Ma forse quello più esplicito viene dall’approvazione il 17 maggio, da parte del Senato degli Stati Uniti, di una legge che permette alle vittime degli attacchi dell’11 settembre del 2001 contro le Torri Gemelle ed altri obiettivi sul suolo statunitense di far causa all’Arabia Saudita e chiedere al governo di Riad un risarcimento. E questo non solo perché ben 15 dei 19 attentatori erano di nazionalità saudita, ma anche perché un dossier dei servizi di intelligence statunitensi, a lungo secretato, rivela che le menti e gli esecutori degli attacchi dell’11/9 avevano stretti legami con gli apparati sauditi. Un coinvolgimento che si conosceva da molto tempo, ma che le varie amministrazioni americane avevano sempre censurato, evitato di affrontare, nascosto alla propria opinione pubblica in nome degli stretti legami con un paese che Washington ha a lungo sperato di riportare sotto il proprio controllo e che già con la nascita e lo sviluppo di Al Qaeda invece rivelava la sua voglia matta di stendere i propri tentacoli ben al di là dei propri confini, facendo a meno della tradizionale tutela politica e militare statunitense. Dopo una serie di tentativi falliti di riportare Riad all’ordine, ecco che improvvisamente il ruolo saudita negli attacchi del 2001 viene spifferato ai quattro venti da quegli stessi apparati statali e politici che per 15 anni l’avevano occultato e che cominciano a pensare che in fondo il regno wahabita cominci a rappresentare un problema non secondario per il mantenimento di un’egemonia americana in Medio Oriente già ridotta ai minimi termini.
La legge, che ora deve passare all’esame della Camera, è sostenuta sia dai Repubblicani sia dai Democratici ed è passata all’unanimità, nonostante l’aperta opposizione da parte del presidente Obama che ha minacciato di apporre il proprio veto per bloccarne l’iter richiamandosi alla legge del 1976 che prevede l’immunità per i paesi terzi da azioni legali intentate nei tribunali degli States. Ma i parlamentari, oltre alle associazioni delle vittime e dei parenti dei morti dell’11 settembre, si battono per imporre un’eccezione alla legge in questione laddove un paese straniero risulti colpevole di aver fomentato attacchi terroristici che abbiano preso di mira cittadini statunitensi sul suolo degli Stati Uniti (una norma che può rivelarsi utile, evidentemente, in futuro, anche nei confronti di altri nemici del paese).
Il disegno di legge è sostenuto in particolare dal senatore democratico di New York, Charles Schumer e dal repubblicano John Cornyn. «Gli Stati Uniti hanno bisogno di utilizzare ogni strumento a disposizione per fermare il finanziamento del terrorismo. Le vittime e le famiglie che hanno perso i propri cari in attacchi terroristici meritano la possibilità di chiedere giustizia», ha dichiarato Cornyn. «Le vittime hanno già sofferto troppo a loro non dovrebbe essere negata la possibilità di avere giustizia» gli ha fatto eco Schumer.
Se anche Obama dovesse usare il suo potere di veto per bloccare la misura, l’unanime sostegno alla legge sia da parte dei Repubblicani sia da parte dei Democratici lascia prevedere che una maggioranza dei due terzi dei componenti del parlamento in grado di bypassare il veto presidenziale è a portata di mano. D’altronde lo stesso Obama ha recentemente accusato i sauditi di «parassitismo» perché non si prodigano abbastanza nella lotta contro il jihadismo in Medio Oriente.
E se la Casa Bianca decidesse di declassificare i documenti frutto delle inchieste della propria intelligence e dell’inchiesta del Congresso risalente al 2002, che dettaglia il ruolo degli apparati sauditi negli attacchi del 2001 la tensione con Riad potrebbe esplodere. Da tempo il regime saudita minaccia forti rappresaglie se Washington dovesse approvare il disegno di legge e rendere pubblico il dossier finora classificato. In particolare il Ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir, già a marzo aveva avvertito che Riad è pronta a vendere 750 miliardi di dollari in titoli del Tesoro statunitense e altri asset d’oltreoceano oggi di sua proprietà, con l’obiettivo di sottrarli ai procedimenti legali per risarcimento eventualmente intentati nei tribunali statunitensi dai parenti delle vittime delle Torri Gemelle.
