Da diverso tempo si chiede a gran voce l’istituzione di forme di
controllo specifiche sui contenuti presenti nel web. La rete,
soprattutto la sua evoluzione social, è un incontrollabile
contenitore di boiate: è possibile controllarle? Come fare per ridurle?
Il tema è complesso e solo superficialmente relegabile alla dimensione
online attuale. In realtà, il controllo delle opinioni è una tentazione
presente in ogni regime politico. La rete ha solo amplificato (a
dismisura, in effetti) il fenomeno. Ma la questione è sovrapponibile a
quella, invero più importante, del reato di negazionismo. In
Italia è stato introdotto proprio quest’anno, non tenendo conto di una
profonda linea critica rispetto al perseguimento giuridico delle proprie
opinioni. Perché di quello si tratta: aprire il varco della repressione
delle idee genera mostri. Questo il motivo per cui anche – e soprattutto – i comunisti, si sono sempre battuti contro l’istituzione del suddetto reato (e non solo loro). Oggi colpisce chi nega l’olocausto. Domani finirà per colpire chi si professa ancora comunista. Già oggi in metà dell’Europa è reato organizzare un partito comunista. Nell’altra metà, vige la condanna del “totalitarismo comunista”.
Questa è la traiettoria inevitabile a cui porta l’istituzione per legge
di forme di repressione delle idee. Ecco perché con la censura delle
opinioni bisogna andarci molto cauti. Oggi che le classi subalterne non
hanno alcun rapporto di forza spendibile sul piano delle idee, istituire
forme coercitive di controllo e sanzionamento delle opinioni si
tradurrebbe automaticamente in controllo e sanzionamento delle opinioni
sgradite al potere politico ed economico vigente.
La pensa così anche Vladimiro Giacchè, intervistato pochi giorni fa dal Fatto Quotidiano
proprio in merito alle ipotesi di censura delle opinioni espresse
online. Infatti sotto accusa non sono quei media (giornali, settimanali,
televisioni, cinema, eccetera) mainstream, ma la singola
opinione del singolo utente. Non è un controllo su chi crea
informazione, ma sull’utente finale, che la digerisce nelle forme
mistificate generate dalla rete. Eppure i primi e fondamentali
propulsori di cazzate, di “bufale”, di falsità, di “post-verità”, sono
proprio quei media mainstream che in questo dibattito
vorrebbero ergersi a controllori dell’opinione altrui, certificatori di
una verità contrapposta alla pletora di falsità presenti nel web. E’ più
grave un napalm51 qualsiasi che sfoga online le sue
frustrazioni esistenziali, o la schiera di media di regime che avallano
da venticinque anni la sequela di guerre in Medioriente? Chi genera più
morti? Chi peggiora la condizione dell’uomo? E, come evidente, si
potrebbe proseguire per giorni interi. Per un sintesi decisiva,
rimandiamo a La fabbrica del falso, sempre di Vladimiro Giacchè, che sviscera un metodo, quello
cioè di fabbricare punti di vista, generalizzarli attraverso
l’immissione costante di notizie false spacciate per vere, e con cui
veicolare il consenso attorno alle operazioni di controriforma sociale
che hanno investito l’Occidente da un trentennio a questa parte.
L’obiettivo politico che ha stimolato tutta la recente discussione è
d’altronde esplicitato senza remore: “bisogna fermare il populismo”, sbraita Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, ripreso addirittura dal Financial Times, segno
che il dibattito è tutto fuorché locale. E’ un problema globale, ma
soprattutto è un problema occidentale. E’ l’Occidente che è in crisi
economica. E’ la crisi economica che genera malcontento,
insoddisfazione, rabbia, odio. E’ la crisi economica che determina lo
scollamento attuale tra classi subalterne e classi dirigenti. Questa
instabilità permanente si riversa in rete, attraverso le più improbabili
e curiose alienazioni mentali, ma non sono “le bufale della rete che
generano il populismo”, secondo l’illuminante visione di Pitruzzella e
sodali, ma l’impoverimento generalizzato che crea disaffezione e
disillusione. In questo senso la rete non fa che amplificare questo
malcontento. Peraltro, dovrebbero essere grati proprio a Internet i
nostri politici, visto che in questi anni, lungi dall’essere vettore
organizzativo, ha assunto al contrario il ruolo di metadone sociale dove
annullare ogni forma di partecipazione o mobilitazione politica, in
funzione del chiacchiericcio social perpetuo e onnicomprensivo.
La rete depotenzia il populismo, se proprio vogliamo darle un ruolo in
tal senso. Depotenzia cioè la possibilità di organizzare concretamente
ciò che aleggia idealmente. Impedisce alla rassegnazione di tramutarsi
in partecipazione. La rete è una forma di controllo, non di relazione.
Ed è una forma di controllo perché la rete non è l’autogoverno dei
cittadini connessi a Internet, ma un prodotto industriale generato e
controllato da pochissime aziende-mondo. E’ un oligopolio
iper-verticistico che non consente alcuna forma di orizzontalità. Quello
che i cantori delle magnifiche sorti e progressive della rete scambiano
per “orizzontalità” è piuttosto un’anarchia indotta delle forme e dei
contenuti.
Ma c’è anche un altro motivo per combattere la logica censoria del potere. Se, come abbiamo visto seguendo i lavori di Dardot e Laval, l’ordoliberalismo si presenta come razionalità, anzi: come unica razionalità,
l’obiettivo è proprio quello di confinare nell’irrazionalità tutte
quelle forme della politica che contestano il liberismo stesso. “Se non
la pensi come il capitalismo ordoliberale, vuol dire che non hai studiato”.
E’ la tecnicizzazione delle questioni politiche, per cui queste non
rispecchiano rapporti di forza sociali, ma costituiscono un terreno
neutro e presuntamente scientifico, dove a (dover) prevalere sono le
logiche razionali (del capitalismo, ovviamente). E’ un processo storico
di vasta portata, che non si riduce alla diatriba sul controllo della
rete, ma di cui fa parte anche questo ennesimo tentativo di espellere
dal novero della politica ogni alternativa allo stato di cose presenti.
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