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05/10/2016

Cifre inventate sul Pil. Renzi si gioca le ultime carte

Alla lunga lista delle forzature istituzionali, al limite e oltre l'incostituzionalità, il governo Renzi ha aggiunto un'altra perlina. Piuttosto rilevante: le cifre scritte nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza non hanno ottenuto il via libera, la cosiddetta “bollinatura”, da parte dell'Ufficio Parlamentare di Bilancio. E pensare che ci era sempre riuscito persino l'esperto di “finanza creativa”, quel Giulio Tremonti sempre irriso dai megatecnici della Ue (Mario Monti, per dirne uno).

Stiamo parlando della più importante legge dello Stato, quella che decide entrate e uscite per il prossimo anno, quindi anche la lista dei beneficiati e dei tartassati. Una legge che deve ottenere il via libera anche dall'Unione Europea, che ne riscriverà alcune parti oppure lascerà perdere per non mettere in difficoltà ulteriori l'unico governo possibile che obbedisca in pieno ad ogni ordine (le sceneggiate di Renzi ad uso interno sollevano al massimo qualche sorrisetto). Il motivo di questa bocciatura – accompagnata da un giudizio altrettanto critico da parte della Banca d'Italia (non proprio un baluardo dell'opposizione, diciamo così...) – è noto da giorni: il governo “stima” che il Pil italiano crescerà il prossimo anno dell'1%, nonostante anche i centri di ricerca più ottimisti si fermino allo 0,6%. Confindustria, che pure ne mastica, si ferma addirittura allo 0,5.

Decimali poco significativi per i profani, ma che spostano decisamente i limiti di quel che il governo può fare oppure no. Si tratta di una differenza di quasi 7-8 miliardi (il Pil italiano viaggia intorno ai 1.600 miliardi annui), che implica anche qualche differenza nei rapporti percentuali col deficit e col debito. Più il Pil atteso è alto, migliore è quel rapporto, più soldi possono essere spostati a fini elettorali. Referendari, per la precisione.

Numeri campati in aria, si può leggere tra le righe di critiche esposte con il linguaggio diplomatico d'obbligo per istituzioni dello stato, ma per nulla apprezzate in sede governativa. Le risposte dello stesso Renzi e soprattutto di Pier Carlo Padoan (ministro dell'economia ed ex capo-economista dell'Ocse) sono state piuttosto stizzite, ma prive di argomentazione credibile.

Nessuno è insomma in grado di rispondere a una domanda relativamente semplice: perché mai una riduzione del deficit dello 0,5% o il disinnesco delle clausole di salvaguardia (aumento del 2% dell'Iva, nel caso le previsioni fossero sbagliate) dovrebbero far lievitare il Prodotto interno lordo? Al massimo, spiegano i manuali di macroeconomia liberisti, la sterilizzazione dell'Iva evita di provocare altri danni, ossia di abbassare ulteriormente il Pil e i consumi. Non può certo avere l'effetto opposto...

In ogni caso, le serie storiche – ossia la realtà economica consegnata ormai alle statistiche – mostrano che quell'effetto non si è mai verificato.

Ci sono, nella legge di bilancio in gestazione, altre misure pro-crescita così potenti da far quasi raddoppiare la crescita attesa? A leggerla si direbbe di no (e lo dicono anche l'Upb e Bankitalia), ma il governo scommette di sì. Un po come in Fascisti su Marte, “respirate e andrete avanti”, anche se l'aria non c'è...

Per somma sfortuna, nelle stesse ore, anche il Fondo Monetario Internazionale rivedeva al ribasso la crescita attesa per l'Europa e dunque anche per l'Italia. Un +0,9% abbastanza vicina alla scommessa governativa, ma con una dinamica ribassista obbligata (crescita zero nel secondo trimestre, già in archivio).

La logica economica consiglierebbe prudenza, perché sforamenti eccessivi nel 2017 comporterebbero tagli paurosi – ordinati dalla Troika (Ue,Fmi e Bce) – nell'anno successivo. Ma questo orizzonte sembra lontanissimo nella visione del governo in carica, che ha puntato tutte le sue speranze di sopravvivenza sul referendum del 4 dicembre. Quel che avverrà nel 2018, insomma, non sarà affar suo se vince il NO; e se dovesse anche vincere il sì la “nuova costituzione” gli assegnerebbe poteri eccezionali, oltre a un sistema mediatico al di sotto di ogni soglia di attendibilità.

Il problema è tutto nostro invece. Persino i “renziani della prima ora” – il gruppo Repubblica L'Espresso, per capirci – si mostrano ora fortemente preoccupati. Il debito pubblico, dopo anni di tagli, sacrifici, privatizzazioni, resta assolutamente intatto, intorno al 133,4% del Pil. E dire che grazie al quantitative easing della Bce i tassi di interesse sul debito stesso sono quasi a zero. Significa che per finanziare o rifinanziare quel debito lo Stato spende la cifra più bassa di tutta la sua storia. Era un'occasione – in ottica liberista – per ottenere risultati straordinari in termini di riduzione. E invece nulla. La montagna non è stata neanche scalfita. Repubblica è un giornale liberista che si atteggia a liberal, di solito mente ma stavolta, nella sua logica perversa, ha qualche ragione. Se Renzi non avesse usato tutto il margine consentito dai trattati europei e dal bazooka impugnato da Mario Draghi in regalie a pioggia per acquistare (in senso stretto) un po' di consenso popolare transitorio (gli 80 euro, gli sgravi alle imprese, i contributi azzerati a chi assume, ecc.), quella montagna sarebbe ora un po' più bassa e si lascerebbe scalare con più facilità.

Ovvio che se Renzi avesse fatto come consiglia Repubblica (e il Corriere, e Confindustria, e la Troika, ecc.) non avrebbe avuto neppure quell'anno di popolarità che gli ha permesso di portare a casa provvedimenti ignobili come il Jobs Act, la “buona scuola”, la “riforma costituzionale”, ecc. Sarebbe stato individuato fin dal primo minuto come un cane feroce, antipopolare rapidamente messo da parte, come avvenuto con Monti e Letta.

Il problema, per il grande capitale multinazionale europeo, è che questo governo non appare capace di cambiare logica e passo. Sa solo promettere tempi migliori che non arrivano mai. E per crearsi un margine di credibilità per queste promesse, si è ridotto a inventarsi anche una crescita economica al di là dell'immaginabile.

Ne siamo certi. Se vince il NO la pazienza del capitale multinazionale finisce e per Palazzo Chigi verrà scelto un “volto nuovo”. Insomma, meno sputtanato.

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