Che le relazioni tra Washington e Riad non siano affatto idilliache traspare anche da una intervista, realizzata dal giornalista del Corriere della Sera Federico Fubini, nella quale Amos Hochstein, l’inviato speciale per gli Affari dell’Energia della Casa Bianca si scaglia contro la casa reale wahabita anche se in maniera alquanto sibillina. Ora che il prezzo del Brent è tornato a circa 50 dollari al barile Hochstein descrive il suo paese come “una superpotenza dell’energia” vantando il fatto che i paesi che fanno parte dell’Opec abbiano perso il controllo sul prezzo del greggio ora che i produttori statunitensi dello ‘shale’ (gas e petrolio ottenuti con la tecnica del fracking) glie lo hanno sottratto.
Washington ha il dente avvelenato con l’Arabia Saudita che lo scorso anno ha abbattuto il prezzo del greggio fino a portarlo a 30 dollari al barile, allo scopo non solo di far crollare gli introiti delle potenze concorrenti – in particolare Russia, Iran, Venezuela e Nigeria – ma anche di affondare l’industria statunitense dello “shale oil”, redditizia a partire da un prezzo superiore ai 50-60 dollari al barile. I sauditi, ricorda Fubini, hanno lasciato che il barile si deprezzasse per mettere i produttori Usa fuori mercato, ma Hochstein annuncia lo ‘scampato pericolo’: «La rivoluzione dello shale e la nostra industria sono più resistenti di quanto alcuni pensassero” afferma l’esponente dell’amministrazione Usa in tono assai polemico e vendicativo. «Nel nostro Paese dal 2012 abbiamo aumentato la produzione da sei a oltre nove milioni di barili al giorno. Abbiamo aggiunto un Kuwait, più di un Kuwait. E abbiamo l’agilità dalla nostra. Anche la natura del mercato è cambiata, vaste aree del mondo stanno diventando più efficienti nell’uso di energia per auto, aerei, navi (…) gli Stati Uniti d’America oggi sono una superpotenza dell’energia. Abbiamo quasi raddoppiato la nostra produzione in dieci anni. Ci siamo trasformati dal più grande importatore di gas naturale in uno dei più grandi esportatori. Abbiamo investimenti fenomenali nelle rinnovabili» continua l’orgoglioso e roboante Hochstein. Secondo il quale i sauditi, non volendo, avrebbero addirittura fatto un favore ai propri alleati/nemici: «grazie al basso costo della nostra energia, in America è tornata l’industria manifatturiera».
Nella seconda parte dell’interessante intervista, però, l’esponente della Casa Bianca si scaglia contro Russia ed Unione Europea, in particolare contro il progetto di pipeline denominato “North Stream 2” che dovrebbe andare da Mosca a Berlino. «Il modo migliore per impedire agli altri fornitori di competere con il gas russo è di fare nuovi gasdotti e ora il più importante è North Stream 2. C’è anche un altro problema: se fai North Stream 2, sostanzialmente stai togliendo all’Ucraina il transito verso la Germania (con la conseguenza, ndr) che l’80% del gas russo verso l’Europa arriva in un solo luogo, in Germania, e non è sano. La seconda è che dal 2019 togli due miliardi l’anno di entrate da transito all’Ucraina e uno alla Slovacchia».
Nel mirino delle dichiarazioni di Hochstein c’è l’aspirazione di Bruxelles – e di Berlino in particolare – a scavalcare gli Stati Uniti e a perseguire una propria indipendenza energetica legata in gran parte alle esportazioni russe: «(il North Stream 2) non è un progetto che contribuisca all’Unione dell’energia in Europa, dunque va studiato attentamente. Bisogna vedere se è un progetto economico o politico. Se è politico, forse sarebbe meglio ripensarci».
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